Il titolo del saggio
del teologo statunitense John Shelby Spong ‒ Vita eterna: una nuova visione (Gabrielli editori) ‒ potrà apparire
assai discutibile per i non credenti, solitamente a disagio con i termini metafisici;
ma credo il sottotitolo possa risultare meno problematico anche per loro,
giacché precisa che la suddetta inedita “visione” intende procedere: Oltre la religione, il teismo, il cielo e
l’inferno. Questa è infatti la novità proposta dal pur sedicente cristiano
Spong: prendere le distanze risolutamente/definitivamente da concezioni
tradizionali quali, ad esempio, l’idea di una divinità soprannaturale e
personale “che ricompensa e punisceˮ nell’aldilà, la fede nei miracoli operati
dal Cristo, il credere che Dio abbia preteso il sacrificio del proprio figlio
unigenito per redimere l’umanità o il ritenere plausibile la resurrezione corporale
di un defunto, che, a detta dei vangeli: “tre giorni dopo la sua crocefissione,
camminava letteralmente e fisicamente fuori dalla sua tomba, con il segno dei
chiodi sulle mani e sui piedi ancora intattoˮ.
Tali credenze ‒
secondo il nostro teologo ‒ oggi non sono più sostenibili ed il cristianesimo,
se vuole avere un futuro, non può seguitare ad essere “l’irrilevante spettacolo
religiosoˮ a cui sembra sia stato ridotto da conservatori e bigotti. Bisogna
insomma, leggiamo nel saggio, farla finita una volta per tutte con una
religiosità “infantileˮ e constatare che il dio del teismo è morto, come ebbe a
dire Nietzsche già nel XIX secolo. A onor del vero, va tuttavia sottolineato
come molti dei rilievi critici di Spong siano stati espressi durante il
Novecento da teologi illuminati come Bultmann ‒ il quale parlava delle
Scritture come di una mitologia da demitizzare ‒, come Tillich ‒ per cui Dio era
transpersonale fondamento di tutto l’essere ‒ o Bonhoeffer ‒ che auspicava
l’avvento di una cristianità areligiosa.
La domanda basilare che
si/ci pone Spong è la seguente: “Quali aspetti della vita umana sono stati
definiti usando la parola «Dio»? Se infatti tale immagine metaforica, tale
cifra allusiva ha ancora un senso, va ricondotta all’interno della vita e di
tutto ciò che esiste e non al di fuori di essi: in qualche inconcepibile oltre-mondo.
In tale ottica Dio potrebbe venire concepito non come un’entità superiore,
“bensì come un processo che ci attira dentro l’essere, non come una persona ma
come il processo che invera la personalità nell’essereˮ. E forse quanto è stato
chiamato ambito divino o sacro, altro non è che ciò in cui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, per dirla con un’espressione
tratta dagli Atti degli Apostoli.
Dio inoltre, secondo
Spong, sarebbe presente ovvero si darebbe: “ogni volta che una persona
trascende i confini umani e vede un quadro di unità, non di separazione”.
Panteismo (tutto è Dio), allora, o forse panenteismo (tutto è in Dio)? Il
nostro teologo non ama la semplificazione attraverso formule filosofiche di
comodo; anzi è convinto che: “Nessuna parola umana, antica o moderna, può
esprimere la verità definitiva”, e rifugge dalla tentazione di assolutizzare il
suo discorso che, semmai, fa riferimento a ciò che Tillich chiamava l’Eterno presente, oppure ai mistici, i
quali, parlando di Dio accennano a una realtà senza tempo. I mistici, da sempre
guardati con sospetto da ogni Chiesa perché eterodossi, anticonformisti e poeti
nel trattare a modo loro di spiritualità.
E così veniamo al tema
cruciale del saggio, all’idea di eternità quale metamorfosi e perenne permanere
atemporale nell’essere da parte dell’esistente. Paroloni, diranno in molti. Però
è giusto attraverso il linguaggio che da sempre l’uomo ha cercato di dar voce
alle proprie intuizioni ed emozioni profonde, seppure paradossalmente indicibili. È il tentativo che fa Spong,
pur consapevole che ogni umano conoscere è limitato appunto dal nostro
linguaggio e dalla nostra configurazione mentale; anche se egli avverte come la
vita esprima un’eccedenza di senso generatrice di stupore, meraviglia e
gratitudine: per avere appunto ricevuto gratis
l’esistenza. In conclusione, mi sia consentito lasciar la parola al nostro
teologo e al suo tentativo di articolare un discorso in merito a ciò che egli
intende con l’espressione vita eterna.
“La ricerca umana
della vita dopo la morte non si basa quindi in alcun modo sulla pretesa che la
mia vita o quella di chiunque altro sia immortale; si fonda su una nuova
consapevolezza che la vita umana autocosciente condivide l’eternità di Dio e
che, nella misura in cui sono in comunione con quella forza vitale in perpetua
espansione, quella potenza d’amore che arricchisce la vita e quell’inesauribile
Fondamento dell’essere, io vivrò, amerò e sarò parte di ciò che Dio è, non
vincolato dalla mia mortalità ma dall’eternità di Dioˮ.