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Hölderlin e le "poesie scelte"
Francesco Roat
1843, Tübingen, Germania. In una stanza (chiamata la torre per la sua architettura) di
casa Zimmer, dove è ospitato/accudito da oltre tre decenni, Hölderlin riceve gli
ultimi, devoti visitatori cui regala brevi composizioni scritte di getto. Sono
le cosiddette poesie della torre: estremi
lasciti/lacerti del grande poeta. Una quieta ma incurabile follia lo abita,
tuttavia appare sempre ispirato. Il motto con pseudonimo che egli pone in calce
alle ultime opere, dalla datazione incongrua, è straniante: “mit Untertänigkeit (con
umiltà/devozione) Scardanelli”. Ma la
poesia, vergata pochi giorni prima di morire e che pone fine alla sua
vastissima produzione, pare scritta oggi tanto è icastica, allusiva e
soprattutto vicina alla sensibilità contemporanea: così priva di certezze ma
vogliosa di trovare un senso, sia pure immanente, al qui ed ora del nostro hiersein, del nostro esserci, per dirla con un altro poeta, Rilke.
“Quando lontano va la dimora della vita,/ dove lontano
splende il tempo della vite,/ là è anche il campo vuoto dell’estate,/ la selva
appare d’immagini oscurate;// che la natura compia l’immagine dei tempi,/
permanga lei, loro corrano svelti,/ allora è perfezione, l’alto dei cieli
splende/ all’uomo, come gli alberi di fiori si coronano”.
Dove/come inquadrare allora un simile artista? Taluni
critici vedono senz’altro in questo vate, vissuto tra Sette e Ottocento, il
poeta che pone fine alla classicità; altri lo ritengono il primo versificatore
dell’età moderna o l’ultimo dei romantici. Di certo egli è stato uno dei più significativi
lirici europei. Certamente nessun coevo ha colto, alla pari di lui, i segni di
una crisi che − alla fine del secolo, solo a metà del quale Hölderlin è
scomparso − porterà con Nietzsche alla morte
di dio ovvero alla fine della supponenza d’un pensiero metafisico, di un logos sedicente in grado di esprimere
verità definitive o principi assoluti (termine di derivazione latina che
significa sciolti da ogni contingenza). Crisi dell’intero Occidente, destinato
a volgersi davvero al tramonto nel Novecento: senza più dei a cui rivolgersi e
senza nemmeno più grandi narrazioni, fedi ideologiche alle quali ancorarsi o
punti di riferimento stabili e condivisi per orientare l’incerto cammino di una
parabola esistenziale tutta terrena, ma senza stelle fisse all’orizzonte.
Hölderlin, come gran parte di noi, si sente dunque orfano
degli dei; anche se − come osserva Susanna Mati nell’introduzione all’antologia
hölderliniana Poesie scelte, da lei
curate e tradotte per la Casa Editrice Feltrinelli – egli rimane pur sempre in
attesa: “del nuovo sacro, di un dio a venire, di un riconciliatore dell’eterna
tragedia umano-divina”. Quindi, al pari di tutti, il Nostro deve fare i conti
col “tragico” − inteso quale espressione dello scontro tra intuizione e
ragione, sentimento e dato di realtà; come puntuale scacco nel continuo gioco tra
finitudine e inappagato anelito nei confronti dell’oltre-altrove per eccellenza
costituito dalla sete d’infinito − che il poeta tedesco non si illude certo
ingenuamente/romanticamente di esorcizzare. Se la tragedia è la caducità di un
essere (l’uomo) che ambirebbe a ricongiungersi/riconciliarsi col tutto
eternamente vivente del mondo universo; se il nostro dramma, come più tardi
ribadirà Rilke, è l’aver preso le distanze dalla natura individuandoci come
soggetti separati e destinati alla morte, allora il nostro fato è nel segno di
una lacerazione difficilmente sanabile. Compito del poeta, a questo punto, non
può essere che – come osserva ancora Susanna Mati − rimanere sotto le tempeste
del dio a capo scoperto, in quanto egli: “sa di dover afferrare, con la sua
mano pura, senza delitto, la folgore del Padre, per porgerla poi ai mortali
avvolta e mitigata nel canto”.
Ma l’arciere divino Apollo, nume della poesia, colpisce troppo forte il Nostro.
È lo stesso Hölderlin ad esserne consapevole e giusto questa immagine egli utilizza
in una lettera del 1802, sentendosi ferito/offeso nella mente. Sarà l’inizio di
una pazzia destinata a divenire devastante e che lo accomunerà ad un altro
grande Friedrich, Nietzsche, incapace forse di elaborare il lutto della morte di dio. Per trentasei anni,
accennavo sopra, il poeta vivrà recluso nella sua torre, tentando con sforzi
sovrumani di riorganizzare i propri pensieri e i propri versi, sempre più tesi
nel titanico e disperato sforzo d’afferrare/dire l’indicibile. Fino alla fine,
sino alle conclusive a loro modo pacate ed al contempo abbacinanti poesie, con
cui il vate cerca di consegnare un ultimo dono agli uomini che sia motivo, se
non di speranza, almeno di non-disperazione rispetto alla fatica del vivere.
Come questi due versi dal tono profetico e consolatorio: “Ciò che qui siamo, un
dio compirà altrove/ in armonia, eterna ricompensa, pace”.
16/02/2018 01:50:55
20.03.2018
Aydin (*)
Questa settimana vorremmo proporvi un
piccolo gioco: esaminare un episodio della storia alessandrina secondo i metodi
analitici della storiografia anglosassone. La scuola storiografica inglese, che
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quando scriviamo, dà molta...
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17.03.2018
Marina Elettra Maranetto
“Brutto
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era la conclusione cui perveniva la mia amica olandese, che non è mai riuscita
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12.03.2018
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Poco
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Erano
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11.03.2018
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Woody Allen, con la febbrile ironia ebraica, dice che
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04.03.2018
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tutta notte sta sulla soglia
vende a tutti la stessa rosa.
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con le labbra color rugiada
gli occhi grigi come la strada
nascon fiori dove cammina.
Via del Campo c'è una puttana
gli occhi grandi color...
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28.02.2018
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Sono
i mutanti di schieramento politico che transumando verso un’altra parte più
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28.02.2018
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Cari Amici,
non è facile vivere la vecchiaia.
Pare assurdo ma arriva come un temporale, previsto ma inaspettato,
all'improvviso ti trovi addosso anni come pioggia, dai quali pare
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25.02.2018
Patrizia Gioia
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25.02.2018
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17.02.2018
Nuccio Lodato
All'indimenticabile memoria di ZEUS,
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