Inutile, per il momento, affacciarsi sul crogiuolo
della crisi in corso. Troppe incognite ancora da sciogliere. E, soprattutto,
troppe spavaldissime mosse tattiche che dovranno cedere il passo a più miti consigli
– e consiglieri – strategici. Ma, quale che sarà la soluzione che alla fine
prevarrà, la domanda più importante rimane: quanto durerà? Quanto saranno
lungimiranti i calcoli che i vari attori in lizza avranno fatto? Nella
risposta, un fattore importante è il cosiddetto fattore leader. Vale a dire,
quel mix di ragionamenti e di ambizioni che guideranno i vari capipartito. Un
mix in cui conta molto la dimensione psicologica, il desiderio di restare
quanto più possibile al centro della scena. Sappiamo quanto i guai presenti del
Cavaliere dipendano dal non esser stato in grado di individuare un successore e
fare – in tempo – un passo indietro. E quanto Renzi abbia commesso lo stesso
sbaglio – e abbaglio.
Ma un elemento ancora più importante è il rapporto
dei leader col partito. Quanto è solido il loro controllo? E quanto
l’ossatura del partito risponde alle intenzioni – e alle visioni, alle pulsioni
– del capo? Sul medio e lungo periodo, questo è un elemento decisivo di
stabilità, e di forza. L’unico che può dare al leader maggiore prospettiva di
tenuta. Per capire che strada potrà prendere – non solo oggi, ma anche
dopodomani – la Terza repubblica, conviene interrogarsi su questo crocevia: che
tipo di organizzazione è alle spalle dei capi attuali, e quanto sono bravi a
forgiarla a propria immagine?
In questa fotografia, chi sta messo peggio è
Berlusconi. Come hanno scritto molti commentatori, questa è la sua prima vera
sconfitta. Contro i competitor esterni, aveva già perso in passato. Ma aveva
conservato il primato su tutta l’area del centrodestra. Oggi, è stato scalzato
dall’interno. Da un leader giovane – ahia, gli anni che pesano… - che gli ha
sfilato numerosi colonnelli e qualche generale, e molti altri li ingaggerà nei
prossimi mesi. Mettendo in crisi quella morsa assoluta che fino a ieri
Berlusconi aveva avuto sulla propria creatura. La transizione da Forza Italia
alla falange leghista non è, forse, un processo inarrestabile. Ma non potrà
essere il Cavaliere dimezzato e invecchiato a contrastarlo.
Se Atene piange, Sparta non ride. Come capo
dell’esecutivo, Renzi ha commesso diversi errori. Tuttavia, i risultati del suo
governo – e di quello di Gentiloni che ne è stata una fotocopia – resteranno
una pagina importante nella storia italiana recente. Ma come segretario del
partito, l’ex-sindaco è stato un disastro. Non se ne è mai occupato. E, quel
che è peggio, non ha mai capito il rilievo strategico che un partito rifondato
avrebbe avuto per il futuro del paese, oltreché suo. Il disastro del voto al Sud
è la più impietosa radiografia di questo suicidio. Ancor più grave perché Renzi
ha ignorato tutti i segnali di allarme – e quale allarme! – che erano venuti
negli anni. Al danno ha aggiunto la beffa. Dopo avere annunciato che sarebbe
sceso col lanciafiamme a metter ordine, non ha mosso un cerino. E si è portato
in Parlamento i responsabili delle macerie del Pd meridionale. Renzi –
semplicemente e tragicamente – non ha capito – o voluto capire - che una nuova
idea di politica ha sempre e comunque bisogno di una nuova idea di
organizzazione. Non era facile trasformare il brachiderma democratico. Ma non
averci nemmeno provato, è un errore che gli è costato caro.
Mutatis mutandis è la sfida che oggi si trova ad
affrontare Di Maio. Il ragazzo di Pomigliano ha già compiuto un mezzo miracolo,
prendendo il testimone di Grillo al vertice del movimento senza che franasse
tutto. Grazie a notevoli qualità personali, che pochi avevano intravisto. Ma
anche sfruttando un atout, che è – oggi – il suo tallone d’Achille: il rapporto
strettissimo con Casaleggio jr. e – attraverso lui – col server che resta lo
strumento principale per gestire i rapporti interni al Movimento. E’ il lato
più opaco – e preoccupante – dei Cinquestelle. Perché sostituisce la dialettica
interna, i suoi contrasti e la sua trasparenza, con flussi di informazioni, di
scelte, esternazioni garantite da una azienda privata. Avrà Di Maio la capacità
– e le risorse – per liberarsi da questo cappio telematico, ed aprire le porte
– quelle vere, non quelle usb – alla partecipazione democratica? E’ un
passaggio estremamente complesso, e rischioso, per chi – fino ad ora – è stato
abituato a comandare senza se e senza ma. Ma, se davvero i Cinquestelle
vogliono legittimarsi come forza di governo, si tratta di un passaggio
ineludibile. Anche perché, molto probabilmente, è proprio su questo terreno che
si aprirà presto la concorrenza interna alla leadership del ragazzo del Sud.
Molto più saldamente in sella appare, invece, l’uomo
del Nord. Salvini è oggi alla testa di un partito di antico e solido
insediamento territoriale. E che, per la prima volta, ha dimostrato di poter
penetrare a fondo anche in altre aree della penisola. E’ probabile che, più che
il voto di protesta confluito prevalentemente sui cinquestelle, i consensi
raccolti al Sud siano veicolati da micronotabili passati – armi e voti – da
Berlusconi al nuovo capo. Ma questo non farebbe che confermare una rete
infiltrante alle spalle della comunicazione rampante. Una rete che, al prossimo
giro, potrebbe provare a recuperare alla vecchia logica clientelare gli
scontenti che, il 4 marzo, hanno abboccato alle lusinghe del pifferaio Di Maio.
Certo, i numeri attuali vedono la Lega a molte
lunghezze dai cinquestelle, e indietro perfino al Pd. Ma Salvini è il solo – al
momento – che può contare su un rapporto collaudato tra un forte leader e una
forte organizzazione di partito. Entrambi in crescita. Per Di Maio, e per il
successore di Renzi, si tratta, invece, di una sfida in salita.
((*) Mauro Calise - “Il
Mattino”, 9 marzo 2018)