(franco.livorsi@unimi.it )
Dopo il primo incontro con Carl Gustav Jung di cui ho detto, per alcuni mesi io e il mio maestro parlammo a lungo della sua infanzia e fanciullezza (com’è stato ben documentato nella parte edita dei suoi Ricordi, sogni e riflessioni, cui in proposito, qui, avrei poco da aggiungere). Comunque tali fasi aurorali della vita del mio maestro erano già state connotate - come mostravano pure taluni grandi sogni lì raccontati - da un rapporto intenso quanto conflittuale con la fede cristiana dei suoi antenati. Tra costoro erano stati numerosi - sino al suo stesso padre, ai suoi zii e al suo nonno materno - i pastori protestanti ed i teologi. Ma era stata viva anche l’influenza familiare del nonno paterno di Jung, suo omonimo: un medico e gran maestro della Massoneria, probabile figlio naturale di Goethe, che era stato professore all’Università di Basilea nel tempo in cui là aveva insegnato anche il filosofo Friedrich Nietzsche. Tali complesse influenze determinarono, dall’adolescenza in poi, orientamenti importanti per tutta la vita di Jung. Un giorno, al proposito, io gli dissi:
- Ormai, nel delineare la sua autobiografia psicologica, Lei è giunto alle soglie dell’adolescenza, che è poi l’età delle grandi negazioni, ma anche delle prime letture decisive che ci segnano per sempre. Vuole parlarmi di tale periodo e di tali influenze, partendo da un punto qualunque che Lei ritenga significativo per la comprensione della sua avventura umana?
- Sì - rispose Jung meditabondo. - In tal caso forse potremmo procedere da una grande visione che ebbi intorno ai quindici anni.
- Addirittura una visione? Ad occhi aperti?
- Ma sì, sì, cara Aniela, proprio una visione. Dovrà abituarsi. So bene che nella nostra epoca non usa più avere - o meglio parlare - di tali esperienze, specie se uno non sia stato, o non sia, un pio pastorello nato dalle parti di Lourdes, e se la visione non sia proprio edificante. Ma a me è capitato più volte, nella vita, di avere delle visioni. È vero che succede di continuo anche ai matti, ma io non sono mai stato e non sono pazzo, almeno sino a prova contraria … (E qui il vecchio Jung scoppiò a ridere fragorosamente nel suo modo caratteristico, da uomo primitivo).
- Dunque, avevo circa quindici anni. Un giorno - sarà stato il mese di maggio - sostavo sul piazzale della chiesa in cui sorge il Duomo più vicino a Klein-Huningen, alla periferia di Basilea. In quella zona mio padre, doipo esserlo diventato a Zurigo, faceva il pastore, e vi sarebbe rimasto sino alla fine. Era mezzogiorno. Il sole batteva sul tetto della cattedrale, e io guardavo proprio in quella direzione. E riflettevo tra me e me.
- Che meraviglia! Mio Dio, che meraviglia! Il mondo è bello, la chiesa è bella, e tutto ciò è stato fatto da Dio, che sta su in alto, nel cielo azzurro, seduto su un trono d`oro…
Ma a quel punto tutto cominciò a ruotare, ed io presi a tremare come una foglia. Sentivo che stavo per svenire, crollando a terra. Sapevo che stavo per vedere Dio. Non mi chieda perché. E dicevo a me stesso:
- Sento che mi manca la saliva, non respiro più … Dio sta per manifestarsi, sul suo trono d`oro… Ma io non voglio vederlo. (Chiusi persino gli occhi per sottrarmi alla visione). Per me sarebbe troppo. Certo ne morirei, o impazzirei … Non voglio … Del resto invece di Dio quello che sta per manifestarsi potrebbe anche essere il diavolo … In tal caso, non debbo fare patti o dialoghi col serpente. Il peccato contro lo Spirito Santo non può essere perdonato. Si è dannati per sempre. Il Vangelo ce lo dice e mio padre me lo ha ben spiegato. Eppure, eppure, è Dio stesso che vuole che guardi. Lo sento. Debbo osare. Debbo assolutamente vedere il volto di Dio, anche se la sua visione dovesse venire dal diavolo. Lo devo …
E, in effetti, mi parve proprio di vedere Dio, e ciò provocava in me un`inenarrabile estasi di felicità. Riflettendovi, in seguito, pensai che Egli mi ricordava una stampa che conoscevo, che raffigurava l`Eterno così com`è stato rappresentato da Michelangelo nella Cappella Sistina, in tutta la sua potenza e il suo splendore. Tuttavia nella mia visione era seduto su un trono d`oro.
Ebbro di quella visione dicevo a me stesso: - Dio! Dio mio, non Ti dimenticherò mai …
A un tratto, la scena mutò in modo significativo. Una strana sostanza prese a cadere dal cielo, dal trono di Dio. Ma non era manna. Era merda che dal trono di Dio si riversava sulla cattedrale sino a far crollare il tetto.
Qui il vecchio Jung si interruppe per rivolgersi direttamente a me.
- Questo non se l`aspettava, vero? Non l`avevo mai raccontato a nessuno. Che ne dice?
- Mah, mi viene in mente San Francesco.
- Davvero? - Ecco una ben strana associazione mentale da parte sua!
- Sì, ma è sorta in me per contrasto, quasi per enantiodromia: per quella “fuga nell’opposto” su cui Lei ci ha insegnato a riflettere … Il fatto è che io, ad Assisi, ho visto, una volta, un bellissimo crocifisso in legno, naturalmente medievale, in una piccola sala d`epoca. La tradizione dice che in quel punto Gesù, dalla sua croce, avrebbe parlato a Francesco dicendogli semplicemente: "Salva la mia chiesa". Invece sembra che a Lei lo stesso Dio abbia detto di distruggerla, rovesciando su di essa, significativamente, tonnellate di merda.
- No, - rispose Jung con aria pensierosa - non sono d`accordo con Lei. Dio, secondo me, ha solo voluto mostrarmi anche il suo volto terribile, e perciò collocarsi al di sopra della chiesa stessa, irridendola per un istante, o relativizzandone il valore per qualche secondo d`eternità. Ma per me il punto centrale della visione era un altro, immediatamente antecedente.
- E quale sarebbe stato?
- Era la realtà di Dio, la sua concretezza, sia pure nell`iniziale paradossalità e nel carattere dissacrante, quasi demoniaco, della scena immediatamente successiva all’iniziale visualizzazione. Del resto, la “conclusione” della visione potrebbe pure essere stata opera del demonio, ma solo come espressione del volto oscuro e terribile di Dio, o - se preferisce - come manifestazione, pur essa necessaria, del suo contrario.
Per tal via, e con talune altre espressioni similari dell`Essere eterno, intuii il mio destino. Era come se la mia vita contenesse, in nuce, un compito da assolvere, assegnatomi dal Cielo. Ciò mi dava un intimo senso di sicurezza, che - sebbene non potessi mai trovarne la ragione negli eventi della mia esistenza visibile - mi s`imponeva. Derivava dalla ferma convinzione che non fossi stato “io” ad aver creato, con la mia fervida immaginazione, la visione. Era stata la visione - o se preferisce Dio - a venire a me. Nessuno avrebbe potuto privarmi della persuasione che fosse mio dovere fare ciò che Dio voleva, e non ciò che volevo io. E di lì mi veniva la forza di procedere per una strada mia propria, e di nessun altro. Spesso avevo la sensazione che in tutte le questioni decisive non fossi più con gli uomini, ma tutto solo con Dio. E quando ero là - dove non ero più solo (e, forse, troppo solo) - ero fuori del tempo. Appartenevo ai secoli. E Colui che mi rispondeva era il Vivente che era sempre stato, che c`era stato prima della mia nascita e ci sarebbe stato anche dopo la mia morte: appunto l`Eterno. Questi colloqui con l`Altro, che nel cuore della notte presi a fare di tanto in tanto, furono la mia esperienza più segreta e più profonda. Quel dialogare segreto provocava però anche, in me, un conflitto tremendo, perché talora temevo che la visione di Dio potesse appunto essere quella del Diavolo. Ma ogni visione - concernesse il lato di massima luce o di massima ombra del Sacro - era pure estasi suprema, percezione dell`Eterno al di là del tempo. Per quanto Le possa apparire paradossale, compresi allora, con timore, tremore ed entusiasmo infiniti, che Dio era, per me, una delle esperienze più sicure ed immediate della vita.
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Poco oltre anche le mie letture si fecero diverse, e via via emersero, in esse, taluni autori e testi mai dimenticati, anche quando divenni psicologo e scrissi i miei lavori cosiddetti scientifici. Stranamente, ma non tanto, l`impulso iniziale mi venne da mia madre. Fu lei a dirmi, in quel torno di tempo:
- Carl, uno di questi giorni dovresti leggere il Faust di Goethe.
Siccome conoscevo la leggenda di famiglia sulla paternità del nonno mio omonimo, non me lo feci dire due volte. Quella lettura mi impressionò fortemente, anche se fu, contingentemente, all`origine di uno degli episodi più spiacevoli della mia vita di studente ginnasiale, ormai sedicenne. Del resto come studente non ero mai stato un gran che. In lingua e letteratura tedesca andavo bene, è vero, però in Matematica ero quasi un disastro. Pure, neppure in quel campo “letterario”, per il mio professore, risultavo il migliore, soprattutto perché egli, quantunque fosse un tipo preparato, e persino erudito, era un autentico cretino. Ci aveva assegnato, per le vacanze, tra le altre cose, un tema che si intitolava così: "Parlate del libro che ha influito di più sulla vostra formazione spirituale".
- E Lei - interloquii io - parlò del Faust di Goethe.
- Esattamente…
- Il mio professore – un po’ di giorni dopo la consegna degli elaborati da parte nostra - entrò in classe con aria sussiegosa. Era un tipetto piccolo, impettito, con i baffetti neri e gli occhialetti rotondi sul naso, tutto compreso nel suo “importante” ruolo (come sempre accade ai cretini). Aveva tra le mani i nostri compiti. Ci guardò per alcuni secondi senza proferire parola. Noi tacevamo con compunzione, come allora usava.
- Il miglior tema - esordì - questa volta è quello di Carl Gustav Jung. Voglio anzi leggervelo.
"Il libro che è stato più importante per me, almeno sino ad oggi, è il Faust di Goethe. Esso racconta, in forma apparentemente teatrale, e in versi, la storia di un grande sapiente che vende l`anima al diavolo per poter condurre la vita del giovane gaudente sino alla fine dei propri giorni. Guidato dal diavolo Mefistofele, Faust compie ogni genere di esperienza, e commette pure, nella continua ricerca di un piacere che lo soddisfi completamente, grandi nefandezze, corrompendo persino una ragazza innocente, dandole un figlio illegittimo, abbandonandola poi cinicamente e uccidendone il fratello venuto a rivendicarne l`onore. Alla fine, però, Faust si pente e così salva la propria anima - nonostante le proteste di Mefistofele - dall`eterna dannazione.
Questo libro è stato, per la mia anima, come un balsamo miracoloso. È una delle poche grandi opere della cultura in cui il diavolo venga preso sul serio, tanto che il protagonista del poema conclude con lui persino un patto di sangue: patto che avrà il potere di mettere a repentaglio il disegno di Dio di realizzare un mondo perfetto.
Il comportamento di Faust con il diavolo mi è parso, però, deplorevole. L`insigne studioso non avrebbe dovuto essere così cieco e farsi ingannare tanto facilmente, sia pure dal diavolo. Avrebbe dovuto essere più accorto, ed anche più onesto. Faust è stato veramente puerile a giocarsi l`anima con tanta leggerezza. In fondo questo "dotto" era veramente un chiacchierone.
A mio modesto parere il significato del dramma si trova, però, soprattutto in Mefistofele.
A me non sarebbe dispiaciuto che l`anima di Faust finisse all`inferno. Che dire, infatti, di fronte ad un comportamento tanto irresponsabile? `Tanto peggio per lui`. Da questo punto di vista non mi ha persuaso molto la conclusione dell’opera, che vede il `diavolo imbrogliato`. Mefistofele infatti era stato tutto fuorché un diavolo stupido, meritevole di perdere la partita. In fondo è contrario alla logica mostrare che alla fine egli sia stato ingannato da insipidi angioletti. Faust si salva un po` troppo facilmente, e Mefistofele è sconfitto, anche lui, in modo alquanto spiccio. Forse Faust avrebbe meritato di godere, per qualche secolo, almeno la pena del purgatorio.
Ma da dove viene il `tipo` di Mefistofele?
Forse lo si comprende nelle grandi scene di iniziazione della seconda parte del poema: specie laddove, in riferimento alle più antiche divinità greche, si parla del mistero delle Madri. Mefistofele stesso lì sembra un satiro, un semidio della gioia di vivere, come quelli che seguivano Dioniso, apparendo alle fedeli menadi nei fumi del vino e dell`orgia sacra in cui a loro dire quel dio si manifestava concretamente, provocando la loro estasi collettiva. Può essere, però, che i satiri non fossero proprio cattivi. Sarà poi vero che Mefistofele fosse totalmente malvagio?
In Goethe non pare che le cose stiano sempre così. Forse il diavolo non è brutto come lo si dipinge. Forse, come sembra dirci Goethe, anche lui è necessario nel progetto della redenzione dell`uomo, o all’armonia del tutto. Del resto a me il libro goethiano piace per questo. Leggendolo mi è parso di trovare conferma ad una mia convinzione. Ci sono pur stati, grazie a Dio, uomini che vedevano il male e il suo potere universale e, soprattutto, il ruolo che esso pare avere nel liberare l`uomo dalla sofferenza e dalle tenebre. Il male obbliga l`uomo a lottare per il bene, che così diventa una vera conquista.
Perciò, però, il finale edificante, con il nostro Faust che si pente `in extremis` e che è sottratto alla pena, mi è parso poco credibile. Sarebbe possibile che anche Goethe si fosse illuso, finendo col minimizzare il male?"
Bello, vero, ragazzi? Meriterebbe il massimo voto. Ma, sfortunatamente, è una frode. Questo è il linguaggio di un vero saggista. Da dove lo hai copiato, Jung? Confessa…
Scattai in piedi, certo tutto rosso nel viso, e, con voce rotta dall`emozione, gridai:
- Non l`ho copiato! Mi è costato tanto scrivere un buon componimento!
- Sei un gran bugiardo, ecco quello che sei!
- Ma professore, professore… Le posso giurare che non l`ho copiato affatto…
- Arrogante d`un ragazzo! Tu finirai male. Ti posso assicurare che se sapessi da dove l`hai copiato ti farei sospendere dalla scuola.
Per l`occasione fu lui ad uscire, sbattendo la porta.
E nessuno, cara Aniela, credette alla mia innocenza. Solo il mio amico Oeri forse ci credette davvero, ma non ero sicuro neanche di lui. Forse mostrava di crederci per amicizia piuttosto che per convinzione. Fu un`esperienza molto amara.
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Per fortuna, però, il Ginnasio volgeva al termine.
L’anno successivo, durante le vacanze estive, cercando una mia strada mi misurai con alcuni grandi filosofi che già sui banchi di scuola avevano acceso la mia curiosità, a partire dal vecchio Eraclito, vissuto nel VI secolo avanti Cristo, quando la filosofia esisteva appena.
Immaginavo, in un dialogo scritto allora, con i limiti propri degli scritti di quell’età, di essere un giovane allievo del filosofo di Efeso. Le leggerò qualche pagina di questi quaderni ingialliti dal tempo.
Collocavo me stesso, con Eraclito, di fronte ad un delizioso tempio greco, con il caratteristico doppio colonnato in pietra bianca, e tanti ulivi intorno. Io interrogavo e il saggio antico rispondeva, con parole o idee tratte dai suoi indimenticabili aforismi.
" - Perché parli attraverso sentenze brevi e poetiche, sfuggendo all`ampio argomentare dei nostri grandi oratori, o Eraclito?
- Parlare per aforismi è la mia forma di sapienza: una via all’essere simile a quella della Pizia, la sacerdotessa di Apollo che, a Delfi, dà le sue profezie, che ci appaiono tanto veritiere. E infatti uno dei miei aforismi cui tengo di più afferma: "Il dio, al quale appartiene l`oracolo in Delfi, non dice e non nasconde, ma accenna". Alla verità incondizionata, insomma, possiamo solo alludere, dopo avervi riflettuto con tutta la nostra anima, tracciando sulla pergamena, o con la voce, quel che l`anima stessa alla fine ci detta. La verità balena come un lampo, dal fondo della nostra anima, che è l`abisso da cui essa sorge, se sappiamo ascoltarne la voce con cuore puro, facendo tacere ogni allettamento, ogni sviamento, ogni influenza che voglia sommergere quella voce interiore. Per questo mi piace dire, figliolo, che "per quanto uno vada, per quanto ogni strada percorra, non potrà scoprire mai i confini dell`anima: tanto infiniti sono i suoi sentieri."
- Pure, c`è qualcosa di profondo, e quasi di indicibile, che tu sembri aver scoperto…
- Intuito, intuito, ragazzo: visto solo balenare, dalle profondità del mio essere. Ed è già molto…
- E che cosa hai visto, soprattutto?
- Ho visto un dio che mentre cambia è sempre se stesso, e mentre è se stesso cambia continuamente, in modo tale che la Natura, il cosmo, l’essere, alla fine rimane sempre lo stesso, pur mutando di continuo. Ho colto, insomma, l’identità assoluta tra l’Essere e il Divenire, sicché “tutto scorre”, a un punto tale che “non ci si può”, a rigore, “bagnare due volte nello stesso fiume”, perché quando torni a bagnarti, caro mio, l`acqua è già un`altra, il fiume è già un altro, benché sia anche sempre lo stesso.
- Ma se le cose stanno così, che sono mai, per noi, il bene e il male?
- Sono solo parole che distinguono e oppongono, in modo umano troppo umano, elementi tra loro fusi e confusi. Il fare tali distinzioni ci è certo utile, ma è solo una nostra costruzione arbitraria, sovrapposta alla realtà in sé, all’essere, alla Natura prima e ultima, che è ad là del bene e del male. Per se stessi bene e male non esistono, mio caro amico. "Ogni animale la frusta del dio lo porta al pascolo". L’Essere, la Natura, o se preferisci Dio, è dovunque e con chiunque, anche se solo il saggio lo vede balenare, e ne è - per la visione di pochi attimi di eternità - trasformato per sempre. Ma questo la gente non lo capisce. "I più" sono come gli “asini, che preferiscono la spazzatura all`oro, poiché per gli asini mangiare ha più valore dell`oro." Parlo, naturalmente, dell`oro della conoscenza, dell`apparire del dio interiore come unità che riluce al di là della molteplicità, che pure la esprime. Ho sentito questa Vita che è una in tutto e tutto in uno, nella quale essere e divenire si identificano perché si specchiano reciprocamente nell’Uno. Mi è apparsa come un grande fuoco spirituale. Tutte le cose si scambiano con lei, che è poi il fuoco stesso, e il fuoco si scambia con tutte le cose, così come i beni si scambiano con l`oro e l`oro con i beni. Perciò si può pure dire che “questo cosmo, il quale è il medesimo per tutti, nessuno degli dèi né degli uomini lo ha fatto”, ma che esso “è sempre stato, è e sarà per sempre, come un fuoco che sempre vive, e che a intervalli regolari si accende e si spegne”. Tutto procede e tutto ritorna dall’Uno e nell’Uno. L’eterno ritorno è sempre presente, come eterno divenire di una sola Natura, che è eterna e se stessa, sempre uguale e sempre diversa, sempre diversa e sempre uguale. Ma gli occhi dei più, in quanto sono propri di individui volgari, di tipi perduti che prendono per definitive le apparizioni momentanee, sono chiusi alla visione. Essi non possono cogliere l`essere immutabile nel divenire né il divenire, sempre mutevole, nell`essere immutabile. Di lì nascono le false opposizioni, le discriminazioni, le distinzioni, le brame (come se tutto non fosse in tutto, e come se l’attaccamento morboso a questo o a quell’essere vivente potesse avere il minimo senso, se non nella luce del divenire dell’unico essere). Ponendoci dal punto di vista di questa massa d`imbecilli che passano accanto all`oro e preferiscono i rifiuti senza comprenderne il valore e senza vedere la sua luce, affermo che “per la divinità tutto è bello, buono e giusto. Gli uomini, al contrario, hanno ritenuto alcune cose ingiuste e altre giuste”.
- Anche per me è difficile seguirti su questo terreno.
- Eppure, se mediterai con tutto te stesso, tutto ciò lo potrai toccare con mano. Lo vedrai come la verità che appare in quanto “assenza di nascondimento” (alétheia), ossia come l’essere, come la Natura creatrice che si svela.
Mi piaceva tanto anche Empedocle, il poeta filosofo di Agrigento (che nel quinto secolo prima di Cristo era essa pure una splendida cittadina greca). Tra l`altro a me i pensatori-poeti sono sempre piaciuti immensamente.
- E perché? - interloquii io -, forse per la sua scarsa simpatia per l`astratto, per la matematica e così via?
- Può essere, può essere ... Ma anche in età matura, quando ero già "junghiano", mi è parso di vedere che l`inconscio collettivo - “l`uomo specie”, o l’uomo eterno, che vive in tutti e in ciascuno sempre diverso e sempre uguale a se stesso, appunto come il fuoco, o il dio, o l`anima, dell`oscuro Eraclito - si esprima soprattutto attraverso i poeti, e che quando il poetare autentico si fa filosofia sia il Sé stesso che parla. Mi pare, insomma, che in tal caso parli la radice stessa dell`inconscio collettivo di una determinata epoca, sicché la verità della fine del 1700 io l`ho cercata in Goethe e nel suo Faust (ossia in un poeta che era più che un poeta), e quella della fine dell`800 l`ho cercata in Nietzsche (per la stessa ragione). Comunque è per questo che, tra i presocratici, mi piaceva il poeta-filosofo Empedocle. È proprio un peccato che a noi di questi veggenti, che parevano già aver compreso tutto, o quasi, sia arrivato tanto poco. Ma senta …
E nel dir così il vecchio Jung andò alla libreria e ne trasse un vecchio libro tutto di scritti dei "presocratici".
- Voglio leggerle qualcosa di questo Empedocle, per farle comprendere come abbia inciso su di me, sin dalla giovinezza.
Ecco, dobbiamo innanzitutto ricordare che per lui la colpa e l`odio portano al distacco dall`unico essere, che in tutti vive, ma che resta immutabile, sempre uguale a se stesso: un essere che talora egli chiama "lo sfero", che è poi - detto tra noi e per noi - il "rotundum" alchemico, ossia la nostra massima rappresentazione visibile dell`Uno nel Tutto e del Tutto nell`Uno, o del Sè: appunto la circolarità, o sfericità, pura. Ma senta …Deliziamoci un poco anche noi …
"Fanciulli: non certo solleciti sono i loro pensieri,
essi che si aspettano che nasca ciò che prima non era
o che qualcosa muoia e si distrugga del tutto."
Eppure al di là dell`odio che divide sta l`essere nella sua perfetta unità: ossia il puro Amore, il nostro grande Eros, che tutto pervade. Ascolti infatti qui:
"Là, alla radice di ogni vita, né del sole si scorgono le agili membra,
né la potenza vellosa della terra né il mare;
così nei compatti recessi di Armonia sta saldo
lo Sfero circolare, che gode della solitudine che tutto l`avvolge."
Ecco, per Empedocle solo l`odio ci allontana da tanta beatitudine nell`essere e dell`essere, che è poi l`Uno visto come Amore. Sembra che l`odio - la “contesa” - si configuri come una tragedia che corre di vita in vita: come un cattivo seme che produca cattive piante. È come un destino tragico che ci insegua lungo la catena delle esistenze, che per Empedocle, come per Pitagora, erano innumerevoli. Credeva lui pure, come tutta l’India, nella metempsicosi. Ma ascolti…
"È vaticinio della Necessità, antico decreto degli dèi
ed eterno, suggellato da vasti giuramenti:
se qualcuno criminosamente contamina le proprie mani con un delitto
o se qualcuno per l`odio abbia peccato giurando un falso giuramento,
come spiriti demoniaci che hanno avuto in sorte una vita longeva,
tre volte diecimila stagioni lontano dai beati vadano errando
nascendo sotto ogni forma di creatura mortale nel corso del tempo
mutando i penosi sentieri della vita.
L`impeto dell`etere in vero li spinge nel mare,
il mare li rigetta sul suolo terrestre, la terra nei raggi
del sole splendente, che a sua volta li getta nei vortici dell`etere:
ogni elemento li accoglie da un altro, ma tutti li odiano.
Anch`io sono uno di questi, esule dal dio e vagante
per aver dato fiducia alla furente Contesa …
Un tempo io fui fanciullo e fanciulla,
arbusto, uccello e muto pesce che salta fuori dal mare."
"Piansi e mi lamentai" - e nel leggere ciò il vecchio Jung ebbe un nodo alla gola - "vedendo un luogo a cui non ero abituato".
È dei nostri, quest’Empedocle, non è vero?
- Senza dubbio, e, soprattutto, è veramente stupendo. E purtroppo pochi lo conoscono.
- Che ci vuol fare? Ma ora facciamo pausa, prendiamoci un caffè e poi smettiamo sino a lunedì. Non mettiamo troppa carne al fuoco, cara Aniela(2).
(Segue)
26 agosto 2006
[Le illustrazioni di questa pagina: Il volto di Dio, particolare della cappella Sistina di Michelangelo; Dio e Adamo di Michelangelo; Goethe; Faust, Margherita e Mefistofele di Delacroix; Eraclito, particolare de La scuola di Atene di Raffaello; Eraclito di Rubens; Empedocle; il Partenone]