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Il futuro del centro-sinistra
Le due disfatte della sinistra e il Governo del Paese
Franco Livorsi

Nel mio articolo del 28 febbraio ultimo scorso, “L’Italia congelata” - scritto pochi giorni prima delle elezioni politiche - motivando il mio voto a favore del PD - di cui ero e sono totalmente convinto - esprimevo tutta la mia preoccupazione per la tenuta della democrazia liberale e rappresentativa in Italia. Ancora una volta motivavo tale preoccupazione, come già avevo fatto molte volte qui in questi mesi, ad esempio in “Crepi l’astrologo e viva la democrazia” (5 dicembre 2017) e in “Le elezioni, la democrazia e la democratura” (25 gennaio 2018). Perciò - appunto il 28 febbraio 2018 - scrivevo: “Il centrodestra si dice esso pure, per parte sua, certo della ‘vittoria finale’, ma non l’avrà, anche se risultasse la prima coalizione. Tuttavia dopo un periodo di crisi mossa, i cui contorni potrebbero essere descritti solo con la fantasia (e qui non è il caso di scatenarla), può darsi che Salvini potrà diventare davvero Presidente del Consiglio. Magari ci metterà altri due anni. Sembra già preso dalla famosa ‘nostalgia del balcone’. L’altro giorno già dialogava in un comizio con la folla. Lo si è visto per televisione. La ‘democratura’ incombe. Il popolo italiano ha respinto una proposta di governabilità fondata sul doppio turno elettorale e sul premio di maggioranza, impersonata da Renzi, nel dicembre 2016. E D’Alema e altri hanno brindato alla loro vittoria. Ma già si sentono altri venti gelidi.

   Può darsi che il popolo italiano abbia respinto una modesta forma di premierato (‘renziana’), per ritrovarsi la destra populista al potere, all’ombra di una democrazia sempre più debole, che può solo fare – e, se le riuscirà, istituzionalizzare - una forma di presidenzialismo spinto (più sud-americana che francese). Il sovranismo è alle porte, e se andrà al potere cercherà le forme idonee a stabilizzarlo e perpetuarlo, per vie non prevedibili (per ora neppure da esso, a parte un’opzione generica per il presidenzialismo). Questo è il vento internazionale, dall’America di Trump all’Austria, all’Ungheria e alla Polonia. Ma in Europa Occidentale in un grande e decisivo Paese, quale l’Italia è, non è ancora accaduto. Se capitasse saremmo all’avanguardia, ‘a rovescio’, a livello del continente, come già accadde un’altra volta dopo il 28 ottobre 1922. Saremmo la ‘prima” grande’ democratura”, il mix tra democrazia e dittatura, nell’area dell’Occidente dal 1945 democratica. Si realizzerebbe un assetto nazionalistico, ‘sovranista’, basato sullo strapotere del governo, anche senza cancellazione di talune prerogative del parlamento e dei magistrati, che sarebbero subordinati al potere esecutivo. Si tratta della miscela nazionalista e conservatrice tra democrazia e dittatura che - come una sorta di fascismo senza fascismo - sembra aggirarsi per il mondo, come nella Russia di Putin e nella Turchia di Erdogan. E, per quanto possa far ridere e piangere, Salvini in Italia incarna tali pulsioni. Lo sa da sempre Marine Le Pen. Per questo Casa Pound vuol sostenere la candidatura di Salvini alla presidenza del Consiglio. Anche se lui si schermisce. Dopo aver vezzeggiato i ‘Pound’, un anno fa, a casa loro.

   Per queste ragioni voterò convintamente PD: un partito che al governo ha fatto bene, pur tra ovvi errori o intemperanze dei suoi leader.”

   Siccome il centrodestra ha ora conquistato, come “polo”, la maggioranza relativa; siccome in esso Lega e Fratelli d’Italia, come insieme, hanno il 21% sul loro 37%; siccome rappresentano esplicitamente il “lepenismo” in Italia; siccome il centrodestra vede in Salvini il suo candidato alla presidenza del Consiglio, si può dire che il processo che paventavo entro un biennio sia quantomeno incombente. Il “fascismo senza fascismo” di Marine Le Pen si aggira per l’Europa e ha in Salvini il suo “eroe”.

   Per parte sua il M5S, che è il primo partito e rappresenta ormai un italiano su tre, è pure “lui” populista, anche se in esso pulsioni rivoluzionarie e reazionarie, di sinistra e di destra, sono come giustapposte. Comunque tutto il suo seguire le direttive inappellabili di quattro o cinque duci in modo passivo, tutta la sua polemica contro tutti i partiti salvo quello preteso puritano che dice d’essere, tutto il suo essere attratto da posizioni sull’Europa che ci allontanano dall’Unione Europea, tutto il carico d’intolleranza e disprezzo che esprime in parlamento verso chi lo rappresenta (o ha espresso sino a qualche mese fa), tutte le sue posizioni sugli immigrati hanno una nuance populista di destra; benché certo il M5S esprima pure i bisogni di onestà nella politica e l’aspirazione a un minimo vitale dignitoso da parte di grandi masse diseredate (il che è certo molto “di sinistra”). Nei pentastellati il rosso e il nero convivono, in attesa di scindersi. E non è per stupidità che Rossana Rossanda ha definito “uno schifo”, due giorni fa, l’ipotesi di governo insieme tra PD e M5S. Certo pensava ai tratti del genere destrorso di cui ho detto, ritenendoli prevalenti.

   Scoprire la causa per cui questi populismi “antisistema” sono diventati la maggioranza assoluta dell’elettorato non è difficile. Rischia persino di essere la scoperta del cavallo. Il M5S esprime un’ansia di politica morale più che apprezzabile, espressasi nella decisione, popolarissima, di autoriduzione del 50% dello stipendio degli eletti. Ma, soprattutto, ha promesso un reddito di cittadinanza che nel Sud, ancora più povero che venticinque anni fa, ha fatto breccia. La Lega, per parte sua, ha promesso un forte abbassamento e livellamento delle tasse, che certo sono graditi a tutto il capitalismo del nord (e per la speranza di investimenti nuovi che ciò fa intravedere, pure alla classe operaia). Tanto la promessa di fortissimo abbassamento delle tasse quanto quella di riportare gli immigrati irregolari in Africa, e certo quella di legge e ordine che rendano la vita dura a questa massa di poveracci immigrati irregolari che si aggira per l’Italia, piacciono alla borghesia capitalistica e certamente anche alla parte più in crisi e povera dei lavoratori italiani di lungo insediamento, in concorrenza su alloggi e lavoretti da fare con i poveretti dalla pelle più o meno scura.

   Capire queste motivazioni è facile. Piuttosto è importante capire perché tali istanze dei populismi vittoriosi, da Salvini a Di Maio, non siano state interpretate dalla sinistra, di governo come d’opposizione. In gran parte era impossibile (anche se si doveva fare prima, di più e meglio quel che si è fatto sotto Gentiloni). Ad esempio Minniti ministro degli Interni ha fatto moltissimo in materia, e tutti l’hanno visto. Gli sbarchi si sono molto ridotti. Ma già così è stato descritto come un fascista, ad esempio da Crozza (e non solo). Se si fosse spinto più in là, ad esempio portando di forza “a casa Loro”, o da dove erano partiti, navi piene di immigrati “clandestini”, non solo il blocco cattolico glielo avrebbe impedito, ma sarebbe stato fascista davvero - più o meno - per tutta la sinistra, e non a torto: area che, per quanto possa annacquare le proprie idee, non può essere forcaiola al modo di Salvini (come vorrebbe una massa di italiani non piccola, e composta anche di molti lavoratori  tradizionali, specie disoccupati o sottoccupati, ma anche di lungo insediamento).

   Certo se avessimo avuto governi democratici forti, riformati in modo che fossero di legislatura, si sarebbe potuto fare di più. Si sarebbero potute fare le carceri mancanti, e mettervi dentro gli spacciatori, come gli “scafisti”, e tenerveli molto a lungo. Si sarebbe potuto riformare la giustizia rendendo le condanne penali “da scontare” dopo il primo grado come in America, qui mentre si attendono gli altri gradi di giudizio (oppure si sarebbero potuti portare tali gradi da tre a due). Si sarebbero potuti riformare i rapporti tra i tre poteri fondamentali dello Stato, in modo tale da garantire a qualsiasi costo una giustizia rapida, come richiesto dalla Costituzione (ed anche una giustizia meno arbitraria). Si sarebbe potuto far lavorare, non foss’altro che per chiudere buche o pulire strade o giardini, o restaurare edifici pubblici, immigrati anche irregolari che stanno in giro, e così via. E ciò resistendo a un astratto ugualitarismo, che subito avrebbe giurato al supersfruttamento dei poveri, trattati diversamente e peggio degli altri nostri concittadini. Si sarebbero pure potuti riportare a casa i piccoli spacciatori e magnaccia che non sono neanche cittadini, certo non ignoti; o appunto imprigionarli subito, saltando con nuove leggi le pastoie che impediscono di farlo per gli immigrati come per i vecchi cittadini. Si sarebbe pure potuto ripristinare la certezza del diritto nell’assegnazione delle case popolari, a dispetto di occupanti abusivi per lo più nostrani, ma eventualmente anche di immigrati abusivi. E si sarebbe potuto far saltare per aria con la dinamite tutte le case abusive.

   Ma con la forma di governo che ci ritroviamo, non a caso basata su governi provvisori e sempre in bilico di cadere, pensare di scendere efficacemente “da sinistra” sul terreno “legge e ordine”, per quanto democraticamente intesi, è del tutto impossibile (per chiunque sia al potere). Speriamo che a farlo non sia la “democratura” (in tal caso come “si sa”).

   Secondo esempio, concernente la surroga delle istanze poste dal M5S. Qualcosa si è cominciato a fare col reddito d’inclusione, ma il reddito di cittadinanza dei “pentastellati”, che non a caso è tanto piaciuto al sud, economicamente non si può fare senza far saltare tutti i conti dello Stato e tutti gli accordi economici con l’Unione Europea. Si badi bene: può darsi che il reddito di cittadinanza sia il discorso del futuro perché l’automazione fa perdere posti di lavoro e richiede un tipo di lavoratore qualificato che da un lato è molto diverso da quello che spesso è al lavoro e sul mercato, dall’altro è più simile al tecnico che all’operaio tradizionale (si è parlato di “operai della conoscenza”). Molti lavoratori che hanno perso il posto oppure che non lo trovano non sono in grado di riqualificarsi, così da passare rapidamente dall’ipotetico reddito di cittadinanza a un reddito da lavoro. In generale si dovrebbe capire che la via del reddito di cittadinanza potrebbe essere applicata solo riducendo molte altre voci o benefici del nostro Welfare State, e che se ciò venisse fatto ci sarebbero sommosse popolari.

   Certo, ci sarebbe anche un’altra via, cara ai populisti di cui sopra come a gruppi di ultrasinistra: quella di sfidare l’Unione Europea, mettendo nel conto l’uscita dall’euro e dalla stessa Unione. E’ in gran parte la via indicata da Salvini e da Di Maio, “uniti nella lotta”, con le ovvie attenuazioni o accelerazioni che s’impongono loro, come a chiunque, quando si deve andare al governo. Ma l’idea che chi ha l’acqua alla gola e sta affogando (economicamente) possa rifiutare la barca o nave che lo salva (economicamente) dicendo a chi lo salva che appartiene a una ciurma disonesta di pirati, anche se fosse vera è assurda. I governanti del passato, di tutti i colori - certo pure per una forte pressione degli stessi sindacati “corporativi” o del corporativismo sindacale, ad esempio in materia di pensionamenti facili a gente con la barba nera - e degli elettori della metà più povera d’Italia, e dei parlamentari sempre infinitamente più forti dei governi, hanno accumulato un immenso debito pubblico di 2256 miliardi di euro (quando una manovra da 30 miliardi è già uno sforzo nazionale). Tutti sappiamo che se la Banca Centrale Europea smettesse di acquistare i nostri titoli di stato, l’Italia farebbe fallimento in quindici giorni. Perciò l’idea di poter allargare la borsa, superare i vincoli di spesa, con questa gran massa di debito pubblico e ribellandoci a chi ci dà i soldi per non fallire come Stato, mi pare un’assurdità.

   E’ vero che avremmo assolutamente bisogno di una diversa Unione Europea. Quella d’oggi era nata con l’idea del francese Delors (Presidente della Commissione Europea dal 1985 al 1994), che in fondo era una nozione marxista, di fare prima l’euro e poi lo Stato di Stati (il vero federalismo, tipo Stati Uniti d’America, con Parlamento veramente legislativo e governo espresso dai cittadini europei e nella pienezza dei suoi ovvi poteri in politica economica, come estera o militare). E vi aderiscono 19 Stati su 28. Far nascere prima la moneta e poi lo Stato (di Stati), era un’assurdità storica senza precedenti; ma i fondatori come Delors avevano sperato che una volta che gli europei si fossero trovati con la moneta unica in tasca, lo Stato di Stati sarebbe necessariamente seguito, perché - ecco il punto che ho detto, paradossalmente, “marxista” - la politica segue l’economia come l’ancella la sua padrona: se manca lo Stato e c’è la moneta, lo Stato europeo arriverà. Questo era il calcolo. Ma non è andata così. Gli Stati del nord Europa nei giorni scorsi hanno dichiarato ufficialmente che salvo che in materia bancaria loro a cedere sovranità nazionale all’Unione Europea manco ci pensano; quanto agli stati dell’Europa Orientale ex comunisti, sono i più nazionalisti e xenofobi di tutti. E c’è tutta una corrente europea “di destra”, ma anche di ultrasinistra, che vuol tornare ai vecchi Stati nazionali, e che è detta “sovranista”: area i cui maggiori capi sono in Francia la signora Marine Le Pen e in Italia Matteo Salvini, apertamente concordi. Se si rompe con i vincoli di bilancio imposti dall’Unione Europea, salta l’”Europa”. Questo farà felice sia il signore della Russia, caro a Salvini, Vladimiro Putin, e sia il suo concorrente-interlocutore Trump, che da una forte Unione Europea hanno tutto da perdere, e che perciò se la UE “salta” fanno festa: l’uno per le mire egemoniche della Grande Russia ed ex Unione Sovietica; l’altro perché ha persino aperto uno scontro doganale con la vecchia Europa.

    Ma a parte tutte queste considerazioni, restare nell’Unione Europea, e cercare di far parte del binomio, cioè trinomio possibile, che lì conta (Germania-Francia e Italia), è la via obbligata, anche verso gli Stati Uniti d’Europa (pur ora remoti); e, soprattutto, è la via obbligata per non misurarci col mondo della concorrenza selvaggia di tutti con tutti con la nostra vecchia lira, con 2256 miliardi di euro di debito pubblico e senza una BCE che comperi i nostri titoli di stato. Questo sarà pure prosaico, ma ci sono altre strade?

   I demagoghi che cavalcano la rabbia giovanile e popolare - mille volte motivata, ma a dispetto del principio di realtà - hanno stravinto le elezioni. Il PD, che pur avendo molti limiti cerca di governare le contraddizioni accettando il principio di realtà, ha perso rovinosamente le elezioni. Resto convintissimo che nell’insieme i governi impersonati da Renzi e Gentiloni siano stati i migliori degli ultimi trent’anni. Se Prodi o D’Alema al governo hanno fatto meglio, bisognerebbe dimostrarlo, ma a me non pare. Scandali gravi, che interessino i giudici facendo aprire vere cause penali, negli ultimi cinque anni non ce ne sono stati. Sono emersi nuovi importanti diritti civili. E l’economia ha ripreso a tirare. In Italia secondo l’ISTAT abbiamo circa tre milioni di disoccupati e due di sottoccupati o poveri in senso stretto. Abbiamo insomma cinque milioni di “povera gente”, il che è gravissimo, ma non le cifre da tempi del Padrone delle ferriere che altri credono. Si capisce che l’inversione della tendenza negativa non basta; che non basta un milione di lavoratori in più, di cui metà a tempo determinato, emersi - non per caso – dopo i governi di Renzi e Gentiloni. Ma quel limitato progresso indica una tendenza, come quando un malato grave si sfebbra.

     Si sarebbe potuto e si potrebbe fare di più. Ma solo in un modo, cui accennerò.

     Si potrebbe pure fare molto peggio, e lo si sta facendo, per la via che dirò.

    Poi dirò qualcosa sul problema del governare la fase che si apre.

    Per fare di più ci vorrebbe un governo almeno garantito, dal giorno delle votazioni, tra un’elezione e l’altra. Io ho sin dall’inizio degli anni Ottanta del Novecento, cioè da trentotto anni, una convinzione, cento volte espressa in articoli o saggi dal 1989 in poi: il solo modo di risolvere i gravi problemi del Paese - compresi quelli sociali che ora sono così spaventosi per la gran parte dei giovani e per tanta povera gente specie del nostro Meridione - è far funzionare bene lo Stato. I socialisti di un tempo - benché andando per trent’anni al potere con lo  zoppo forchettone democristiano avessero imparato a zoppicare, violando a più non posso, seppure non da soli, il settimo comandamento - l’avevano capito. Amato la chiamava, trentotto anni fa e negli anni successivi, “grande riforma”, che in pratica voleva dire coniugare insieme semipresidenzialismo alla francese e riformismo sociale (emulando Mitterrand). Ma il popolo italiano, con i comunisti in testa, riuscì a fermarli, e così la democrazia del leader, che avrebbe potuto “arrivare da sinistra”, tornò da destra, col grande amico di Craxi, unitosi con la destra “nazionale” contro la sinistra: Silvio Berlusconi. Ora è stata la volta del progetto di “grande riforma” dello Stato di Renzi, che era un premierato “all’inglese”, che qui avrebbe dovuto essere connesso ad un sistema “prevalentemente” basato sulla Camera dei Deputati, con elezioni a due turni e premio di maggioranza. Il 4 dicembre 2016 quel progetto di governabilità è stato sconfitto 60 a 40 (il che ritengo sia stato una sciagura nazionale), e la disfatta di questi giorni è un’appendice di quella sconfitta. Senza riforma dello Stato, garante di governi di legislatura legittimati dal voto popolare, il governo diventa appena buona amministrazione. Questa può pure andare bene in tempo di bonaccia, ma non certo bastare con le grandi tempeste in cui siamo costretti a navigare, in cui in pratica si naviga sempre controcorrente, in un contesto economico e storico anomico detto globalizzazione.

   Persino a dispetto di Renzi, si doveva insistere sulla “riforma dello Stato”, invece di fare un intruglio assurdo come il Rosatellum bis. Si doveva anche sostenere il governo Gentiloni, che ha fatto bene; e sarebbe stato efficace indicare Gentiloni come candidato premier per il “dopo elezioni” già due mesi fa. Ma, soprattutto, si doveva presentare, come PD, un progetto che tenendo conto dei rilievi della Consulta fosse sempre a doppio turno e con premio di maggioranza. Si sarebbe pure potuto ripristinare il Mattarellum (75% di maggioritario e 25 di proporzionale, con voto disgiunto). Questa critica al Rosatellum bis io l’ho fatta subito. E se poi “gli altri” – come i renziani dicono sia accaduto per giustificare il Rosatellum - avessero detto di no a tali cose, care al 40% che aveva votato sì il 4 dicembre 2016, si sarebbe dovuto lasciar cadere il governo e andare a elezioni nel 2017 con il minimo di normativa lasciata in piedi dalla Consulta, per riformare la legge elettorale dopo. Ho difeso e difendo il PD, ma questo pensavo e penso.

   Se un governo ha cinque anni davanti e al riparo dalle diverse insidie d’oggi (e dei decenni passati), può pure affrontare tutti i nodi, quali: un assurdo funzionamento della Giustizia, che con le sue lungaggini, interventi imprevedibili e “incertezza del diritto” disincentiva gli investimenti stranieri in Italia; la piccola criminalità nelle strade, che spaventa il Paese, e soprattutto la grande criminalità organizzata, che disincentiva la rinascita economica del sud; il debito pubblico, e così via. Ma se si passa da un governo provvisorio all’altro, in tempi di populismi di destra che si aggirano nel Paese e nel mondo, si è pressoché perduti.

   Ma c’è un punto chiave che se non viene capito provoca il crollo di tutto il baraccone: se viene giù - come ora è venuto giù, ma “speriamo” in modo rimediabile - il muro maestro del sistema, che ora è il Partito Democratico (o era), il sistema viene giù. Magari ne verrà su uno migliore, ma non sarà più una democrazia liberale o rappresentativa, né come l’abbiamo conosciuta dal 1948 al 2018 e neppure com’è nella Francia semipresidenzialista. Se vince a livello epocale il centrodesta di Salvini, che è il blocco storico che ha la maggioranza relativa, e che rappresenta in modo egemonico quell’Italia del Nord che è “la base di tutto” dal 1848 ai giorni nostri, il trionfo del “lepenismo” è assicurato: con la politica forcaiola sulle strade e in materia di immigrati, e la fortissima detassazione, che piacciono tanto a borghesi capitalisti e più in generale a tanti cittadini del Nord. Da ciò verranno pure contrasti con l’Unione Europea che potranno persino portarci fuori dall’Unione Europea (sebbene per fortuna non accadrà necessariamente, perché noi italiani mica siamo tedeschi, o inglesi, per nostra fortuna, e al potere ogni vino robusto è da noi trasformato in acqua e vino; ma il rischio è forte). Il rischio è ancora maggiore se a vincere sono i Cinque Stelle. Essi infatti hanno una doppia natura, in cui tratti populisti di sinistra e di destra sono come sovrapposti (però fino a quando?). Ma essendo il loro “punto chiave” il reddito di cittadinanza, il loro fine li pone in rotta di collisione ancora maggiore con i limiti impostici dal nostro debito pubblico e dall’Unione Europea, anche scontando l’annacquamento generoso che per governare vorranno fare anche loro al loro “vino”. Ma dietro di loro c’è un Sud che li attende alla prova e che non può essere troppo deluso senza mandar loro stessi “a fa’ n culo” rapidamente.

   Perciò sarebbe stato necessario salvaguardare un ruolo o primario o almeno molto forte del PD, che in sostanza era il muro maestro non solo della seconda Repubblica, ma della democrazia rappresentativa. In sostanza il “lepenismo” reazionario è alle porte, con un “sovranismo” che assomiglierà più al nazionalismo populista e al presidenzialismo peronista sud-americano che non al gollismo o “macronismo” francese.

   Il PD di Renzi ha perso. Prima ha perso il referendum e ora le elezioni. Nel modo più grave. La prima responsabilità non ce l’hanno avuta i suoi governi, che hanno fatto “abbastanza” bene, ma le gravi divisioni interne (e poi esterne). Queste sono state non solo molto dannose, ma anche sterili, perché la disfatta non è stata solo del PD, ma di chi lo ha contestato da sinistra. Questi “sinistri” prima sono stati decisivi per battere Renzi e il PD al referendum. Poi hanno fatto una scissione prima del congresso (cosa mai vista) e alla vigilia di elezioni politiche (peggio che peggio). Dopo la loro scissione hanno ancora respinto la linea di Pisapia di polemizzare col PD da sinistra, ma da alleati (privandosi pure, così, dell’apporto di un vero “capo” in seno al popolo, che era stato riconosciuto come tale dalla metropoli più europea d’Italia, e ciò a causa del loro assurdo antirenzismo “viscerale”), che ha loro impedito di fare quello che fanno normalmente a destra, e nelle grandi socialdemocrazie (litigare stando insieme, come ad esempio hanno fatto Berlusconi, Salvini e la Meloni). Poi hanno respinto le proposte di accordi elettorali di Fassino a nome di Renzi. Poi sono stati sordi agli appelli all’unità di Prodi e Veltroni. Poi hanno nominato leader uno che sino a settant’anni non aveva mai fatto politica. Credevano di prendere il 10% e hanno preso il 3; per poco restavano fuori dal Parlamento.

   Se fossero rimasti insieme al PD, si sarebbe avuto un PD almeno al 22 o 23%, ossia un pochino ammaccato rispetto al 25% del 2013, ma sempre autorevole, e non “in rotta”. Ora, invece di farsi un’onesta autocritica – tanto più che dovranno pure chiedersi “che fare?” – se la prendono ancora col PD di Renzi. E’ impossibile non vedere che per loro Renzi gioca il ruolo del capro espiatorio. Siccome Renzi è stato votato dal 70% degli iscritti e elettori come Segretario, avendo subito il cappotto di questi giorni ha dovuto dimettersi (“elementare, Watson”), ma la sua corrente avrà comunque un peso, che vuole salvaguardare. E’ forse strano? - Da molti mesi ho scritto che nel PD a mio parere c’è solo uno migliore di Renzi, che è Graziano Delrio. E’ almeno altrettanto “sui problemi”, è molto chiaro e comunicativo, ma con calda umanità e vero spirito dialogico nei confronti di tutti, che lo rendono anche migliore del Segretario – e Presidente – fiorentino. In una fase post-ideologica come questa anche i dati caratteriali hanno un grande ruolo, tanto più nell’era delle comunicazioni mediatiche e soprattutto televisive, Spero che diventerà segretario.

   Per ora il PD (di Renzi) non vuol sostenere né un governo Di Maio né tanto meno Salvini. Non mi spingo sino a dire, con Rossana Rossanda, che sostenere Di Maio sarebbe “uno schifo”. Ma tra PD e M5S secondo me c’è incompatibilità sostanziale. Il PD deve restare all’opposizione, anche se un’opposizione intelligente può comportare voti episodici o tecnici atti a consentire che si vada a votare con una nuova legge elettorale a due turni, come in Francia (ossia garante, in modo anche minimo, di governabilità). In più occasioni, se direttamente richiesti da partito a partito, si possono pure dare dei “sì tecnici”, ma senza alcuna alleanza, e solo quando non se ne possa fare a meno per andare al potere con una legge elettorale a due turni, che è indispensabile. Ma se il PD, al di là dei tatticismi inevitabili ma mai vincolanti, scegliesse di allearsi esplicitamente con chi, come il M5S, lo detesta e disprezza da sempre, e che in economia e sull’Europa ha idee da esso molto diverse, andrebbe “in malora”. Il PD deve rifarsi le ossa, e le idee, all’opposizione (pur essendo talora “flessibile” in questa o quella votazione rada, come ogni forza politica maggiorenne). Nell’insieme lo attende, se non vuol suicidarsi, una fase di anni di opposizione, anche per cercare di superare le fratture a sinistra e riconquistare masse di povera gente che lo hanno - spero temporaneamente – abbandonato, e di cui una forza di sinistra, o anche tale, non può fare a meno senza snaturarsi e persino estinguersi. Ai partiti un ciclo d’opposizione ha sempre fatto bene, per rinnovarsi o emendarsi. E’ giusto che i due populismi, alla Salvini e alla Di Maio, siano fatti governare, anche perché, come diceva Lenin, le masse “possono imparare, ma solo per esperienza propria”: vedranno quel che valgono. Lasciamoli provare. Così si vedrà la differenza tra chi fa politica accarezzando i “desiderata” di una folla che per ottime ragioni è furibonda, ma che non si può passivamente ascoltare, e chi per contro cerchi di coniugare principio di realtà e istanze di grande riforma istituzionale e sociale che, partendo dal disagio sociale, siano al passo con quel che si può fare nel maledetto mondo in cui viviamo.

    Tutto sommato sarebbe meglio tornare a votare non appena possibile, già in autunno, rifacendo solo la legge elettorale (purché se ne scelga una a doppio turno). Del resto io lo sostenni in una relazione a Città Futura, allora come Presidente e relatore, anche subito dopo le elezioni politiche del 2013: si doveva rivotare il Mattarellum e tornare subito alle urne, invece di fare maggioranza con Berlusconi, come fu allora voluto dal PD bersaniano tramite il governo Letta. Oggi bisogna evitare altri governi pasticciati, non solo ovviamente con il centrodestra, ma pure col M5S.

    La disfatta della sinistra - anzi delle sinistre, dal PD a Liberi e Uguali - è stata così grave che rischia di essere epocale. E tuttavia - a meno di un “nuovo inizio” politico di massa con nuove idee e programmi forti, e nuovi leader, di cui purtroppo non si vedono ancora neanche gli indizi – bisogna ripartire di qui, cioè dal PD, che è la sinistra o centrosinistra che c’é. Al di là dei tatticismi sempre inevitabili, il PD dovrà usare gli anni dell’opposizione per rinnovarsi, attraendo le piccole forze di sinistra e soprattutto masse di povera gente che ora ha perduto. L’aver cercato di rovinare il PD da posizioni di pretesa sinistra, che oltre a tutto hanno rafforzato la sua anima di centro, e non hanno ottenuto niente, è stato demenziale. La stessa sinistra farebbe bene, con realismo e modestia, a tornare a casa, nel PD; e comunque la sinistra ha da rinascere lì, nel PD o almeno con il PD. Salvare e rilanciare il PD, col renzismo e oltre il renzismo, sarà pure difficile, ma è l’unica cosa da fare. Io, in termini vuoi democratici e vuoi socialisti, e ambientalisti, non vedo un’altra via possibile.

                                                                                               (franco.livorsi@alice.it).         

 

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Alessandro Gassman e Marco Giallini sul grande schermo ...
Al Teatro Sociale tornano i tanto attesi appuntamenti del Sabato Pomeriggio in Famiglia quest'anno una...
Segnaliamo un articolo comparso sulla rivista economiaepolitica.it in cui si sostiene la tesi che le...
Segnaliamo un interessantissimo articolo di Rosa Canelli e Riccardo Realfonzo sulla crescente disuguaglianza...
Il Forum dei Movimenti per la Terra e il Paesaggio annuncia che il Gruppo di Lavoro Tecnico-Scientifico...
Segnaliamo un interessantissimo articolo del prof. Felice Roberto Pizzuti docente di Politica Economica...
I MARCHESI DEL MONFERRATO NEL 2018 Si è appena concluso un anno particolarmente intenso di attività,...
Stephen Jay Gould Alessandro Ottaviani Scienza Ediesse 2012 Pag. 216 euro 12​ New York, 10 settembre...
Segnaliamo un interessante articolo comparso sulla rivista online economiaepolitica http://www.economiaepolitica.it/lavoro-e-diritti/diritti/scuola-sanita-e-servizi-pubblici/servizio-sanitario-nazionale-a-prezzo-regionale-il-paradosso-del-ticket/...
Segnaliamo, come contributo alla discussione, un interessante articolo comparso sul sito “Le Scienze.it” Link:...
Il Circolo Culturale “I Marchesi del Monferrato” presenta il suo nuovo progetto per il 2018: le celebrazioni...
Segnaliamo un interessante articolo comparso sulla rivista online economiaepolitica http://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/europa-e-mondo/la-ripresa-e-lo-spettro-dellausterita-competitiva/...
DA OGGI IN RETE 2500 SCHEDE SU LUOGHI, MONUMENTI E PERSONAGGI A conclusione di un intenso lavoro, avviato...
Segnaliamo il libro di Agostino Spataro, collaboratore di Cittàfutura su un argomento sempre di estrema...
Memoria Pietro Ingrao Politica Ediesse 2017 Pag. 225 euro 15 Ha vissuto cent’anni Pietro Ingrao...
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