Il
gelo del febbraio del 2018 non è solo atmosferico. Accompagna degnamente il
cuore freddo di un grande Paese in crisi. Questo freddo sembra attanagliare le menti
e i cuori. Le parole di questa campagna elettorale, vere o false, sembrano lasciare
alquanto “freddi” anche i cittadini. Le promesse mirabolanti di pensioni facili
per le casalinghe, o di tassa con ugual percentuale bassa per tutti, o di
reddito minimo garantito, sono tutte fasulle (oppure realizzabili togliendo
diritti acquisiti, senza che ciò sia detto). Sono comunque considerate assolutamente
irrealizzabili economicamente da tutti gli esperti “indipendenti”. E non sono
credute quasi da nessuno, anche se possono sempre spostare piccolissime
minoranze di “distratti”, che fanno la differenza (e forse sono enunciate
proprio per allettare loro, con “pubblicità ingannevole”, fatta perché - come
già si sa - “passata la festa, è gabbato il santo”). In ogni caso l’impressione
è che questa campagna elettorale stia annoiando tutti, e che persino quelli che
partecipano ad essa in prima linea lo facciano per onor di firma, non vedendo
l’ora che finisca. In parte ciò è dovuto al fatto che dal Porcellum del 2005 al
Rosatellum del 2017 i cittadini non hanno più potuto scegliersi almeno un
rappresentante, ma solo votare il “partito” più gradito. Inoltre i cittadini sembrano
ritenere che da noi - come diceva Ennio Flaiano - la situazione sia “sempre
grave, ma non seria”: per cui, come sempre, si aggiusterà in qualche modo. Ma
chi lo pensa non comprende che a lungo andare la corda si spezza, anche se gli
interessati sembrano non crederci mai. Non ci credevano neanche dopo la marcia
fascista su Roma del 28 ottobre 1922, dopo sessant’anni di governi liberali:
quando il re disse che voleva provare il governo dei fascisti per tre mesi, e i
comunisti del tempo definirono “la marcia” e le sue conseguenze “una buffonata”,
“una crisi di governo un po’ movimentata”. Ma di tanto in tanto “il nuovo”, nel
male o nel bene, nella storia irrompe (in generale quando i più non ci credono
affatto).
L’indifferenza che si coglie, e “ci coglie”,
è pure legata al fatto che tutti capiscono che i veri giochi si faranno non con
le elezioni, bensì dopo. Ma se questo accadrà non sarà perché - come si va blaterando
- nei sistemi proporzionali è sempre così; infatti le coalizioni governanti si
sono presentate al voto, come partiti alleati di governo contro altri partiti
alleati, dal 1948 al 1993. La coalizione governante possibile era evidente
prima. Piuttosto oggi tale vera coalizione governante è ignota perché nel mondo
politico ci sono tante manovre sotterranee, fatte in vista d’altro, per
realizzare coalizioni di governo con combinazioni che emergeranno dopo, tra un
bluff e l’altro dei gruppi “giocatori” (dal momento che è chiaro che nessuna
tra le tre aree in competizione avrà i voti per governare da sola). Non avrà i numeri per governare la coalizione
costituita al 90% dal PD. Non li avrà il M5S. Non li avrà il centrodestra di
Berlusconi, Salvini e Meloni. Questo si sa già. Perciò ancora una volta i
cittadini, come capita da almeno sette anni, si ritroveranno una coalizione di
governo “a sorpresa”. Questo non rafforza certo il credito della democrazia.
Si sa pure che la coalizione imperniata sul
PD è in difficoltà serie. La cosa paradossale è che ciò avviene contro il
principio stesso di ragionevolezza pratica. Questa ragionevolezza dovrebbe oggi
premiare il PD, che infatti io voterò con ferma convinzione pur non essendomi
mai iscritto. E’ vero che si dovrebbe guardare ai programmi futuri, che il PD per
altro ha enucleato in cento punti; ma è anche vero che una forza che ha
governato con ruolo assolutamente determinante per cinque anni viene valutata
anche, e soprattutto - ci piaccia o non ci piaccia - a consuntivo (dal Comune
alla nazione). Ora a me sembra evidente che il consuntivo per il PD oggi sia
piuttosto positivo. Le valutazioni, in ogni epoca, possono essere solo
comparative. Ciò posto non credo che negli ultimi venti e forse trent’anni nessuno
abbia fatto meglio dei governi a guida PD che si sono succeduti, in specie da
Renzi a Gentiloni. Nel cosiddetto ventennio berlusconiano, segnato da dodici
anni di governo di centrodestra, sicuramente no.
Certo, ormai viviamo in un mondo
economicamente globalizzato, in cui il Capitale si sposta dove vuole con un
clic del computer: un mondo segnato da un processo economicamente
transnazionale in cui, essendo tutti in concorrenza con tutti sul mercato
mondiale, la forza lavoro si deprezza, e in cui comunque s’impiegano stabilmente
solo lavoratori detti della conoscenza, più o meno specializzati: a causa della
rivoluzione informatica, con i connessi processi di automazione o
robotizzazione, che ampliano a dismisura quello che Marx chiamava “esercito
industriale di riserva”, cioè la massa di disoccupati. Inoltre veniamo dalla
più lunga crisi economica dal 1929. E, come se non bastasse, in sessant’anni i
governanti italiani hanno accumulato, più o meno irresponsabilmente, un immenso
debito pubblico. E siamo in un campo economico europeo che ci protegge e che,
al tempo stesso, ci condiziona pesantemente (a meno che non si voglia davvero
tornare a una liretta che ci porterebbe subito alla rovina).
Ora,
se non ci dimentichiamo totalmente di tale contesto, ma lo teniamo ben presente
almeno sullo sfondo, dobbiamo riconoscere che i governi dei mille giorni di Renzi
e dei quattrocento di Gentiloni ci hanno portato in gran parte fuori dalla
crisi economica, o quantomeno che essi hanno saputo intercettare l’ondata della
ripresa. Non è poco. Inoltre hanno portato nuovi diritti per tutti, in materia
di famiglie o unioni civili di nuovo tipo, eterosessuali e omosessuali, e di
fine della vita. E hanno pure portato qualche beneficio stabile, del genere degli
ottanta euro in più al mese per una decina di milioni di poveri, e una qualche
crescita dell’occupazione, instabile e stabile (un milione di posti di lavoro
in più, sebbene per la metà non a tempo indeterminato), nell’ultimo periodo. In
una fase recente è persino stato frenato il flusso fuor di controllo degli
immigrati dalla Libia, sia pure con gravi problemi in Libia per i poveri aspiranti
all’immigrazione, bloccati alla partenza e spesso imprigionati in condizioni
ben poco umane (condizioni che l’Unione Europea e soprattutto l’ONU, d’intesa
anche con l’Italia, dovrebbero impegnarsi a superare). E il nostro peso in
Europa e nel mondo, sotto tali governi, è cresciuto. Anche dal punto di vista
morale - pure prendendo per buone le accuse mosse a questo o quello, come i
colloqui che la ministra Boschi avrebbe fatto meglio a non avere - possiamo
veramente mettere ciò sullo stesso piano delle pendenze, e sentenze, a carico di
Berlusconi e dei suoi ministri o stretti collaboratori, condannati o accusati o
carcerati da molti anni? O possiamo davvero pensare che il governo dato a un
giovanissimo Di Maio, e ai suoi amici, come minimo totalmente inesperti e
dilettanti, potrà governare meglio un grande Paese al centro del Mediterraneo,
seconda potenza manifatturiera d’Europa, di sessanta milioni di anime, rispetto
al PD e alle liste ora connesse con esso?
Ma debbo riconoscere con qualche stupore, e
un pizzico di vero dispiacere, che quello che pare evidente a me non lo è
affatto per gli altri. Come può trovarsi in tale difficoltà chi ha governato
quantomeno abbastanza bene, di fronte ad una destra come quella che abbiamo
avuto e che ci ritroviamo, e ai dilettanti assoluti a cinque stelle?
Certo a tutto ciò ha dato un contributo
enorme la scissione del PD, con nascita di Liberi e Uguali. Insistere su ciò
potrebbe apparire (e persino essere) ormai vano. Lo ammetto. In fondo - si dice
- si sono separate due parti e culture troppo diverse per stare unite (più o
meno la sinistra e il centro, i post-comunisti e i post-democristiani); e
infatti io quando fecero la scelta di unirsi la dissi sbagliata, più e più
volte, anche su “Città Futura”. Può essere vero che quei due gruppi
realizzavano un matrimonio “mal combinato”, anche se per anni e anni - per me è
giocoforza riconoscerlo - sono poi andati d’amore e d’accordo; e, sia pure
litigando e trattando, come in ogni grande partito democratico o
socialdemocratico, avrebbero potuto restare insieme. Ma anche accettando l’idea
che la divisione fosse inevitabile - mentre a me pare che non lo fosse - il non
essersi accordati, in queste elezioni, neppure dopo le sollecitazioni di
Fassino o Prodi, almeno nei collegi in cui è palese che il nuovo partito di
sinistra, Liberi e Uguali, non eleggerà nessuno, è una vera colpa storica, che
fa solo il gioco della destra e che potrebbe, e probabilmente farà (e lo si
vedrà già il 5 marzo), far vincere la destra alla fine del “gioco elettorale”. Inoltre
nella storia e nella politica contano soprattutto le conseguenze delle scelte
che si fanno. Io ne vedo due macroscopiche. Una è lo sbilanciamento del PD, che
prima era almeno al 50% “sinistra” rispetto al “centro”, e oggi è sbilanciato
verso il centro, come la matrice di quasi tutti i maggiori suoi esponenti nazionali
attesta. Inoltre le scelte hanno un peso elettorale che condiziona le sorti
stesse della sinistra. Da mesi guardo scorrere tutti i sondaggi, e sommo
mentalmente i voti attribuiti al PD e quelli attribuiti a Liberi e Uguali, che
per anni e anni sono stati nello stesso partito, e mi dico: “Ecco, l’area di
centrosinistra sarebbe in testa senza ombra di dubbio senza quella scissione.
E’ vero come due più due fa quattro”. Il non averlo compreso rende altissimo il
rischio di far vincere un’area in cui sommando i voti della Lega nazionalista
di Salvini e dei nazionalisti di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni avremo -
in caso di sua vittoria elettorale - la prevalenza del lepenismo in Italia. E’
intelligente agire così? – Me lo chiedo senza arroganza alcuna, tanto più che molti
miei amici la pensano al modo di Liberi e Uguali: piuttosto me lo domando
drammaticamente. Mi pare impossibile che si neghi persino l’evidenza, per non
so quale atavica faziosità. Adesso Renzi ci ha annunciato che non si dimetterà
neppure se il PD dovesse perdere le elezioni. Lo credo bene. Del resto, chi
potrebbe seriamente chiederglielo dopo l’uscita degli ulissidi della sinistra
dal PD?
In ogni caso siamo in presenza di un quadro
politico mosso.
Il M5S finge di credere - o crede - di
essere sulla soglia di Palazzo Chigi (con il governo “in tasca”). Tutto può
essere, ma secondo me - magari dopo un mandato esplorativo dato a Di Maio, che
forse alla maggior minoranza non potrà essere negato - il M5S avrà una cocente delusione,
come quella dei comunisti e socialcomunisti che nell’aprile 1948 credevano di
avere la vittoria in tasca e persero il treno della storia. Ma quelli erano “i
comunisti” e si ripresero (anche se non andarono mai più “organicamente” al
governo dopo il 1947). Che accadrà a quelli del M5S se dovessero perdere il
treno? Con un’identità così debole e variegata, potranno contenere le spinte
centrifughe?
Ma proprio questo accadrà (perderanno il
treno), perché l’idea che gli altri partiti dicano di sì alla squadra di
governo preconfezionata da Di Maio, senza poter far valere la loro influenza
nella scelta dei decisori -anche non di partito - è di un dilettantismo
disarmante.
Il centrodestra si dice esso pure, per parte
sua, certo della “vittoria finale”, ma non l’avrà, anche se risultasse la prima
coalizione. Tuttavia dopo un periodo di crisi mossa, i cui contorni potrebbero
essere descritti solo con la fantasia (e qui non è il caso di scatenarla), può
darsi che Salvini potrà diventare davvero Presidente del Consiglio. Magari ci
metterà altri due anni. Sembra già preso dalla famosa “nostalgia del balcone”.
L’altro giorno già dialogava in un comizio con la folla. Lo si è visto per
televisione. La “democratura” incombe. Il popolo italiano ha respinto una proposta
di governabilità fondata sul doppio turno elettorale e sul premio di
maggioranza, impersonata da Renzi, nel dicembre 2016. E D’Alema e altri hanno
brindato alla loro vittoria. Ma già si sentono altri venti gelidi.
Può darsi che il popolo italiano abbia
respinto una modesta forma di premierato (“renziana”), per ritrovarsi la destra
populista al potere, all’ombra di una democrazia sempre più debole, che può
solo fare - e se le riuscirà istituzionalizzare - una forma di presidenzialismo
spinto (più sud-americana che francese). Il sovranismo è alle porte, e se andrà
al potere cercherà le forme idonee a stabilizzarlo e perpetuarlo, per vie non
prevedibili (per ora neppure da esso, a parte un’opzione generica per il
presidenzialismo). Questo è il vento internazionale, dall’America di Trump
all’Austria, all’Ungheria e alla Polonia. Ma in Europa Occidentale in un grande
e decisivo Paese, quale l’Italia è, non è ancora accaduto. Se capitasse saremmo
all’avanguardia, “a rovescio”, a livello del continente, come già accadde
un’altra volta dopo il 28 ottobre 1922. Saremmo la “prima” grande “democratura”,
il mix tra democrazia e dittatura, nell’area dell’Occidente dal 1945 democratica.
Si realizzerebbe un assetto nazionalistico, “sovranista”, basato sullo
strapotere del governo, anche senza cancellazione di talune prerogative del
parlamento e dei magistrati, che sarebbero subordinati al potere esecutivo. Si
tratta della miscela nazionalista e conservatrice tra democrazia e dittatura che
– come una sorta di fascismo senza fascismo – sembra aggirarsi per il mondo,
come nella Russia di Putin e nella Turchia di Erdogan. E, per quanto possa far
ridere e piangere, Salvini in Italia incarna tali pulsioni. Lo sa da sempre
Marine Le Pen. Per questo Casa Pound vuol sostenere la candidatura di Salvini alla
presidenza del Consiglio. Anche se lui si schermisce. Dopo aver vezzeggiato i
“Pound”, un anno fa, a casa loro.
Per queste ragioni voterò convintamente PD: un
partito che al governo ha fatto bene, pur tra ovvi errori o intemperanze dei suoi
leader. Se il PD andrà bene, o anche solo abbastanza bene, è possibile che si
formi se non un governo di sinistra democratica - come senza scissione avrebbe
potuto accadere (con qualche aiutino) - quantomeno un “governo a termine”,
presieduto molto probabilmente da Gentiloni: in vista di una nuova legge
elettorale, comunque a doppio turno, con un piccolo premio di maggioranza e con
una preferenza in mano agli italiani. E siccome in Italia non c’è niente di più
definitivo del provvisorio, e di meno desiderosi di tornare a votare degli
“eletti da poco”, può anche darsi che un Gentiloni bis potrà aprire una seconda
stagione di riforme, istituzionali e “lavoriste”, magari come nuovo governo
delle “convergenze parallele”, o persino “a geometria variabile”, con voti
positivi diversi a seconda dei provvedimenti proposti dal governo stesso (si
sarebbe detto ai tempi di Moro). Questo è l’auspicio e questa è la possibilità.
Sarà una fase movimentata, ma non inutile. Ma se, per contro, dovesse cadere la
diga di centrosinistra, di cui il PD è tanta parte, l’egemonia di “questa”
destra populista diverrà assai probabile. Sarà o sarebbe una svolta decisiva,
per l’Italia e per l’Europa, che forse non reggerebbe neanche più come Unione. Per
questo la diga della democrazia rappresentativa, in Italia costituita in primo
luogo dal PD, non va bucata ulteriormente, così da provocare un’alluvione
populista di destra fuor di controllo (o il governo assolutamente inadeguato dei
ragazzi a Cinque Stelle), ma va anzi il più possibile rafforzata.
(franco.livorsi@alice.it)