Nel
mio articolo del 28 febbraio ultimo scorso, “L’Italia congelata” - scritto pochi giorni prima delle elezioni
politiche - motivando il mio voto a favore del PD - di cui ero e sono
totalmente convinto - esprimevo tutta la mia preoccupazione per la tenuta della
democrazia liberale e rappresentativa in Italia. Ancora una volta motivavo tale
preoccupazione, come già avevo fatto molte volte qui in questi mesi, ad esempio
in “Crepi l’astrologo e viva la
democrazia” (5 dicembre 2017) e in “Le
elezioni, la democrazia e la democratura” (25 gennaio 2018). Perciò - appunto
il 28 febbraio 2018 - scrivevo: “Il
centrodestra si dice esso pure, per parte sua, certo della ‘vittoria finale’,
ma non l’avrà, anche se risultasse la prima coalizione. Tuttavia dopo un
periodo di crisi mossa, i cui contorni potrebbero essere descritti solo con la
fantasia (e qui non è il caso di scatenarla), può darsi che Salvini potrà
diventare davvero Presidente del Consiglio. Magari ci metterà altri due anni.
Sembra già preso dalla famosa ‘nostalgia del balcone’. L’altro giorno già
dialogava in un comizio con la folla. Lo si è visto per televisione. La
‘democratura’ incombe. Il popolo italiano ha respinto una proposta di
governabilità fondata sul doppio turno elettorale e sul premio di maggioranza,
impersonata da Renzi, nel dicembre 2016. E D’Alema e altri hanno brindato alla
loro vittoria. Ma già si sentono altri venti gelidi.
Può darsi che il popolo italiano abbia respinto una modesta forma di
premierato (‘renziana’), per ritrovarsi la destra populista al potere,
all’ombra di una democrazia sempre più debole, che può solo fare – e, se le
riuscirà, istituzionalizzare - una forma di presidenzialismo spinto (più
sud-americana che francese). Il sovranismo è alle porte, e se andrà al potere
cercherà le forme idonee a stabilizzarlo e perpetuarlo, per vie non prevedibili
(per ora neppure da esso, a parte un’opzione generica per il presidenzialismo).
Questo è il vento internazionale, dall’America di Trump all’Austria,
all’Ungheria e alla Polonia. Ma in Europa Occidentale in un grande e decisivo
Paese, quale l’Italia è, non è ancora accaduto. Se capitasse saremmo
all’avanguardia, ‘a rovescio’, a livello del continente, come già accadde
un’altra volta dopo il 28 ottobre 1922. Saremmo la ‘prima” grande’ democratura”,
il mix tra democrazia e dittatura, nell’area dell’Occidente dal 1945
democratica. Si realizzerebbe un assetto nazionalistico, ‘sovranista’, basato
sullo strapotere del governo, anche senza cancellazione di talune prerogative
del parlamento e dei magistrati, che sarebbero subordinati al potere esecutivo.
Si tratta della miscela nazionalista e conservatrice tra democrazia e dittatura
che - come una sorta di fascismo senza fascismo - sembra aggirarsi per il
mondo, come nella Russia di Putin e nella Turchia di Erdogan. E, per quanto
possa far ridere e piangere, Salvini in Italia incarna tali pulsioni. Lo sa da
sempre Marine Le Pen. Per questo Casa Pound vuol sostenere la candidatura di
Salvini alla presidenza del Consiglio. Anche se lui si schermisce. Dopo aver
vezzeggiato i ‘Pound’, un anno fa, a casa loro.
Per queste ragioni voterò convintamente PD: un partito che al governo ha
fatto bene, pur tra ovvi errori o intemperanze dei suoi leader.”
Siccome il centrodestra ha ora conquistato,
come “polo”, la maggioranza relativa; siccome in esso Lega e Fratelli d’Italia,
come insieme, hanno il 21% sul loro 37%; siccome rappresentano esplicitamente
il “lepenismo” in Italia; siccome il centrodestra vede in Salvini il suo
candidato alla presidenza del Consiglio, si può dire che il processo che
paventavo entro un biennio sia quantomeno incombente. Il “fascismo senza
fascismo” di Marine Le Pen si aggira per l’Europa e ha in Salvini il suo
“eroe”.
Per parte sua il M5S, che è il primo partito
e rappresenta ormai un italiano su tre, è pure “lui” populista, anche se in
esso pulsioni rivoluzionarie e reazionarie, di sinistra e di destra, sono come
giustapposte. Comunque tutto il suo seguire le direttive inappellabili di
quattro o cinque duci in modo passivo, tutta la sua polemica contro tutti i
partiti salvo quello preteso puritano che dice d’essere, tutto il suo essere
attratto da posizioni sull’Europa che ci allontanano dall’Unione Europea, tutto
il carico d’intolleranza e disprezzo che esprime in parlamento verso chi lo
rappresenta (o ha espresso sino a qualche mese fa), tutte le sue posizioni
sugli immigrati hanno una nuance populista di destra; benché certo il M5S esprima
pure i bisogni di onestà nella politica e l’aspirazione a un minimo vitale
dignitoso da parte di grandi masse diseredate (il che è certo molto “di
sinistra”). Nei pentastellati il rosso e il nero convivono, in attesa di
scindersi. E non è per stupidità che Rossana Rossanda ha definito “uno schifo”,
due giorni fa, l’ipotesi di governo insieme tra PD e M5S. Certo pensava ai
tratti del genere destrorso di cui ho detto, ritenendoli prevalenti.
Scoprire la causa per cui questi populismi
“antisistema” sono diventati la maggioranza assoluta dell’elettorato non è
difficile. Rischia persino di essere la scoperta del cavallo. Il M5S esprime
un’ansia di politica morale più che apprezzabile, espressasi nella decisione,
popolarissima, di autoriduzione del 50% dello stipendio degli eletti. Ma,
soprattutto, ha promesso un reddito di cittadinanza che nel Sud, ancora più
povero che venticinque anni fa, ha fatto breccia. La Lega, per parte sua, ha
promesso un forte abbassamento e livellamento delle tasse, che certo sono
graditi a tutto il capitalismo del nord (e per la speranza di investimenti nuovi
che ciò fa intravedere, pure alla classe operaia). Tanto la promessa di
fortissimo abbassamento delle tasse quanto quella di riportare gli immigrati
irregolari in Africa, e certo quella di legge e ordine che rendano la vita dura
a questa massa di poveracci immigrati irregolari che si aggira per l’Italia,
piacciono alla borghesia capitalistica e certamente anche alla parte più in
crisi e povera dei lavoratori italiani di lungo insediamento, in concorrenza su
alloggi e lavoretti da fare con i poveretti dalla pelle più o meno scura.
Capire queste motivazioni è facile.
Piuttosto è importante capire perché tali istanze dei populismi vittoriosi, da
Salvini a Di Maio, non siano state interpretate dalla sinistra, di governo come
d’opposizione. In gran parte era impossibile (anche se si doveva fare prima, di
più e meglio quel che si è fatto sotto Gentiloni). Ad esempio Minniti ministro
degli Interni ha fatto moltissimo in materia, e tutti l’hanno visto. Gli sbarchi
si sono molto ridotti. Ma già così è stato descritto come un fascista, ad
esempio da Crozza (e non solo). Se si fosse spinto più in là, ad esempio
portando di forza “a casa Loro”, o da dove erano partiti, navi piene di
immigrati “clandestini”, non solo il blocco cattolico glielo avrebbe impedito,
ma sarebbe stato fascista davvero - più o meno - per tutta la sinistra, e non a
torto: area che, per quanto possa annacquare le proprie idee, non può essere
forcaiola al modo di Salvini (come vorrebbe una massa di italiani non piccola,
e composta anche di molti lavoratori
tradizionali, specie disoccupati o sottoccupati, ma anche di lungo
insediamento).
Certo se avessimo avuto governi democratici
forti, riformati in modo che fossero di legislatura, si sarebbe potuto fare di
più. Si sarebbero potute fare le carceri mancanti, e mettervi dentro gli
spacciatori, come gli “scafisti”, e tenerveli molto a lungo. Si sarebbe potuto
riformare la giustizia rendendo le condanne penali “da scontare” dopo il primo
grado come in America, qui mentre si attendono gli altri gradi di giudizio
(oppure si sarebbero potuti portare tali gradi da tre a due). Si sarebbero potuti
riformare i rapporti tra i tre poteri fondamentali dello Stato, in modo tale da
garantire a qualsiasi costo una giustizia rapida, come richiesto dalla
Costituzione (ed anche una giustizia meno arbitraria). Si sarebbe potuto far
lavorare, non foss’altro che per chiudere buche o pulire strade o giardini, o
restaurare edifici pubblici, immigrati anche irregolari che stanno in giro, e
così via. E ciò resistendo a un astratto ugualitarismo, che subito avrebbe
giurato al supersfruttamento dei poveri, trattati diversamente e peggio degli
altri nostri concittadini. Si sarebbero pure potuti riportare a casa i piccoli
spacciatori e magnaccia che non sono neanche cittadini, certo non ignoti; o appunto
imprigionarli subito, saltando con nuove leggi le pastoie che impediscono di
farlo per gli immigrati come per i vecchi cittadini. Si sarebbe pure potuto ripristinare
la certezza del diritto nell’assegnazione delle case popolari, a dispetto di
occupanti abusivi per lo più nostrani, ma eventualmente anche di immigrati
abusivi. E si sarebbe potuto far saltare per aria con la dinamite tutte le case
abusive.
Ma con la forma di governo che ci
ritroviamo, non a caso basata su governi provvisori e sempre in bilico di
cadere, pensare di scendere efficacemente “da sinistra” sul terreno “legge e
ordine”, per quanto democraticamente intesi, è del tutto impossibile (per
chiunque sia al potere). Speriamo che a farlo non sia la “democratura” (in tal
caso come “si sa”).
Secondo esempio, concernente la surroga
delle istanze poste dal M5S. Qualcosa si è cominciato a fare col reddito
d’inclusione, ma il reddito di cittadinanza dei “pentastellati”, che non a caso
è tanto piaciuto al sud, economicamente non si può fare senza far saltare tutti
i conti dello Stato e tutti gli accordi economici con l’Unione Europea. Si badi
bene: può darsi che il reddito di cittadinanza sia il discorso del futuro
perché l’automazione fa perdere posti di lavoro e richiede un tipo di
lavoratore qualificato che da un lato è molto diverso da quello che spesso è al
lavoro e sul mercato, dall’altro è più simile al tecnico che all’operaio
tradizionale (si è parlato di “operai della conoscenza”). Molti lavoratori che
hanno perso il posto oppure che non lo trovano non sono in grado di
riqualificarsi, così da passare rapidamente dall’ipotetico reddito di
cittadinanza a un reddito da lavoro. In generale si dovrebbe capire che la via
del reddito di cittadinanza potrebbe essere applicata solo riducendo molte altre
voci o benefici del nostro Welfare State, e che se ciò venisse fatto ci
sarebbero sommosse popolari.
Certo, ci sarebbe anche un’altra via, cara
ai populisti di cui sopra come a gruppi di ultrasinistra: quella di sfidare
l’Unione Europea, mettendo nel conto l’uscita dall’euro e dalla stessa Unione.
E’ in gran parte la via indicata da Salvini e da Di Maio, “uniti nella lotta”,
con le ovvie attenuazioni o accelerazioni che s’impongono loro, come a
chiunque, quando si deve andare al governo. Ma l’idea che chi ha l’acqua alla
gola e sta affogando (economicamente) possa rifiutare la barca o nave che lo
salva (economicamente) dicendo a chi lo salva che appartiene a una ciurma
disonesta di pirati, anche se fosse vera è assurda. I governanti del passato,
di tutti i colori - certo pure per una forte pressione degli stessi sindacati
“corporativi” o del corporativismo sindacale, ad esempio in materia di
pensionamenti facili a gente con la barba nera - e degli elettori della metà
più povera d’Italia, e dei parlamentari sempre infinitamente più forti dei
governi, hanno accumulato un immenso debito pubblico di 2256 miliardi di euro (quando
una manovra da 30 miliardi è già uno sforzo nazionale). Tutti sappiamo che se
la Banca Centrale Europea smettesse di acquistare i nostri titoli di stato,
l’Italia farebbe fallimento in quindici giorni. Perciò l’idea di poter
allargare la borsa, superare i vincoli di spesa, con questa gran massa di
debito pubblico e ribellandoci a chi ci dà i soldi per non fallire come Stato,
mi pare un’assurdità.
E’ vero che avremmo assolutamente bisogno di
una diversa Unione Europea. Quella d’oggi era nata con l’idea del francese
Delors (Presidente della Commissione Europea dal 1985 al 1994), che in fondo
era una nozione marxista, di fare prima l’euro e poi lo Stato di Stati (il vero
federalismo, tipo Stati Uniti d’America, con Parlamento veramente legislativo e
governo espresso dai cittadini europei e nella pienezza dei suoi ovvi poteri in
politica economica, come estera o militare). E vi aderiscono 19 Stati su 28. Far
nascere prima la moneta e poi lo Stato (di Stati), era un’assurdità storica
senza precedenti; ma i fondatori come Delors avevano sperato che una volta che
gli europei si fossero trovati con la moneta unica in tasca, lo Stato di Stati
sarebbe necessariamente seguito, perché - ecco il punto che ho detto,
paradossalmente, “marxista” - la politica segue l’economia come l’ancella la
sua padrona: se manca lo Stato e c’è la moneta, lo Stato europeo arriverà. Questo
era il calcolo. Ma non è andata così. Gli Stati del nord Europa nei giorni
scorsi hanno dichiarato ufficialmente che salvo che in materia bancaria loro a
cedere sovranità nazionale all’Unione Europea manco ci pensano; quanto agli
stati dell’Europa Orientale ex comunisti, sono i più nazionalisti e xenofobi di
tutti. E c’è tutta una corrente europea “di destra”, ma anche di ultrasinistra,
che vuol tornare ai vecchi Stati nazionali, e che è detta “sovranista”: area i
cui maggiori capi sono in Francia la signora Marine Le Pen e in Italia Matteo
Salvini, apertamente concordi. Se si rompe con i vincoli di bilancio imposti
dall’Unione Europea, salta l’”Europa”. Questo farà felice sia il signore della
Russia, caro a Salvini, Vladimiro Putin, e sia il suo concorrente-interlocutore
Trump, che da una forte Unione Europea hanno tutto da perdere, e che perciò se
la UE “salta” fanno festa: l’uno per le mire egemoniche della Grande Russia ed
ex Unione Sovietica; l’altro perché ha persino aperto uno scontro doganale con
la vecchia Europa.
Ma a parte tutte queste considerazioni,
restare nell’Unione Europea, e cercare di far parte del binomio, cioè trinomio
possibile, che lì conta (Germania-Francia e Italia), è la via obbligata, anche
verso gli Stati Uniti d’Europa (pur ora remoti); e, soprattutto, è la via
obbligata per non misurarci col mondo della concorrenza selvaggia di tutti con
tutti con la nostra vecchia lira, con 2256 miliardi di euro di debito pubblico
e senza una BCE che comperi i nostri titoli di stato. Questo sarà pure prosaico,
ma ci sono altre strade?
I demagoghi che cavalcano la rabbia
giovanile e popolare - mille volte motivata, ma a dispetto del principio di
realtà - hanno stravinto le elezioni. Il PD, che pur avendo molti limiti cerca
di governare le contraddizioni accettando il principio di realtà, ha perso
rovinosamente le elezioni. Resto convintissimo che nell’insieme i governi
impersonati da Renzi e Gentiloni siano stati i migliori degli ultimi trent’anni.
Se Prodi o D’Alema al governo hanno fatto meglio, bisognerebbe dimostrarlo, ma
a me non pare. Scandali gravi, che interessino i giudici facendo aprire vere
cause penali, negli ultimi cinque anni non ce ne sono stati. Sono emersi nuovi
importanti diritti civili. E l’economia ha ripreso a tirare. In Italia secondo
l’ISTAT abbiamo circa tre milioni di disoccupati e due di sottoccupati o poveri
in senso stretto. Abbiamo insomma cinque milioni di “povera gente”, il che è
gravissimo, ma non le cifre da tempi del Padrone
delle ferriere che altri credono. Si capisce che l’inversione della
tendenza negativa non basta; che non basta un milione di lavoratori in più, di
cui metà a tempo determinato, emersi - non per caso – dopo i governi di Renzi e
Gentiloni. Ma quel limitato progresso indica una tendenza, come quando un malato
grave si sfebbra.
Si sarebbe potuto e si potrebbe fare di
più. Ma solo in un modo, cui accennerò.
Si potrebbe pure fare molto peggio, e lo
si sta facendo, per la via che dirò.
Poi dirò qualcosa sul problema del
governare la fase che si apre.
Per fare di più ci vorrebbe un governo
almeno garantito, dal giorno delle votazioni, tra un’elezione e l’altra. Io ho
sin dall’inizio degli anni Ottanta del Novecento, cioè da trentotto anni, una
convinzione, cento volte espressa in articoli o saggi dal 1989 in poi: il solo
modo di risolvere i gravi problemi del Paese - compresi quelli sociali che ora
sono così spaventosi per la gran parte dei giovani e per tanta povera gente
specie del nostro Meridione - è far funzionare bene lo Stato. I socialisti di
un tempo - benché andando per trent’anni al potere con lo zoppo forchettone democristiano avessero
imparato a zoppicare, violando a più non posso, seppure non da soli, il settimo
comandamento - l’avevano capito. Amato la chiamava, trentotto anni fa e negli
anni successivi, “grande riforma”, che in pratica voleva dire coniugare insieme
semipresidenzialismo alla francese e riformismo sociale (emulando Mitterrand).
Ma il popolo italiano, con i comunisti in testa, riuscì a fermarli, e così la
democrazia del leader, che avrebbe potuto “arrivare da sinistra”, tornò da
destra, col grande amico di Craxi, unitosi con la destra “nazionale” contro la
sinistra: Silvio Berlusconi. Ora è stata la volta del progetto di “grande
riforma” dello Stato di Renzi, che era un premierato “all’inglese”, che qui avrebbe
dovuto essere connesso ad un sistema “prevalentemente” basato sulla Camera dei
Deputati, con elezioni a due turni e premio di maggioranza. Il 4 dicembre 2016 quel
progetto di governabilità è stato sconfitto 60 a 40 (il che ritengo sia stato
una sciagura nazionale), e la disfatta di questi giorni è un’appendice di
quella sconfitta. Senza riforma dello Stato, garante di governi di legislatura
legittimati dal voto popolare, il governo diventa appena buona amministrazione.
Questa può pure andare bene in tempo di bonaccia, ma non certo bastare con le
grandi tempeste in cui siamo costretti a navigare, in cui in pratica si naviga
sempre controcorrente, in un contesto economico e storico anomico detto
globalizzazione.
Persino a dispetto di Renzi, si doveva
insistere sulla “riforma dello Stato”, invece di fare un intruglio assurdo come
il Rosatellum bis. Si doveva anche sostenere il governo Gentiloni, che ha fatto
bene; e sarebbe stato efficace indicare Gentiloni come candidato premier per il
“dopo elezioni” già due mesi fa. Ma, soprattutto, si doveva presentare, come
PD, un progetto che tenendo conto dei rilievi della Consulta fosse sempre a
doppio turno e con premio di maggioranza. Si sarebbe pure potuto ripristinare
il Mattarellum (75% di maggioritario e 25 di proporzionale, con voto
disgiunto). Questa critica al Rosatellum bis io l’ho fatta subito. E se poi
“gli altri” – come i renziani dicono sia accaduto per giustificare il
Rosatellum - avessero detto di no a tali cose, care al 40% che aveva votato sì
il 4 dicembre 2016, si sarebbe dovuto lasciar cadere il governo e andare a
elezioni nel 2017 con il minimo di normativa lasciata in piedi dalla Consulta,
per riformare la legge elettorale dopo. Ho difeso e difendo il PD, ma questo
pensavo e penso.
Se un governo ha cinque anni davanti e al riparo
dalle diverse insidie d’oggi (e dei decenni passati), può pure affrontare tutti
i nodi, quali: un assurdo funzionamento della Giustizia, che con le sue
lungaggini, interventi imprevedibili e “incertezza del diritto” disincentiva
gli investimenti stranieri in Italia; la piccola criminalità nelle strade, che
spaventa il Paese, e soprattutto la grande criminalità organizzata, che
disincentiva la rinascita economica del sud; il debito pubblico, e così via. Ma
se si passa da un governo provvisorio all’altro, in tempi di populismi di
destra che si aggirano nel Paese e nel mondo, si è pressoché perduti.
Ma c’è un punto chiave che se non viene
capito provoca il crollo di tutto il baraccone: se viene giù - come ora è
venuto giù, ma “speriamo” in modo rimediabile - il muro maestro del sistema,
che ora è il Partito Democratico (o era), il sistema viene giù. Magari ne verrà
su uno migliore, ma non sarà più una democrazia liberale o rappresentativa, né
come l’abbiamo conosciuta dal 1948 al 2018 e neppure com’è nella Francia
semipresidenzialista. Se vince a livello epocale il centrodesta di Salvini, che
è il blocco storico che ha la maggioranza relativa, e che rappresenta in modo egemonico
quell’Italia del Nord che è “la base di tutto” dal 1848 ai giorni nostri, il
trionfo del “lepenismo” è assicurato: con la politica forcaiola sulle strade e
in materia di immigrati, e la fortissima detassazione, che piacciono tanto a
borghesi capitalisti e più in generale a tanti cittadini del Nord. Da ciò
verranno pure contrasti con l’Unione Europea che potranno persino portarci
fuori dall’Unione Europea (sebbene per fortuna non accadrà necessariamente,
perché noi italiani mica siamo tedeschi, o inglesi, per nostra fortuna, e al
potere ogni vino robusto è da noi trasformato in acqua e vino; ma il rischio è
forte). Il rischio è ancora maggiore se a vincere sono i Cinque Stelle. Essi
infatti hanno una doppia natura, in cui tratti populisti di sinistra e di destra
sono come sovrapposti (però fino a quando?). Ma essendo il loro “punto chiave”
il reddito di cittadinanza, il loro fine li pone in rotta di collisione ancora
maggiore con i limiti impostici dal nostro debito pubblico e dall’Unione
Europea, anche scontando l’annacquamento generoso che per governare vorranno
fare anche loro al loro “vino”. Ma dietro di loro c’è un Sud che li attende
alla prova e che non può essere troppo deluso senza mandar loro stessi “a fa’ n
culo” rapidamente.
Perciò sarebbe stato necessario
salvaguardare un ruolo o primario o almeno molto forte del PD, che in sostanza
era il muro maestro non solo della seconda Repubblica, ma della democrazia
rappresentativa. In sostanza il “lepenismo” reazionario è alle porte, con un
“sovranismo” che assomiglierà più al nazionalismo populista e al
presidenzialismo peronista sud-americano che non al gollismo o “macronismo”
francese.
Il PD di Renzi ha perso. Prima ha perso il
referendum e ora le elezioni. Nel modo più grave. La prima responsabilità non
ce l’hanno avuta i suoi governi, che hanno fatto “abbastanza” bene, ma le gravi
divisioni interne (e poi esterne). Queste sono state non solo molto dannose, ma
anche sterili, perché la disfatta non è stata solo del PD, ma di chi lo ha
contestato da sinistra. Questi “sinistri” prima sono stati decisivi per battere
Renzi e il PD al referendum. Poi hanno fatto una scissione prima del congresso
(cosa mai vista) e alla vigilia di elezioni politiche (peggio che peggio). Dopo
la loro scissione hanno ancora respinto la linea di Pisapia di polemizzare col
PD da sinistra, ma da alleati (privandosi pure, così, dell’apporto di un vero
“capo” in seno al popolo, che era stato riconosciuto come tale dalla metropoli
più europea d’Italia, e ciò a causa del loro assurdo antirenzismo “viscerale”),
che ha loro impedito di fare quello che fanno normalmente a destra, e nelle
grandi socialdemocrazie (litigare stando insieme, come ad esempio hanno fatto
Berlusconi, Salvini e la Meloni). Poi hanno respinto le proposte di accordi
elettorali di Fassino a nome di Renzi. Poi sono stati sordi agli appelli
all’unità di Prodi e Veltroni. Poi hanno nominato leader uno che sino a
settant’anni non aveva mai fatto politica. Credevano di prendere il 10% e hanno
preso il 3; per poco restavano fuori dal Parlamento.
Se fossero rimasti insieme al PD, si sarebbe
avuto un PD almeno al 22 o 23%, ossia un pochino ammaccato rispetto al 25% del 2013,
ma sempre autorevole, e non “in rotta”. Ora, invece di farsi un’onesta
autocritica – tanto più che dovranno pure chiedersi “che fare?” – se la
prendono ancora col PD di Renzi. E’ impossibile non vedere che per loro Renzi
gioca il ruolo del capro espiatorio. Siccome Renzi è stato votato dal 70% degli
iscritti e elettori come Segretario, avendo subito il cappotto di questi giorni
ha dovuto dimettersi (“elementare, Watson”), ma la sua corrente avrà comunque
un peso, che vuole salvaguardare. E’ forse strano? - Da molti mesi ho scritto
che nel PD a mio parere c’è solo uno migliore di Renzi, che è Graziano Delrio. E’
almeno altrettanto “sui problemi”, è molto chiaro e comunicativo, ma con calda
umanità e vero spirito dialogico nei confronti di tutti, che lo rendono anche
migliore del Segretario – e Presidente – fiorentino. In una fase post-ideologica
come questa anche i dati caratteriali hanno un grande ruolo, tanto più nell’era
delle comunicazioni mediatiche e soprattutto televisive, Spero che diventerà
segretario.
Per ora il PD (di Renzi) non vuol sostenere
né un governo Di Maio né tanto meno Salvini. Non mi spingo sino a dire, con
Rossana Rossanda, che sostenere Di Maio sarebbe “uno schifo”. Ma tra PD e M5S
secondo me c’è incompatibilità sostanziale. Il PD deve restare all’opposizione,
anche se un’opposizione intelligente può comportare voti episodici o tecnici
atti a consentire che si vada a votare con una nuova legge elettorale a due
turni, come in Francia (ossia garante, in modo anche minimo, di governabilità).
In più occasioni, se direttamente richiesti da partito a partito, si possono
pure dare dei “sì tecnici”, ma senza alcuna alleanza, e solo quando non se ne
possa fare a meno per andare al potere con una legge elettorale a due turni,
che è indispensabile. Ma se il PD, al di là dei tatticismi inevitabili ma mai
vincolanti, scegliesse di allearsi esplicitamente con chi, come il M5S, lo
detesta e disprezza da sempre, e che in economia e sull’Europa ha idee da esso
molto diverse, andrebbe “in malora”. Il PD deve rifarsi le ossa, e le idee,
all’opposizione (pur essendo talora “flessibile” in questa o quella votazione
rada, come ogni forza politica maggiorenne). Nell’insieme lo attende, se non
vuol suicidarsi, una fase di anni di opposizione, anche per cercare di superare
le fratture a sinistra e riconquistare masse di povera gente che lo hanno -
spero temporaneamente – abbandonato, e di cui una forza di sinistra, o anche
tale, non può fare a meno senza snaturarsi e persino estinguersi. Ai partiti un
ciclo d’opposizione ha sempre fatto bene, per rinnovarsi o emendarsi. E’ giusto
che i due populismi, alla Salvini e alla Di Maio, siano fatti governare, anche
perché, come diceva Lenin, le masse “possono imparare, ma solo per esperienza
propria”: vedranno quel che valgono. Lasciamoli provare. Così si vedrà la
differenza tra chi fa politica accarezzando i “desiderata” di una folla che per
ottime ragioni è furibonda, ma che non si può passivamente ascoltare, e chi per
contro cerchi di coniugare principio di realtà e istanze di grande riforma
istituzionale e sociale che, partendo dal disagio sociale, siano al passo con
quel che si può fare nel maledetto mondo in cui viviamo.
Tutto sommato sarebbe meglio tornare a
votare non appena possibile, già in autunno, rifacendo solo la legge elettorale
(purché se ne scelga una a doppio turno). Del resto io lo sostenni in una
relazione a Città Futura, allora come Presidente e relatore, anche subito dopo
le elezioni politiche del 2013: si doveva rivotare il Mattarellum e tornare
subito alle urne, invece di fare maggioranza con Berlusconi, come fu allora
voluto dal PD bersaniano tramite il governo Letta. Oggi bisogna evitare altri
governi pasticciati, non solo ovviamente con il centrodestra, ma pure col M5S.
La disfatta della sinistra - anzi delle
sinistre, dal PD a Liberi e Uguali - è stata così grave che rischia di essere
epocale. E tuttavia - a meno di un “nuovo inizio” politico di massa con nuove
idee e programmi forti, e nuovi leader, di cui purtroppo non si vedono ancora
neanche gli indizi – bisogna ripartire di qui, cioè dal PD, che è la sinistra o
centrosinistra che c’é. Al di là dei tatticismi sempre inevitabili, il PD dovrà
usare gli anni dell’opposizione per rinnovarsi, attraendo le piccole forze di
sinistra e soprattutto masse di povera gente che ora ha perduto. L’aver cercato
di rovinare il PD da posizioni di pretesa sinistra, che oltre a tutto hanno rafforzato
la sua anima di centro, e non hanno ottenuto niente, è stato demenziale. La
stessa sinistra farebbe bene, con realismo e modestia, a tornare a casa, nel
PD; e comunque la sinistra ha da rinascere lì, nel PD o almeno con il PD.
Salvare e rilanciare il PD, col renzismo e oltre il renzismo, sarà pure
difficile, ma è l’unica cosa da fare. Io, in termini vuoi democratici e vuoi
socialisti, e ambientalisti, non vedo un’altra via possibile.
(franco.livorsi@alice.it).