Il libro da me più intensamente amato sin dai sedici anni, e poi sempre meditato nel consenso come nel dissenso, è stato il Così parlò Zarathustra di Nietzsche (1883/1885 e completo nel 1892, da me letto per la prima volta nell’edizione, integrale - come tutti i tre grandi testi ivi compresi - a cura di Liliana Scalero, ne “Il meglio” di Nietzsche, Milano, Longanesi, 1956, e in volume autonomo, ivi, 1979). Sino ai vent’anni lessi quel libro con così profondo insight da saperlo quasi a memoria. A ventuno anni divenni un socialista di sinistra attivissimo. Dapprincipio, anzi, cercavo in Marx e nel marxismo la prosecuzione rivoluzionaria della totale negazione del mondo che chiamavo borghese-cristiano, sulla scorta di un grande libro di Karl Löwith, Da Hegel a Nietzsche (1941, e Torino, Einaudi, 1948), da me letto a diciannove anni grazie alla Biblioteca di Ferrara, ove magari esisterà ancora con qualche mia segnatura deplorevole. Poi divenni seguace di Lelio Basso e poco oltre soprattutto di Vittorio Foa (e più oltre ancora, nel 1972, comunista), sempre più profondamente influenzato dal marxismo, ma mai al punto da rinnegare quel grande “primo amore”. Solo, esso divenne in me più contrastato e guardingo, consapevole dei lati d’ombra, a tratti persino reazionari, di un pensiero che pure seguitai sempre a ritenere di grande liberazione interiore, e tale da giustificare una persistente meditazione su di esso, filosofica religiosa morale e psicologica. Se sono tornato a modo mio alla religiosità lo debbo anche a Nietzsche, più antiteista che veramente ateo, come Prometeo con Zeus, o Giacobbe in lotta con l’angelo per tutta una notte, da cui uscì “slogato”, ma sempre sotto sotto consapevole del fatto che “l’eterno c’è”. Appunto. Non solo, le filosofie della volontà di vivere sono già dell’inconscio e portano per direttissima alla psicoanalisi e, nel caso di Nietzsche, alla psicologia analitica. Comunque la mia empatia per Nietzsche, per tutte le sue opere trovabili in italiano, anche in vecchissime traduzioni scovate sulle bancarelle di Torino, era stata e in parte è rimasta così intensa e misteriosa che non ho mai osato parlarne a fondo. Ma il problema del confronto vero con quel grande filosofo, al di fuori di un approccio da studioso, per me è ancora aperto, e un giorno, se non morrò o non perderò prima il ben dell’intelletto, vi farò fronte, ma su un terreno che non sarà accademico né nella forma né nella sostanza neanche per un milionesimo. Per le faccende d’anima, che concernano la nostra identità più profonda, e il significato e fine stessi della nostra vita personale e generalmente umana, mi attraggono vie d’espressione “ibride”, in cui “cuore” e “cervello” siano interconnessi (mentre lo “studioso puro” vuole, e forse deve, disgiungerli, almeno quando operi come tale). Per la verità anche il poeta puro - con impostazione uguale e contraria a quella dello studioso - tende a privilegiare il “cuore” rispetto al “cervello”; ma io cerco invece una vera sintesi tra i due piani. Anche in questo sono rimasto un po’ nietzscheano.
Data questa premessa si capisce che io mi sia subito precipitato a leggere il grande testo: C. G. Jung, Lo “Zarathustra” di Nietzsche. Seminario tenuto nel 1934-39, A cura di James L. Jarrett, Traduzione di Alessandro Croce, I: maggio 1934 - marzo 1935, Torino, Bollati Boringhieri, novembre 2011, pagg. 484, E. 45. Si tratta della stenografia, fatta subito, e del testo dattilografato, subito ricavatone, e approvato via via da Jung, di un seminario tenuto da Jung stesso al Club Psicologico di Zurigo (dal 1958 Istituto Jung) tra il 1934 e il 1939, in lingua inglese perché rivolto a psicologi “seguaci” tra i quali c’erano parecchi americani (benché fosse di lingua tedesca tanto Jung quanto il “suo” Nietzsche). Il testo oggi in italiano era stato edito postumo dalla Princeton University Press sin dal 1988, ma gli editori italiani non si erano mai decisi a tradurlo, nonostante la domanda alta di lavori di Jung e di Nietzsche degli ultimi decenni. Dato il successo insperato del recente, preziosissimo e costosissimo Libro rosso (1913/1928 e con un epilogo del 1958, ma postumo 2010) di Jung - pubblicato a cinquant’anni dalla morte, a cura di Sono Shamdasani e edito da Bollati Boringhieri nel Natale 2010 - lo stesso editore Bollati Boringhieri si è finalmente deciso a presentarlo anche al lettore italiano. Ma forse ha mantenuto un pizzico della reticenza antica di cui si è detto, dandoci solo il primo dei due volumi, con strana scelta editoriale perché si sa che il principale motore del successo di un libro di natura saggistica - in tal caso oltre a tutto vasto e non certo facile per tutti - è costituito dalle recensioni. E chi si mette a recensire la metà di un’opera? - È vero che uno può procurarsi l’edizione inglese completa, di cui si è detto, ma in nove casi su dieci aspetterà la traduzione integrale. Cominciamo comunque a vedere quel che ci ha per ora passato il convento bollatiano (poi, quando sarà arrivato il secondo volume, completeremo, con la logica dell’”Heri dicebamus”). E cerchiamo pure di vedere se il testo edito spieghi un poco la reticenza a pubblicare di cui si è detto.
Naturalmente il testo junghiano si rivolge a chi il Così parlò Zarathustra di Nietzsche l’abbia letto e l’abbia sotto mano, in modo tale da poter seguire facilmente i riferimenti. Ma il farlo non avrebbe dovuto essere un problema. Inoltre c’è un approccio che può - per colpa assolutamente loro - non essere del tutto interessante per i filosofi; è, infatti, totalmente psicologico analitico. L’”opera” è per così dire “fatta distendere” sul lettino dell’analista. Apparentemente era un procedimento abbastanza simile a quello utilizzato da Freud, ad esempio quando parlò di Dostoevskij o di Leonardo daVinci, ma con una differenza abissale. Per Freud è il vissuto dell’autore a dover essere scoperto dietro l’opera e a darne conto. Jung, invece, pensa che l’opera d’arte abbia un significato intrinseco intersoggettivo e che l’autore sia una sorta di interprete, e talora quasi di medium, di un’intersoggettività umana, in specie inconscia, che lo trascende ampiamente, e di cui - anche se non debbano mai essere dimenticati i suoi drammi personali - egli è solo il portavoce, o meglio un esponente epocale rappresentativo. Perciò ho detto che qui è “Zarathustra” a essere messo sul lettino dell’analista, anche se il fortissimo legame tra Nietzsche e il suo Zarathustra è sempre tenuto presente, ora in piena luce e ora sullo sfondo.
Il relatore si fa aiutare dai partecipanti al seminario (come si deve fare in ogni buon seminario di studi), soprattutto suscitando ed ascoltando brevi risposte o domande, pur facendo di gran lunga la parte del leone (come capita pure nei nostri seminari universitari migliori). L’approccio – dicevo - è psicologico analitico. Com’è noto in “analisi” c’è uno che parla a ruota libera di sé in modo via via più disinibito di incontro in incontro (il paziente) e un suo “Virgilio”, rispetto a lui (o lei), che è invece il “Dante” che dalla selva oscura delle nevrosi legate ai conflitti nell’inconscio va verso la luce dell’adattamento esistenziale, della coscienza di sé e dell’ autorealizzazione (in Jung “individuazione”): un “Virgilio” il quale interviene in modo minimo, seppure sempre partecipe, dando all’analizzato qualche piccolo impulso a chiarire le cose, in specie nella sua circumnavigazione intorno al principale materiale emergente dall’inconscio (i sogni). Il paziente “associa” al racconto del sogno, o del vissuto, tutto quello che gli passi per la testa, in modo che di incontro in incontro il suo testimoniare quel che ferve nell’inconscio si fa sempre più libero e disinibito, finché viene a galla, cioè alla coscienza, qualcosa che sotto sotto disturbava moltissimo il vissuto di veglia, e anche “di sonno”, provocando disadattamento e comunque grave sofferenza psichica. A questo metodo delle libere associazioni Jung però aggiunse via via, specie dal 1913, l’amplificazione (per non parlare qui dell’”immaginazione attiva”, in cui “da solo” il paziente interloquisce in modo sempre più libero con le figure dei suoi sogni, come fece Jung intorno al 1913, per altro in modo psichicamente pericoloso ove vi sia latenza di follia). La premessa, nello junghismo, è che la psiche non sia una tabula rasa, ma contenga anzi molte cose di cui uno non sospetterebbe neanche l’esistenza. Queste “cose” che nella psiche ci sono, quantomeno latenti ma già operanti, sono dunque “lì” non già perché siano state “rimosse”, cacciate dalla coscienza nell’inconscio, ma perché fanno parte del bagaglio psichico dell’animale uomo. Si tratta di fortissimi impulsi a priori vuoi biologici o sociali e vuoi spirituali. Tali impulsi costituiscono quasi una sorta di DNA mentale, che si concretizza in simboli e connessi miti di carattere universalmente umano: simboli e “storie” che quando serva - in specie a chiarire la vita onirica del paziente - possono anche essere svelati a lui dall’analista. Possono infatti integrare specifici sogni, in quanto risultino molto simili a tali simboli e miti dell’inconscio collettivo. Naturalmente una sapienza nella storia delle religioni, nelle mitologie comparate, e di opere poetiche coeve, in tal caso è parte molto importante della preparazione dello psicologo analitico.
I testi poetici, proprio in quanto molto legati a un’ispirazione che ha sempre a che fare con l’inconscio (anche se è “lavorata” dall’autore), si prestano molto a essere analizzati così. Il Così parlò Zarathustra di Nietzsche, per il suo carattere non solo poetico, ma anche visionario e spesso oniroide, oltre che concettuale, è molto adatto ad essere vagliato in tal modo. Va pure detto che non avendo a che fare con un paziente in carne e ossa, Jung in tal caso poté permettersi di eccedere nelle amplificazioni, che spesso lasciano il testo di Nietzsche un po’ sullo sfondo, come se esso fosse stato un’occasione per parlare di altre cose fondamentali della psicologia analitica, collegate o collegabili ad esso. Inoltre non si preoccupò - cosa che molti di noi non farebbero mai né con testi filosofici o poetici né con testi psicologici - di darci i rimandi filosofici possibili (pur non ignorandoli o rimuovendoli del tutto), anche quando per noi sarebbero stati ovvi. Jung, insomma, ragionava sempre da psicologo del profondo, dilagando sì sul terreno mitologico “psicologizzato”, poetico o religioso, ma assai meno sul terreno filosofico in senso stretto, che pure era quello caratteristico di Nietzsche. Forse questo può aver reso un po’ tiepidi i lettori “filosofici”. Ma siccome qui si parlava di Nietzsche, può aver pure sconcertato un poco i cultori appassionati di quel filosofo, perché Jung appare così clinico e critico con Nietzsche da non concedergli molto, pur apprezzandolo come incarnazione dello spirito epocale forse più di ogni altro filosofo. Ma per Jung si trattava di uno “spirito del tempo” malato, anche in se stesso: sia in riferimento a Nietzsche che in riferimento all’epoca sua propria, che era o sarebbe stata anche quella fosca della Germania nazista del tempo.
Un primo punto centrale era l’identità di Zarathustra. Com’è noto, e chiarito da Nietzsche stesso, storicamente questi era stato il profeta - con una piccola minoranza di seguaci ancora presenti tra i monti nell’Iran d’oggi – che nel X secolo a.C. (ma la datazione del secolo stesso è molto incerta), aveva interpretato creazione e distruzione come lotta tra il principio divino del bene (Orzmud) e quello del male (Arimàn), riversando la sua dottrina soteriologica in un libro, poi manipolato nei secoli successivi, intitolato Avesta (“Il fondamento”), che oggi può anche essere letto in una bella edizione italiana a cura di Arnaldo Alberti edita a Torino dalla UTET nel 2004. Il profeta Zarathustra di Nietzsche - l’incontro con il quale sarebbe stato una sorta di rivelazione e che si sarebbe concretizzato in un’opera ispirata in sommo grado, come testimoniato dal filosofo verso il 1888 nell’opera autobiografica Ecce homo (postuma, 1907) - si presentava come il revocatore della sua rivelazione originaria: come filosofo profeta che predicava la necessità di andare “al di là del bene e del male”, in un mondo di valori etici relativizzati, secolarizzato, in cui “Dio è morto” e perciò il “fondamento” (l’”avesta”) veniva a crollare. La cosa - aggiungo - è anche un po’ inquietante perché in tal caso “Zarathustra” non è tanto diverso da Anticristo, titolo di un’operetta estrema di Nietzsche del 1888 edita nel 1894, nel senso che è lo schermo della “fuga nell’opposto” (in Jung enantiodromia) rispetto al “nostro” Salvatore che operò ed opera in nome del “Sommo Bene”.
Jung tenne dunque diversi seminari sullo Zarathustra di Nietzsche tra il 1934 e il 1939, ma in realtà è giusto - anche se a prima vista può sembrare strano - parlare di “seminario” al singolare perché ogni volta riprendeva dal punto d’arrivo della tappa precedente, andando avanti nell’esame dell’opera. In realtà nella metà ora edita vagliava una parte minima del Così parlò Zarathustra, prendendo in considerazione la cosiddetta Prefazione, che è una sorta di prologo di questo testo, un poco come la sinfonia iniziale di un’opera lirica, alla fine risultata di quattro atti (“parti”), che se nel 1889 non fosse impazzito avrebbero potuto essere cinque. Quella Prefazione in effetti è una piccola grande sintesi del “poema”, e più in generale della filosofia di Nietzsche, tanto che se presa a sé a me pare che potrebbe essere vista come può essere stato il Manifesto del partito comunista del 1848 per Marx e Engels, ossia come la miglior sintesi di tutto un pensiero, il suo succo più vitale. Ciò è così vero che per 215 pagine (su 484) Jung non si occupò se non della quindicina di pagine della richiamata Prefazione allo Zarathustra: naturalmente anche perché per tal via trovò il modo di parlare di tante questioni decisive sia per la psicologia analitica, sia in riferimento al tema del cristianesimo e della scristianizzazione, sia alla sorte stessa dell’Occidente tra le due guerre mondiali (ma la seconda era di là da venire, anche se qui era chiaramente intuita).
Il poema di Nietzsche narrava, nella Prefazione, come Zarathustra a trent’anni avesse lasciato la patria e il lago della sua patria per andare a meditare in solitudine sulle montagne, godendo ogni giorno della luce del sole per dieci anni, con i suoi animali, l’aquila e il serpente. Ma poi aveva sentito il bisogno di “discendere” in basso per portare la luce acquisita agli uomini. Scendendo incontrava un vecchio asceta che notava la sua trasformazione positiva, nei dieci anni trascorsi da quando Zarathustra aveva portato la sua “cenere sui monti”. Gli sconsigliava di scendere a valle, dagli uomini, restando piuttosto lì in montagna, lontano dagli uomini, che distruggono chi li ama. Piuttosto sarebbe stato meglio fare come lui, vivere tra gli animali, pregare e cantare la gloria di Dio. Zarathustra salutava con simpatia “il santo” e, rimasto solo, si stupiva che costui non avesse ancora saputo che Dio era morto. Poi giungeva in pianura, nella città detta “la vacca variopinta”. Qui annunciava alla folla, riunita sul mercato, la miseria intellettuale e morale dei valori tradizionali connessi alla fede ultraterrena e in Dio. Condannava la morale tradizionale dell’aurea mediocritas e delle piccole virtù, cui contrapponeva la prospettiva dell’avvento del superuomo (o oltreuomo), dio a se stesso al di là del bene e del male in conseguenza della morte di Dio. Percependo l’indifferenza e scherno dei cittadini, provava a impartire l’insegnamento del continuo superamento di sé verso l’oltreuomo facendo leva sull’orgoglio degli ascoltatori, indicando una prospettiva antropologica opposta a quella del superuomo, una via insomma estremamente involutiva invece che evolutiva: quella dell’”ultimo uomo”, che non vuole più superarsi affatto, pago di un’esistenza fine a se stessa, banale e soddisfatta. Ma la folla prendeva ciò come un ideale desiderabile, per ottenere la quale sarebbe stata ben lieta di regalare a Zarathustra il suo oltreuomo.
Zarathustra avrebbe voluto superare la condizione tipica dell’uomo, “corda sospesa tra l’animale e il superuomo”, “corda sospesa sopra l’abisso”. Ma era irriso dalla “folla al mercato” come se fosse stato un giocoliere delle parole, un funambolo del pensiero, contrapposto dalla folla stessa al funambolo che avrebbe dovuto esibirsi poco dopo. Questi iniziava il suo pericoloso numero. Ma a mezza via - naturalmente tra animale uomo e superuomo - era affrontato sulla corda da un diabolico concorrente vestito da pagliaccio, che lo faceva precipitare superandolo con un balzo. Zarathustra consolava il funambolo morente, che si sentiva portato via dal diavolo, assicurandogli che non c’era né diavolo né inferno perché la morte è la fine di tutto e non andrebbe perciò minimamente temuta. (Qui naturalmente c’erano echi della Lettera a Menaceo dell’antico Epicuro, ben nota al filologo classico Nietzsche, ma che Jung non coglieva o verso cui non aveva interesse). Poi Zarathustra portava il cadavere a spalla fuori dalla città per seppellirlo, non senza essere prima irriso dai becchini e minacciato dall’uomo demoniaco che aveva fatto cadere il funambolo e che odiava anche lui. Tra i boschi, affamato, batteva a un ricovero dove un compassionevole di professione voleva far mangiare lui, ma anche il morto. Poi Zarathustra riprendeva la strada. Metteva il cadavere in un albero cavo e si addormentava. Al risveglio aveva una sorta di rivelazione, dicendo che non voleva più parlare all’uomo-massa, ma ai solitari che avessero abbandonato fede e valori tradizionali, celebrando con loro la festa della vita. Veniva raggiunto dai suoi animali: l’aquila in volo, al cui collo stava, in piena armonia con essa, il serpente.
Il sole è interpretato da Jung come coscienza sovrumana allo stato puro, in senso spirituale. Zarathustra è visto come immagine archetipica del Vecchio Saggio di Nietzsche. Quel che si è detto come rovesciamento dello Zarathustra antico persiano, alias di Cristo, si vede pure nei trent’anni che Zarathustra ha all’inizio. Sono gli anni di Cristo quando intraprende il suo percorso redentivo. I quarant’anni sono poi il mezzo del cammino della vita paradigmatica nel nostro tempo. Il punto chiave, rispetto a Zarathustra, è però la relazione di Nietzsche con lui. Zarathustra sarebbe un archetipo (o figurazione archetipica) del Vecchio Saggio di Nietzsche; ma il dramma di Nietzsche sarebbe stato la sua identificazione totale con lui: l’aver accolto puramente e semplicemente il proprio archetipo accettandone l’irruzione nella propria testa invece di considerarlo come “altro” da sé, seppure entro di sé, con cui confrontarsi come coscienza versus inconscio. Anche altri nella storia sono stati investiti da figure archetipiche, come Giacobbe che lottò per una notte con l’angelo o, potremmo dire noi, persino Maometto con l’arcangelo Gabriele; ma non s’identificarono con l’archetipo, mantenendo la distanza tra loro stessi e “lui”. Ma Nietzsche si sarebbe identificato con esso (“Zarathustra”) e perciò la sua coscienza ne sarebbe stata sempre più sconvolta (inghiottita). Infatti chi non riesce a controllare le figure paradigmatiche dell’inconscio ne diventa il burattino, ne è annientato, realizza la morte dell’anima, cioè impazzisce.
Nietzsche si sente Zarathustra. Era lui il trentenne sofferente che lasciava “la patria” e “il lago della sua patria” (Basilea, patria elettiva del suo spirito, in cui era stato un giovanissimo professore universitario), viaggiando sui monti in Engadina e sostando a lungo a Sils Maria (dove avrebbe avuto una sorta di rivelazione dell’eterno ritorno). La sua vita era troppo staccata dal mondo, troppo spirituale, troppo “in alto”, troppo d’anima. Avrebbe voluto tenere insieme gli opposti, gli istinti più alti e quelli più bassi, sempre rappresentati da animali: lì l’aquila, che è “del cielo” (spirito) e il serpente, che è ctonio, oscuro, di terra (materia). La discesa a valle equivarrebbe alla discesa nell’inconscio collettivo, verso l’autorealizzazione. Ma nell’Io pensava di avere una verità luminosa da portare. Nel suo “calarsi” portava in sé qualche tratto di paranoia.
L’incontro col Vecchio Saggio dei boschi sarebbe significativo. Non solo questi era un mistico, ma univa Dio e natura; cantava le lodi di Dio in pace con se stesso, alias con gli animali (istinti). Diceva che se Zarathustra voleva andare tra gli uomini avrebbe dovuto non dare loro nulla, ma prendere loro qualcosa e aiutarli a portarla, se proprio voleva soccorrerli: ossia che avrebbe dovuto condividerne la sorte (il che avrebbe fatto bene a loro, ma non necessariamente a lui). Ma Zarathustra non poteva ascoltare quella saggezza perché riteneva Dio “morto”, cioè si poneva come un negatore dell’humanitas tradizionale (in fondo dei suoi simili, pensava Jung). Già in tale volontà di negare Dio pretendendo di incorporarlo sarebbe psichicamente “inflazionistica”, tale da far travolgere l’uomo dall’archetipo. Jung ha certo ragione nel vedere nel Vegliardo l’archetipo del Vecchio Saggio, voce del Sé o prima radice di tutta la psiche in noi. Ma stranamente non rileva gli echi dell’ideale del santo di Nietzsche (ideale evolutosi dal Vangelo, ben interiorizzato da un filosofo figlio di pastore protestante, alla filosofia di Schopenhauer, il quale ultimo aveva visto in figure del genere una via di redenzione dalla cieca volontà di vita “sadomasochistica”).
Jung non approvava il disprezzo di Nietzsche per i suoi simili, così centrale nel discorso di Zarathustra, e si spingeva anzi, molto laicamente, sino a fare la difesa dell’”ultimo uomo”. Qui il discorso di Jung è abbastanza spiazzante. Vagliando le propensioni dell’”ultimo uomo” descritte da Zarathustra-Nietzsche, Jung le trovava sane e lodevoli, invece di vedervi qualcosa che trent’anni dopo questo seminario Marcuse avrebbe chiamato Uomo a una dimensione (1964, e Torino, Einaudi, 1967) caratteristico del neocapitalismo e del consumismo sfrenato americano-europeo.
La pretesa nietzscheana di indiare l’uomo, inducendolo a farsi Dio a se stesso, sarebbe malsana e materialistica, e porterebbe all’abisso. La sorte del funambolo sarebbe un’evidente premonizione di quella di Nietzsche. Il funambolo incarnerebbe anzi proprio Nietzsche nel suo pericoloso, ed anzi tragico, distacco dall’uomo “com’è” verso un uomo che non c’è mai stato. La ybris o “arroganza” dell’uomo sarebbe in agguato. Sarebbe un che di demoniaco. L’archetipo del demoniaco, l’Ombra oscura - oltre a tutto di un uomo già distaccatosi lungamente dagli altri - si sostituirebbe a quella del divino “in interiore homine” (o, psichicamente, del Sé), e farebbe “cadere”, e morire, “l’anima” del troppo spericolato camminatore sulla fune tirata tra gli opposti. Va pure detto che sull’ombra demoniaca che fa precipitare il funambolo Jung aveva fatto annotazioni molto interessanti, richiamando il nesso tra quest’essere “vestito di panni variopinti” e i diabolici Arlecchini di Picasso nel suo saggio Picasso (1932, in “Opere”, Bollati Boringhieri, 1985, vol. 10/1, pp. 405-412), qui non ripreso, ma da me molto trattato in un capitolo del mio romanzo-verità L’avventura di Jung (pp. 49-65). La volontà di Zarathustra di seppellire il cadavere del suo “compagno” personalmente, è vista come manifesta affinità tra l’archetipo “Zarathustra”, Nietzsche e l’alter ego funambolo.
Il nuovo allontanamento dalla città, col cadavere, non è apprezzato, perché sarebbe distacco pericoloso dagli uomini in carne ed ossa, verso uno sterile spiritualismo involontario, di cui il “soccorrevole” che vuol dar da mangiare anche al cadavere sarebbe simbolo. Anzi, quel soccorrevole sarebbe lo stesso Vecchio Saggio già incontrato nella discesa dalla montagna: il che pare a me, in termini interpretativi, forzato. Quanto alla ricorrente immagine teriomorfa dell’apparire - allo Zarathustra liberato - dei suoi due animali visti quasi come un tutt’uno, il riferimento andrebbe agli istinti (“animali”) opposti in Nietzsche: lo spirituale e il materiale ctonio, in fondo lo spiritualismo e il materialismo, che il filosofo avrebbe voluto conciliare in se stesso.
Segue un commento del decisivo capitolo dello “Zarathustra” Delle tre metamorfosi, in cui lo spirito dapprima è “cammello”, gravato dalla pesante gobba della tavola dei valori tradizionali (“tu devi”); poi “leone”, affermante l’”Io voglio” contro tali valori, che infrange - come il creatore deve sempre tornare a fare (e come pure Cristo avrebbe fatto col sabato e con il legalismo veterotestamentario anteriore) – le tavole dei valori tradizionali; e infine si farebbe fanciullo, “innocenza e oblio”, un “santo dir di sì” alla vita com’è, una “ruota che si muove da se stessa”. Jung vi vede giustamente una rappresentazione simbolica dell’individuazione, o realizzazione di sé (e del Sé). “ … questo tema - il cammello, il leone e il fanciullo - dice infatti Jung - è espressione del processo di individuazione, tramite il quale viene ucciso il drago universale. Dopodiché vengono annullate tutte le leggi generali e, per reperire un qualche orientamento, devi rivolgerti ai valori che possiedi interiormente. Devi trovare una guida nell’interiorità, e per far ciò hai bisogno dell’atteggiamento del fanciullo, per essere umile e capace di obbedienza, per non cadere nella presunzione di saperla più lunga, in modo da porti nella condizione di seguire fedelmente gli impulsi che provengono dall’interno. (…) Non solo, la ruota è, da tempi immemorabili, un simbolo del sole, ma il sole stesso è un simbolo: la ruota che si sposta nel cielo senza che nessuno la sospinga, la ruota che si muove da sé. Pertanto il sole è da sempre un simbolo di individuazione, un simbolo dell’uomo capace di autonomia, che è in grado di muoversi da sé senza essere sospinto da altro (pp. 292-293).” Qui indubbiamente c’era identità tra Jung e Nietzsche, anche se per Jung si trattava sempre di capire che cosa avesse fatto fallire in Nietzsche quel processo d’individuazione, che egli pure aveva drammaticamente e quasi tragicamente vissuto nel 1913 e negli anni successivi.
Quel che in Nietzsche, secondo Jung, sembra essere mancato, sino a condurlo a una follia annunciata (anche dalla mala sorte del funambolo, e in tanti passaggi), pare sia stato un elemento di controbilanciamento degli opposti (l’asse d’equilibrio saldamente in mano al funambolo, che il pagliaccio vestito di panni variopinti fece cadere). Su ciò Jung era molto attento, tanto da tendere sempre, anche nella cura dei nevrotici, a spingere a controbilanciare ogni unilateralità, sicché se uno tendeva troppo a chiudersi in se stesso in un atteggiamento tutto contemplativo, magari favorito da un temperamento introverso, egli lo spingeva ad una più intensa vita di relazione, magnificandogliela, sino a svalutare la vita ascetica, magari mistica e contemplativa; faceva l’inverso nel caso contrario, tanto che se uno l’avesse potuto vedere – notava – avrebbe potuto pensare un gran male di lui. Questa cura non solo per la sintesi, ma anche del mero compromesso tra opposti (per ben vivere), era mancata a Nietzsche: per ciò (o in quanto) sprezzatore della gente comune e del vivere comune, alla ricerca solo di altri “se stesso”, animato da un orientamento verticale invece che orizzontale, sordo a virtù di temperanza che per quanto prosaiche sono fondamentali specie per chi compia grandi imprese anche dell’anima. Così Nietzsche canzonava il Vecchio Saggio, che sarebbe sempre stato la stessa figura archetipica iniziale, anche nel capitolo Delle cattedre della virtù, in riferimento a un maestro del “sonno”. Di nuovo Jung, spiazzandoci, si metteva dalla parte del maestro antieroico del buon sonno.
Poi l’analisi di Jung si sposta sul capitolo Di coloro che vivono fuori dal mondo, concernente coloro che ritengono di aver fatto - o di fare - esperienza del divino, tra i quali Zarathustra-Nietzsche pone un se stesso anteriore, che però aveva tratti che collocavano già il divino al di là del bene e del male, vedendolo come dio ebbro e sofferente (Dioniso?), spettralmente vividi e tuttavia – dice “Zarathustra” - in realtà creati da lui stesso in quanto uomo. Qui Jung mostrava maggiore assenso, pur interpretando in senso meno soggettivo il “fare dio” da parte dell’uomo. Infatti Jung era profondamente convinto - in base a una sua famosa visione si potrebbe dire dall’adolescenza, in cui aveva visto Dio che defecava sul tetto della cattedrale cittadina - che Dio non potesse essere tutto buono (come non è “solo buono” quel che sappiamo del divino che emerge dalla nostra prima radice mentale, cioè l’archetipo degli archetipi, il Sé). Su ciò polemizzava con il noto teologo protestante Gogarten, suo contemporaneo, per il quale Dio avrebbe potuto essere solo buono, e con Karl Barth, con cui pure su un altro punto assentirà, il quale riteneva che nella fede l’uomo facesse davvero esperienza dell’Assoluto: laddove Jung ricordava che noi pensiamo tutto, anche Dio, a misura della nostra dimensione psichica, che in sé non può “comprendere” l’Assoluto. Ma il punto centrale qui era la nozione dell’immanenza dell’imago Dei nell’inconscio, come un che di oggettivo (altrove parlerà di un “principio trascendente” immanente in noi), che ci vive, risultando - come essere-psiche al di là della coscienza, alias come un che di trascendente-trascendentale - assolutamente irriducibile al rimosso “freudiano” dalla coscienza. “Chiamarlo ‘l’inconscio’ - diceva - è chiaramente una façon de parler. Potete chiamarlo ‘il continente oscuro’, ‘il paradiso’, ‘l’inferno’ o come vi pare: è semplicemente qualcosa che proviene dall’ignoto. Quando riconoscerete l’ignoto come un’entità dotata di esistenza reale, avrete fatto un’esperienza trans-soggettiva (p. 317). “ La capacità non già di fare, ma di ammettere, tale esperienza, chiudeva gli occhi a Zarathustra-Nietzsche facendogli credere che queste esperienze-limite, che pure erano state così reali nella genesi stessa del suo “Zarathustra”, fossero mere proiezioni o derivati dell’Io. In ciò Nietzsche, secondo Jung, era il contemporaneo di Marx e del materialismo ottocentesco, il quale ultimo aveva coinvolto Nietzsche stesso. Ciò per Jung era occasione per fare una ben significativa ammissione, gettando un po’ di luce su quanto, per i posteri, aveva raccontato nel Liber novus. Libro rosso: “Se un uomo [come Zarathustra-Nietzsche] dà per scontato che non vi sia alcuna differenza tra i suoi umori e lui stesso, allora è preda di un’inflazione da parte dell’Anima, e fa di sé uno sciocco. Se però è in grado di sottoporre a critica i propri stati d’animo, si domanderà: ‘I miei sentimenti sono davvero questi?’. Assolutamente no! Il suo reale sentimento viene addirittura soppresso da questa sensazione insensata, che gli è davvero estranea. E se sarà capace di trasformare tutto questo in un’esperienza reale, allora diventerà consapevole di una realtà trans-soggettiva. È così che sono giunto alla mia concezione dell’Anima. Ho sottoposto le mie emozioni al vaglio della critica e sono pervenuto alla conclusione che non erano parte di me. Erano semplicemente state costruite per me, e così mi domandai: ‘Chi diavolo può produrre in me queste cose?’” (pp. 318-319). Non aveva dubbi sul carattere reale, e trans-soggettivo, dei cosiddetti “fenomeni occulti” (p. 321), Conclusione: “È dunque d’importanza assoluta, concretamente, imparare a capire che nella nostra mente esistono cose che non sono create da noi (p. 335).”
Per tali ragioni l’idea di Nietzsche che l’uomo crei Dio - nozione legata all’epoca del darwinismo e materialismo (p. 351) - è detta falsa, perché il divino è nella nostra mente “a priori” ed è sperimentato come tale. Solo una forzatura d’intelletto posteriore e estranea a tale esperienza potrebbe spingerci a dire il contrario, falsificando il nostro vissuto con astrazioni non necessarie. Questo falso atteggiamento farebbe il paio con lo stesso materialismo che aveva tanto a lungo indotto a credere che le isteriche fossero malate immaginarie: in quanto esso non poteva ammettere l’esistenza di malattie puramente psicogene, come le nevrosi (p. 373). In base a tali premesse false Nietzsche dall’idea che l’uomo sia l’inventore di Dio faceva poi derivare il concetto di uomo-dio (il divino come costruzione umana: mentre esso è il quid inconscio “reale” in noi, e in specie è il Sé, da cui l’Io e altre cose emergono). Se Nietzsche avesse accentuato il lato pessimistico nella considerazione dell’uomo – che come ex schopenhaueriano gli era ben familiare - avrebbe potuto produrre non l’idea o mito del superuomo ma, altrettanto legittimamente, del sub-uomo, cui nel testo accenna l’immagine della IV parte dello “Zarathustra”, nel capitolo sull’Uomo più brutto, l’assassino di Dio (p. 359), ma in fondo anche l’immagine iniziale degli “ultimi uomini”. D’altra parte Jung dice giustificato l’errore di Nietzsche (e dei distruttori di Dio) a causa dell’infantilismo del modo di vedere il divino e la fede proprio della “gerarchia ecclesiastica” (p. 360), che produrrebbe una reazione d’incredulità e rivolta che sarebbe ovvia.
A quel punto l’attenzione di Jung trascorreva in direzione di una visione tanto post-spiritualistica che post-materialistica, mirando a congiungere quel che gli uni e gli altri (spiritualisti e materialisti) avevano diviso: psiche e corpo, anima e terra, verso una visione psicosomatica dell’uomo. In tal caso concentrava l’attenzione sul capitolo dello “Zarathustra” Degli spregiatori del corpo, che da un lato attesterebbe il materialismo angusto di cui si è detto, per cui il corpo è tutto, ma dall’altro esprimerebbe pure una visione fecondamente psichica della stessa corporeità (p, 387): una corporeità che opera come se pensasse (p. 395), perché noi siamo agiti non già dall’Io, ma dal Sé (p. 396), che l’Io stesso presuppone. Quando il centro che è del e nel corpo non sia più filtrato dalla nostra coscienza (in fondo dall’Io), i diversi impulsi psichici che sono in noi, rimanendo privi del loro centro direttivo, diventano tanti Io fittizi, creando nuclei pseudoreali, come accadrebbe negli schizofrenici (p. 388). Ma la perdita dell’Io sarebbe connessa allo stare come se il Sé non esistesse. Tutto ciò Nietzsche non l’avrebbe compreso a causa del materialismo epocale, ma vi si sarebbe comunque approssimato in massimo grado. Lo spirito del tempo, che aveva dunque segnato lo stesso Nietzsche con il suo unilateralismo, sarebbe quello stesso del nazismo. Su di esso Jung diceva cose interessanti, sia connettendo approcci carismatici e paganeggianti ritenuti o uguali (nazifascismo e bolscevismo) o confrontabili per l’aspetto ducistico (Roosevelt), sia e soprattutto - perché il resto era spiegato meglio nel volume che raccoglie le sue interviste (Jung parla. Interviste e incontri, a cura di W. McGuire e R. F. C. Hull, 1972, ma Milano, Adelphi, 1995) – approfondendo la simbologia nazista. A quest’ultimo proposito, infatti, sia pure dentro una cornice astrologica a dir poco datata e opinabile, Jung nel “seminario” in questione ci parla della svastica, simbolo del sole, propria dei nazisti: svastica che però nel loro caso non è gialla (il colore del divino dell’arte sacra), come solitamente era in antico, ma “nera”, e non rivolta a destra come negli antichi templiindiani, ma a sinistra, essendo inconsciamente vista da un punto di vista demoniaco e anticristiano. Attraverso questi discutibili “viottoli” Jung giungeva a quello che a me è parso il meglio di tutto il suo libro, il discorso del 20 febbraio 1935, che in effetti sarebbe tutto da commentare parola per parola, pur concernendo poco Nietzsche (pp. 415-433). Nietzsche, proprio nel capitolo Degli sprezzatori del corpo, aveva colto chiaramente che l’Io è solo uno strumento del Sé (pp. 416-418), e che questo Sé era assimilabile al concetto di Atman della filosofia indiana e al Sé del Vecchio Saggio (pp. 419-422). Aveva visto corpo e psiche come un tutt’uno nel Sé (pp. 423-424). Su ciò Jung lambiva con acutezza ambiti anche filosofici, ad esempio notando: “Be’, dal punto di vista della filosofia platonica, il corpo è costituito a partire dall’éidos, l’immagine eterna del corpo umano. Questo si spiegherebbe dunque esattamente come si spiega la formazione di un cristallo, per mezzo di una sorta di sistema assiale astratto e preesistente sul quale viene immessa la materia. In cristallografia si ipotizza anche l’esistenza di una specie di struttura spaziale, la cosiddetta soluzione madre, che ha raggiunto il grado più elevato di saturazione in cui ha inizio la cristallizzazione (…). In questo senso si potrebbe dire che il corpo sottile diriga e costruisca il corpo fisico. Un tal punto di vista, ovviamente, è in certo modo alquanto in contrasto con le idee a tutt’oggi valide in campo fisiologico, ma devo dire che, da un punto di vista scientifico, vi è scarsità di prove sia da un versante che dall’altro (p. 479).” Jung enuncia una visione sua propria in cui non solo corpo e psiche sono un tutt’uno, una realtà psicosomatica, ma entrambi emergono dal Sé. “ ... il dato di fatto è che possediamo un corpo creato dal Sé, perciò dobbiamo supporre che il Sé desideri realmente che noi viviamo nel corpo, che viviamo un tale esperimento, che viviamo la nostra vita. E non dovrebbe essere l’Io a decidere se dobbiamo vivere questo o quello … (p. 430).” Su ciò relativizzava “tabù”, “leggi”, “chiesa”, “Stato”, “polizia”, “moralità”: tutti da sussumere al nostro proprio Sé, ossia a un’istanza di autorealizzazione profonda (p. 430). Ciò ci può utilmente rinviare ad elaborazioni ulteriori di junghiani come il James Hillman de Il codice dell’anima. Carattere, vocazione, destino (1996), Adelphi, 1997. Il Sé ci vivrebbe, a scapito dei desideri dell’Io. Gli individui stessi sarebbero esponenti del Sé, che ne determinerebbe persino la morte (pp. 431-432).
Nietzsche avrebbe chiuso tutto ciò, che pure coglieva esplicitamente nel capitolo in oggetto, dentro una prospettiva di corporeità pura; ma questo sarebbe stato in contrasto con la sovranità del Sé al di là dell’Io posta da lui stesso alla base dei processi vitali. “Se invece intendete il Sé nel senso da me proposto, è chiaro che le cose stanno in maniera un po’ diversa. Io non identifico il Sé con il corpo. Con ciò il corpo è soltanto uno degli esperimenti attraverso cui si rende visibile il Sé, e in tal caso si potrà affermare: ‘Se questo non funziona, verrà gettato via, è privo di valore’.(p. 433).” Con ciò Jung non sottovaluta mai il fenomeno della coscienza di sé, che per lui è anzi la sola luce nella grande notte della vita inconscia, o emergente dall’inconscio; solo, l’Io non dovrebbe pensare di potersi autonomizzare da tutta la vitalità da cui emerge, senza comprendere che sarebbe come l’optare di uno per la luce della lampadina invece che solare (p. 438). Invece il cercare di sincronizzarsi con il ritmo stesso della vita, o del Tao, o del Sé, sarebbe la strada dell’individuazione. Trovarsi in autocontraddizione sarebbe sempre indizio di tradimento di sé oltre che di infelicità: “Successivamente, nel corso della vita, dovrai scoprire se la strada che hai scelto ha il sostegno dell’inconscio oppure no, poiché assai spesso ti capita di sperimentare come, persino quando vivi seguendo le tue migliori convinzioni, ti ritrovi ostacolato dall’inconscio, o comunque ne subisci l’interferenza. Nel qual caso saprai che la tua linea non è esattamente quella seguita dal Sé, e dovrai correggerla in maniera tale che il tuo percorso si conformi a quello del Sé. Questo conformarsi al Sé costituisce un’esperienza psicologica talmente importante, da essere designata con un nome assolutamente significativo. Quale potrebbe essere?”. Qualcuno dei partecipanti al “seminario” dice “Tao”, qualcuno “individuazione”,e Jung concorda, ma nota che tali parole sono “sinonimi” (p. 438).
Jung coglie questa nostalgia del Sé, al di là di tutti gli “ismi” del tempo che vorrebbero chiuderci, anche in un passaggio centrale del capitolo dello Zarathustra Delle gioie e delle passioni, in cui la nostalgia dell’”inesprimibile e senza nome” è intesa come attrazione verso il Sé, la cui ricerca, come punto alfa e omega di noi stessi e forse della vita, per quanto drammatica varrebbe sempre la pena di essere tentata. Tramite l’esame di neppure un decimo dello Zarathustra Jung giungeva a dimostrare che proprio a quest’individuazione mirava sempre Nietzsche, anche se il materialismo epocale, l’inflazione dell’Io e l’incapacità conseguente di gestire le proprie irruzioni archetipiche l’avrebbero portato ad una fatale, e ben preannunciata, follia. Invece la conclusione individuativa, in una chiave positiva, si configurerebbe nel modo seguente: “Giungi a fare esperienza di te stesso solo affrontando i tormenti più grandi; con ciò riesci a credere di essere un’unità. Prima puoi immaginare di essere chiunque, il papa o Mussolini - non sei necessariamente te stesso. Dopo, una volta che sei passato attraverso questa straordinaria esperienza del Sé, le illusioni scompaiono. Sei esattamente chi sei. È questo ciò che Nietzsche vuol dire. (…) le decisioni fondamentali del corpo e della mente, o di tutto ciò che vive al loro interno, chiaramente non vengono prese soltanto dal versante somatico della nostra esistenza; vi sono anche deliberazioni provenienti dall’altro versante, e la decisione ultima è presa dal Sé. Il Sé comprende sia l’inconscio somatico che l’inconscio spirituale, non essendo né l’uno né l’altro, ma trovandosi nel mezzo della psiche (p. 478).” A me non sembra una lezione da poco.
(franco.livorsi@alice.it)