Il Pd ha mancato di empatia verso gli ultimi. Ora si riparta da un'opposizione umile
"Articolo
proposto dal Cives Pier Luigi Cavalchini"
Abbiamo subito una sconfitta storica. Infatti, se ragioniamo
su un arco temporale ampio, balza agli occhi il rovesciamento di una anomalia
italiana. Negli anni '70 l'anomalia
consisteva nella forza elettorale di una sinistra comunista e socialista in
grado di raggiungere quasi il 50% dei voti. In Europa nessun paese presentava
una situazione simile. Oggi si è verificata una anomalia diversa e contraria.
In Italia è quasi scomparsa la rappresentanza politica della sinistra. LeU ha
ottenuto un risultato insignificante. Il Pd è sprofondato al 18%, raggiunto
anche con un elettorato, democratico, ma non di sinistra.
Al di là delle considerazioni contingenti, comunque utili,
si impone, per noi, un tema strategico. La ricostruzione di un campo largo e
solido progressista: del tutto nuovo nella lettura della realtà, nella cornice
dei suoi valori e negli strumenti di rapporto con gli iscritti e i cittadini.
Molti affermano che ciò è del tutto inutile; perché la
sinistra è un ferro vecchio, un residuo ostacolante l'innovazione e l'apertura
alla società. Ai tradizionali sostenitori di questa tesi si sono aggiunti,
nell'ultimo periodo, anche i "macronisti" in salsa italiana.
Tale tesi è del tutto priva di fondamento. La sinistra
attuale, in tutte le sue forme, ha dimostrato di essere al capolinea. Ma la
sinistra, in quanto desiderio insopprimibile nell'animo umano di un riequilibrio
tra i forti e i deboli, è in natura, nelle cose. Almeno, fin dalla rivolta di
Spartacus, che non a caso ha dato il suo nome al movimento rivoluzionario più
colto e coraggioso che l'Europa abbia mai avuto; quello tedesco: gli
"spartachisti" di Rosa Luxembourg.
Se si perde questo sentimento che spinge in varie forme ad
accorciare le distanze tra chi sta sotto e chi sta sopra, non esiste più la
sinistra. Tale sentimento può essere declinato in modi diversi: il moto
rivoluzionario che tenta di conquistare il potere con la forza; il riformismo
gradualista; il compromesso socialdemocratico; la collaborazione per il bene
del proprio paese anche con gli avversari. La questione, tuttavia, non riguarda
la strada che si intende perseguire. Qualsiasi strada si scelga l'importanza è
che essa sia vivamente alimentata da quella pressione interiore che non
sopporta l'ingiustizia, l'offesa e la prevaricazione.
Mantenendo, sempre, uno sguardo storico, possiamo ben dire
che negli ultimi 30 anni, nelle nostre file, questo sentimento si è
drammaticamente affievolito. Ci sono ragioni oggettive, esterne, di carattere
mondiale. Non c'è tempo per analizzarle qui, come si dovrebbe. Basta
constatare, tuttavia, che l'89, e il crollo del comunismo, non hanno lasciato
sul campo una inedita ricerca di un punto di vista critico sul mondo. Un
tentativo di ricostruire le ragioni di una umanizzazione e democratizzazione
dei processi di globalizzazione. Da quella data, che sancì la fine dei regimi
autoritari, burocratici e poveri culturalmente, socialmente ed economicamente
dell'est, la sinistra, in particolare quella italiana, ha messo al centro lo
sblocco del sistema politico e la questione del governo e del potere. Abbiamo
fatto meglio degli altri su questo terreno. Ma via via abbiamo assunto sempre
di più uno sguardo illuministico; non di rado di riformismo astratto. Mentre la
cultura, le passioni, le speranze e le sofferenze delle persone via via
andavano da un'altra parte.
Gli anni che ci stanno alle spalle, rimarranno, infatti, segnati
dallo sfondamento di Berlusconi sul piano del costume, del modo di pensare,
della qualità dei rapporti tra le persone, della mancanza di ogni senso di
comunità e istituzionale. La Repubblica è così cambiata in peggio alla radice.
Il senso comune è degradato.
Ci siamo salvati, noi, da questa tempesta? Penso di no. Al
di là del fatto che per molto tempo siamo rimasti diversi e, secondo me,
migliori rispetto all'andazzo corrente, progressivamente anche noi abbiamo
subito una mutazione antropologica. L'ansia per il mantenimento della propria
posizione elettiva, la scomparsa diffusa di un impegno disinteressato nei
gruppi dirigenti, lo stile di vita che essi prediligono, la volgarità di un
certo nostro dibattito interno, persino il modo di vestire o di vivere la
quotidianità, hanno perduto la sobrietà, la dedizione, la predisposizione ad
accettare un sacrificio personale, tipici di una classe dirigente che vorrebbe
e dovrebbe cambiare il mondo.
Così, rispetto agli "ultimi", a chi sta male, a
chi, in modo anche transitorio, vive una difficoltà, a chi sperimenta la
solitudine e la fragilità nell'affrontare la nostra modernità, noi siamo
apparsi estranei. Vale a dire, anche quando abbiamo professato programmi volti
al miglioramento delle condizioni della parte più debole della società, è come
se avessimo agito dall'esterno: senza vera empatia e condivisione; senza
conquistare, dall'interno e sinceramente, lo sguardo di chi sta alla base della
piramide. Tant'è che progressivamente nel nostro elettorato si sono drasticamente
ridotti i consensi nelle borgate e tra gli operai, mentre si è consolidato
quello dei ceti medi e dei garantiti.
Si è consolidata una lontananza. Una incomunicabilità nelle
pratiche sociali e nel linguaggio. E tale lontananza si è aggiunta a quella
lontananza tra gli esseri umani, di cui parlava già Heidegger, quando affermava
che la velocità del progresso tecnico, (allora dei treni) pur accorciando le
distanze fisiche non creava più vicinanza. Anzi gettava le persone, nel caos
della vita, nello spaesamento e nella solitudine. Oggi dove tutto è velocissimo
e le persone possono nello stesso tempo sapere tutto ed essere ovunque, tale
lontananza disperdente si è fatta drammatica e se ad essa si aggiunge l'afasia
della politica, il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi. Una rabbia
distruttiva e autodistruttiva di una parte amplissima di cittadini italiani.
In questa condizione noi abbiamo svolto una campagna
elettorale basata su un racconto positivo e ottimistico delle condizioni del
paese. Ci sono, è vero, punte di avanzata, di ripresa, di eccellenza. Vanno
valorizzate. Ma contrapporre in modo radicale la rabbia alla speranza, è stato
un errore di sostanza. La speranza per essere credibile, deve saper includere
la rabbia; che c'è. La rabbia, come è nella tradizione della sinistra,
rappresenta il carburante del cambiamento. Il tema è come saperla interpretare,
volgere al positivo, trasformare in politica. La sinistra italiana, durante il
fascismo numericamente piccola cosa, è diventata grande innalzando i ceti
popolari dal plebeismo alla strategia politica, alla consapevolezza civile,
all'azione concreta di inveramento della costituzione in una Repubblica in
continuo rinnovamento e in rapporto con l'azione delle masse.
Il massimo della lontananza si è raggiunto durante il lungo
"termidoro" dei governi tecnici. Inevitabilmente, in quanto tecnici,
concentrati nel rispetto delle compatibilità piuttosto che nell'affrontare
l'effetto che la crisi del 2008 aveva avuto sui ceti deboli e del ceto medio
italiani. Con la beffa, per altro, del dover assistere alla moltiplicazione dei
profitti dei ricchi e al peggioramento costante dei redditi del lavoro
dipendente e operaio. Così la crisi ha messo insieme disagio materiale,
mancanza di rappresentanza e solitudine esistenziale e sociale. E' il terreno,
questo, più propizio per la demagogia, il pensiero violento, i rigurgiti
xenofobi, razzisti e fascistoidi e per la crisi democratica.
Sarebbe ingiusto non ricordare i tentativi di accorciare la
forbice di questa lontananza tra la sinistra e il popolo, la cultura e gli
intellettuali. L'Ulivo fu un tentativo. Ma sappiamo come è andato a finire. La
prima fase del Pd, che suscitò partecipazione ed entusiasmo non tanto sui
programmi quanto sul coraggioso tentativo di costruire una nuova forma
politica; ma anche questo tentativo sappiamo come precocemente è stato
strozzato, per le debolezze del gruppo dirigente, compreso il sottoscritto, e
il ritorno ad una idea di partito burocratica, apparatizia e rituale. Un altro
tentativo (è assurdo non riconoscerlo), è stato messo in campo da Renzi. Il
Renzi dei primi mesi, quando sembrò avere l'ambizione di cambiare la Repubblica
e il rapporto tra le istituzione e i cittadini. La rottamazione per un certo
periodo ha avuto questa coloritura: rottamare le vecchie classi dirigenti
italiane, aprirsi alle forze vive della società, superare consuetudini, anche a
sinistra, burocratiche, autoreferenziali, e disboscare le rendite ovunque esse
avevano messo radici.
Ben presto, però, questa visione ampia e nazionale del
rottamatore, si è sempre più, dopo i successi iniziali, trasformata in una
contesa interna contro i dirigenti, molti anche di valore, che avevano tenuto
precedentemente le redini del partito e della sinistra. La rottamazione
abbandonando l'ambizione di un generale rinnovamento repubblicano, è via via
diventata un fatto domestico. Nel Pd: via i vecchi che li sostituisco io!
Questa sensazione di resa dei conti interna, di fronte alle inevitabili prime
difficoltà nel rapporto col paese dopo lo straordinario risultato delle
europee, ha portato Renzi ad un solipsismo autoritario. Ad una sordità rispetto
ai conflitti e ai problemi reali. Lo ha imprigionato in una corazza difensiva,
impermeabile ad ogni confronto, dubbio, suggerimento. E' venuto fuori, così, un
modo sciatto e sbrigativo di gestire il potere e di rapportarsi con gli altri.
Erroneamente il segretario ha pensato che fosse un'opposizione troppo
pregiudiziale ad indebolire il Pd. C'è stato anche questo. Ma il dato fondamentale
è che la sua stessa leadership andava via via assumendo un carattere scostante,
malamente scanzonato, protetto da fedelissimi non di rado volgari e
opportunisti. La vicenda così grave e allo stesso tempo capricciosa, della
formazione delle liste per molti è stata la goccia che ha fatto traboccare il
vaso. Come è stato evidente nella posizione critica e giusta assunta su questo
tema da Andrea Orlando.
La soluzione è genericamente andare più a sinistra? In che
senso andare più a sinistra? Programmi più di "classe"? Più radicali?
Con un ritorno alle antiche parole di un tempo? Se bastasse questo LeU non
avrebbe preso solo il 3,5%. Ho la sensazione che invocare un conflitto più duro
sia persino controproducente quando non si sa bene dove sia il vero conflitto
contemporaneo tra i deboli e i forti, dove sia la sofferenza delle persone.
Dobbiamo accettare il giudizio dell'elettorato. L'elettorato
che non ci piace perché non ci vota non possiamo abrogarlo. Dobbiamo saperlo
riconquistare. La strada è lunga. E per me si fonda su un processo complesso
che intreccia nuovi luoghi della politica, con una pratica sociale che ci aiuti
a capire le contraddizioni in mezzo al popolo, con forme della politica
pazientemente reimmerse nella vita reale delle persone. Crollate le ideologie,
esauriti i partiti di massa, annebbiati i valori di fondo la risposta non può
essere l'ansiosa e solitaria ricerca di ognuno di salvare il suo fazzoletto di
potere. Che Pd hanno visto i nostri elettori? Tanti militanti disinteressati e
per bene. Purtroppo sempre di meno. Ma principalmente hanno visto feudatari
senza controllo nei territori, correnti in lotta tra di loro, cordate prive di
politica e segnate dal trasformismo e da un certo cinismo nel mettersi agli
ordini di quelli che considerano i capi del momento. Ecco perché ritengo
fondamentale per rilegittimare il nostro pulpito poco credibile lavorare non
solo sui contenuti ma sulle forme della politica. Sono essenziali, più degli
stessi contenuti. Perché se le parole anche più forti non arrivano più per la
nostra lontananza, occorre ricostruire la vicinanza e la politica dentro la
vita. L'ignoranza storica porta a sottovalutare le forme. Con forme politiche
adeguate Lenin diresse il ribollire caotico delle prime settimane della
rivoluzione russa; con le forme politiche Togliatti trasformò il partito
comunista italiano, che durante il fascismo era numericamente poca cosa, nel
più grande partito comunista dell'occidente; con le forme politiche il
cattolicesimo democratico, nel dopoguerra, arrivò alle persone, e seppe
radicare valori e pratiche sociali, tenendo viva una idea di autonomia e di
libertà degli individui contro i tentativi collettivistici e le ideologie
astratte; con le forme politiche Berlinguer seppe costruire un partito
composito di donne, di giovani, di associazioni e movimenti diversi e plurali;
con le forme politiche (seppure rapidamente sconfitte) l'Ulivo si affermò e
rimane ancora oggi vivo nei nostri ricordi e il Pd nella sua fase costituente
suscitò speranze e conquistò più del 33% dell'elettorato italiano.
La nostra ricerca non può che svolgersi dall'opposizione.
Opposizione intelligente, non fanatica; umile nel comprendere che il voto
operaio e popolare è andato ai 5 Stelle e alla Lega e che per recuperarlo non
servono le offese, gli anatemi, il rifiuto di qualsiasi confronto. Anche se gli
altri ci insultano e sono diventati avversari sempre più cattivi, noi dobbiamo
ricordare che la sinistra italiana parlò persino in termini di vicinanza e di
comprensione ai giovani fascisti, quelli reclutati dai repubblichini di Salò.
Contemporaneamente occorre avviare un congresso. Renzi si è
dimesso. La questione che egli ha di fronte è precisamente questa: se
catalizzare i suoi consensi per resistere da solo, pensando di rilanciare,
ancora da solo, un suo ruolo nel prossimo futuro o quello di chiedere rispetto
per l'impegno che ha comunque profuso, mettendosi a disposizione di una
collettività che sceglierà un nuovo gruppo dirigente e un nuovo segretario.
Per le cose dette, comunque, sono convinto che il congresso
deve essere ben preparato, avere il respiro profondo di una discussione a tutto
campo, sincera e vera. Guai a precipitarci di nuovo in una contesa tra i nomi
nei gazebo che riempiono di schede le urne ma svuotano e snervano ancor di più
le nostre compagne e compagni, oggi così spaesati. E' il momento che vengano
avanti elaborazioni, analisi, suggestioni, coraggiosi anticipazioni. I partiti
scompaiono non perché subiscono una sconfitta, ma perché via via si spengono
per mancanza di idee, di un vero confronto e di una funzione storica. Siamo in
bilico: scegliere ancora la strada delle divisioni sulle persone e sul potere
ci consegnerebbe alla disfatta definitiva. Ricominciare insieme una
rigenerazione possibile, come ha ricordato Zingaretti, può riaprire la strada
del futuro. Arriveremo anche alle primarie: prima, però, occorre riprenderci,
almeno un po', la dimensione politica.
Da http://www.huffingtonpost.it