Ci fu un tempo, durato quotidianamente dal 1962 al 1985, in
cui facevo politica in Alessandria e conoscevo tutti, e tutto quel che avesse
un po’ d’importanza in questa città. Nel decennio 1975/1985 fui anche prima
assessore alla cultura e, nel secondo quinquennio del mio mandato, capogruppo
consiliare del PCI, gruppo che contava allora diciannove consiglieri su
cinquanta. Poi, optando definitivamente per la mia professione di professore
universitario, mi trasferii prima a Torino e poi a Milano, dove diventai
professore ordinario di “Storia delle dottrine politiche”, tornando nella
nostra vecchia “città della paglia” solo quindici anni fa (dal 2010 come professore ordinario in pensione).
Nel frattempo avevo smesso di fare politica attiva, in parte avendo da decenni
maturato l’atteggiamento di quel tale genovese che diceva “Ghemu già da’”; in parte perché avevo maturato fortissimi interessi
psicologici, religiosi e persino letterari; e in parte perché nella sinistra
che non voleva a nessun costo diventare socialista e rosso-verde come in
Europa, ma essere “non si sa che cosa”, non mi riconoscevo più. Ciononostante
ho seguitato ad amare il confronto, specie su temi politici e culturali di
carattere nazionale e internazionale, scrivendo solo su “Città Futura on-line”
- oltre a tutto il resto - in quindici anni quasi 400 articoli. Perciò ho
osservato solo da lontano, magari un po’ sbagliando, le vicende, quasi mai
esaltanti, del “Palazzo rosso”: l’operare dei soliti noti, o ignoti. Il tutto
mi dava e mi dà malinconia. Una città che era stata decisiva nel Risorgimento italiano,
e che nei primi sessant’anni del Novecento (direi sino all’occupazione operaia
della Borsalino del 1961, tanto per stabilire una possibile data simbolica
“finale”) e forse sino agli anni Settanta del XX secolo era parsa correre sulla
linea dello sviluppo, o economico o dei servizi, ha seguitato a decrescere
serenamente, come quei vecchietti, cui mi sento prossimo, i quali, pur avendo
acciacchi non hanno mai avuto niente di veramente grave (toccandosi i
“cabagigi”), ma deperiscono ugualmente, al pari delle candele sempre accese che
si consumino e non siano sostituite. Talora la città, come Roma nelle fantasie
del pirandelliano “Fu Mattia Pascal”,
mi sembra “un portacenere”. Sviluppo sembra realizzarne poco (anche se ne sussiste
quel tanto che basta a tenere su la bandiera, magari gloriandosi del proprio
bel “strapaese”, sino a festeggiare un immaginario compleanno), ma il ceto
politico sembra sempre riprodurre gli stessi vizi. Può darsi che questo sia il
problema della città.
Ciò posto, vorrei
ora provare, in spirito da perfetto e volontario “inattuale”, a mettere a fuoco
taluni problemi alessandrini, in due articoli consecutivi distanziati di una
settimana l’uno dall’altro: uno su un recente, ma emblematico, fatto di
costume, che però purtroppo potrebbe essere un indizio su “chi siamo e dove
andiamo” (o su “chi essi sono e dove vanno”) e uno sull’Università in Alessandria
e sulla Cittadella (tra cui anche per me va posto un forte nesso). Può darsi
che - fuori da tutti i giochi come ormai sono serenamente da tanti anni- sbagli qualcosa, ma - come diceva Karol
Woitila alla sua elezione a papa - “se sbaglio mi corriggerete”.
Premetto che nel mio “ottimismo criminale” -
come l’avrebbe detto Schopenhauer - speravo che il nuovo sindaco di
centrodestra, il nobile leghista Gianfranco Cuttica di Revigliasco, che è un
intellettuale e ha ambizione di lasciare un’impronta proprio in tale ambito, muovendosi
in costruttivo dialogo con quelli di prima (e in specie con l’ex sindaco del PD,
la brava Rita Rossa), avrebbe potuto far bene almeno sul terreno della politica
culturale. E un poco ci spero anche ora, perché sono per “il bene” da qualunque
parte arrivi; se uno lo fa, lo si aiuti a farlo perché farà bene anche alla
parte che l’aiuta, con “opposizione costruttiva”, qualificandone l’azione. Ma
se il buon giorno si vede dal mattino, c’è poco da stare allegri.
Il “no”
all’intitolazione del Liceo Classico a Umberto Eco ha confermato la profonda
insensibilità degli alessandrini verso le proprie glorie: quella tendenza a
rimpicciolire tutto e a vedere tutto in piccolo che ha fatto un male enorme alla
Città, che sembra spesso incapace di pensare e soprattutto di fare le cose un
po’ in grande. C’è un buon spirito di accoglienza, ma c’è troppa meschinità,
troppo spirito di bottega e troppo poca generosità e disposizione
all’innovazione. Il suo spirito è tutto nel suo motto cittadino,anche preso
nella polivalenza dei suoi significati, compresi quelli “buoni”: “Levat Alexandria stratos, deprimit elatos”.
Il motto si può tradurre, un po’ liberamente: “Alessandra innalza coloro che
sono in basso e abbassa quelli che sono in alto”. Nel motto si richiama un’apertura
verso gli umiliati e offesi, che c’è. E si richiama pure uno spirito
rivoluzionario che mi piace, forse da tempi della Lega “vera” (e dintorni), quella
del tempo dei liberi comuni del Medioevo: perché innalzare i subordinati e
abbassare i potenti di turno – quelli che un vecchio giornale umoristico,
“Travaso”, chiamava “i cavezzatori”, quelli che mettono la cavezza agli altri, e
che Totò chiamava “i caporali” - è per me importantissimo; mi sa di potere del
proletariato. Ma c’è pure la fotografia di un’attitudine meschina a svalutare
chiunque abbia lasciato un segno nella storia (gli “elati”). Non è sempre così,
ma ci sono fatti impressionanti che vanno in tale direzione. Ne citerò solo
due: uno relativo a Urbano Rattazzi e l’altro relativo a Umberto Eco. Per
onestà dico subito che ce ne sono altri che possono smentirmi, ma questi due
sono macroscopici.
Alessandria ha
avuto due sole glorie di quelle che, piaccia o non piaccia a tanti
“lillipuziani”, o anche ai critici critici, passano alla Storia. La prima “gloria”
si chiamava Urbano Rattazzi e la seconda Umberto Eco.
Urbano Rattazzi, nato
ad Alessandria e avvocato casalese oltre che alessandrino, sulla scena nazionale
dal 1848, è stato figura essenziale del nostro Risorgimento. Fu uno statista su
cui quasi trent’anni fa pubblicai il primo saggio biografico un poco compiuto,
in una storia del Parlamento italiano edita dalla CEI. Lui, il Rattazzi, aveva
il copyright del centrosinistra nella storia d’Italia (e anche questo mettere
insieme moderatismo conservatore e riformismo dall’alto è ben significativo in
riferimento all’”antropologia” alessandrina). Nel 1851 questa grande alleanza si
chiamava “centrosinistro” e univa in “Connubio” l’ala “cosiddetta” democratica
erede dell’Italia napoleonica (prima giacobina italiana, poi bonapartista
italiana e infine risorgimentale) e liberalismo conservatore, Rattazzi e
Cavour. Anzi Cavour arrivò al potere grazie a quel “connubio” tra
centrosinistro e centrodestro “inventato” dall’alessandrino. Rattazzi, come
ministro e a tratti capo di governo di primo piano si diede anche molto da fare
per questa città. E come statista fu quello che con sano centralismo riformista
- che è l’opposto del dissennato secessionismo e autonomismo spinto riemersi in
questi anni, e che talora fanno capolino nella presente decadenza dell’Italia - estese tutta la legislazione dello Stato
sabaudo risorgimentale all’Italia unita, costringendola a correre al passo
relativamente “moderno”, almeno giuridicamente, del Piemonte: anche con alti “lai”
delle popolazioni “modernizzate” a forza, lamenti che però erano spesso - magari
tra molte ingiustizie, e sangue sparso di poveri innocenti - le sane grida
della partoriente. Come politico di lungo corso, fece pure taluni storici
errori, d’intesa con il re Vittorio Emanuele II e col suo eroe Garibaldi, per
annettere Roma. Ma dovette fermarsi con onta per lui e per il governo, nel 1862
e nel 1867 (Aspromonte e Mentana), a causa delle minacce militari d’immediato intervento
“contro” da parte di Napoleone III, che sin dal 1849 proteggeva il potere
temporale del papa perché la sua dittatura o Impero aveva le sue basi di massa
in primo luogo tra i cattolici d’oltralpe (sicché solo quando Bismarck travolse
militarmente la Francia, l’Italia poté annettersi Roma, con tempestivo e giusto
intervento, il 20 settembre 1870). Garibaldi a Aspromonte “fu ferito, fu ferito ad una gamba”, ma
Rattazzi fu “rimosso”, in senso freudiano, non solo dagli italiani, ma dagli
alessandrini. Come diceva Antonio nel “Giulio
Cesare” di Shakespeare “Il male commesso dagli uomini vive spesso anche dopo
la loro morte, il bene viene spesso sepolto con le loro ossa”. Rattazzi, così,
è stato a lungo dimenticato. Di lui si è infine ricordato un importante storico
del pensiero politico, che è alessandrino per formazione e per brillanti studi “al
Plana” (sebbene nato in Sicilia, a Noto), docente ordinario dell’Ateneo in
questa città, Corrado Malandrino, che a Rattazzi ha dedicato molti convegni e
studi, e che forse ci darà finalmente la biografia politica rigorosa che
attende di essere fatta dalla morte di quel famoso alessandrino, ossia dal 1873.
Ma questo - dirà il paziente, o impaziente, lettore, ora che cosa c’entra? – C’entra
perché gli alessandrini hanno pure lungamente cancellato Rattazzi dalla memoria
collettiva. Prima ci hanno pensato i fascisti, che con la scusa del bronzo per
fare cannoni, nel corso della seconda guerra mondiale hanno fuso il monumento
che stava nella piazza che è ora Piazza della Libertà (in cui tale monumento è
infine risorto, in anni relativamente recenti, spero in modo conforme
all’originale).
Ora tocca a Eco.
Mica all’ultimo venuto. Nel 1971 Eco ha fondato in Italia il primo tra parecchi
DAMS (Discipline delle Arti Musica Spettacolo) presso l’Università di Bologna. Ha
fondato una disciplina di studio, la semiotica. Ha scritto importanti romanzi,
come “Il nome della rosa” (Bompiani,
1980). Può e possono piacere di più o di meno, ma solo chi è sprovveduto può -
per usare una famosa frase citata da Marx contro i detrattori di Hegel -
parlarne come di “un cane morto”. Come si fa a essere avari di riconoscimento
con un concittadino la cui opera principale è stata tradotta praticamente in
tutte le lingue del mondo, come non è accaduto - sia pure purtroppo - neanche
ai Promessi sposi di Alessandro
Manzoni? Bisogna proprio essere caduti dal seggiolone da piccoli per agire così.
L’idea che si possa riparare dedicandogli una chiesetta sconsacrata, per quanto
ricca di qualche arcaico affresco alto medievale (come pensa di fare “un
giorno” l’attuale sindaco), è proprio risibile.
Su ciò c’erano due
strade. La prima, più ovvia e razionale, naturalmente è stata subito scartata dagli
“addetti” o pretesi addetti ai lavori. Consisteva nel far diventare il Liceo
Plana “Liceo Umberto Eco”. Tanto più che il corpo docente, col preside in
testa, concorda. Lo scrittore si è formato lì, ha bazzicato per anni in quella
piazza, non si è mai dimenticato di Alessandria (ha pure fatto un romanzo
fantastico su Baudolino), e se non erro ha pure inaugurato il monumento al
mitico contadino furbacchione mandrogno Gagliaudo, monumento poi spostato dalle
parti del Duomo. Eco è stato nostro cittadino onorario. E’ venuto tante volte
qui. Lo feci venire anch’io quando ero assessore alla cultura, per due volte, e
lo portammo pure al Bar Pierino del Cristo, dove con assoluta convivialità –
dopo aver imbracciato la chitarra data subito a “Umberto” da Pierino – si era
messo a cantare suoi stornelli, che per la verità erano un po’ blasfemi, che
facevano il verso al Vangelo. Ma quando il suo amico Delmo Maestri gli sussurrò
che era meglio lasciasse stare, smise all’istante. E’ ancora venuto qui a
commemorare al funerale Delmo Maestri, quando già sapeva che non tanto dopo
sarebbe toccata a lui.
Quanto a Plana, è stato
uno scienziato ormai del tutto ignoto, vissuto secoli fa. E’ stato onorato
abbastanza. Siccome inventò un calendario meccanico, se si vuole gli si potrà
intestare un Liceo scientifico o un Istituto Tecnico. L’idea di legare la
gloria del Classico a un nome (“ho fatto il Plana”), è retorica e stravagante,
quasi paesana. Tanto più che qui c’è un solo Classico, per cui se uno dice che
ha fatto il Classico di Alessandria non ci si può sbagliare. Tuttavia c’era, e
anzi c’è, pure un’altra soluzione facile facile e altrettanto degna, affacciata
dall’ex sindaco Mara Scagni e ripresa pure dall’ex sindaco e sindaco uscente
Rita Rossa. Si sarebbe potuto, e si potrebbe, chiamare il nuovo ponte “Ponte
Francesca Calvo”, alla quale va effettivamente il merito di averlo fatto
progettare non dai soliti amici degli amici - come altri avrebbero fatto perché
una mano lava l’altra - ma da un architetto di fama mondiale, come al tempo
degli statisti veri; e si sarebbe potuto, e si potrebbe, dedicare la Biblioteca
Civica a Umberto Eco. Così si sarebbe corretta, e correggerebbe, una brutta
scelta dell’anteriore centrodestra con un’ottima scelta. La nuova bellissima
Biblioteca, che però attende orari prolungati e personale ulteriore che li
renda possibili, e cura degli ascensori e scale mobili (spesso fermi e da
riparare), è sorta sul sedime della Scuola medico-pedagogica Bobbio. Quel
Bobbio era il nonno di Norberto Bobbio, la cui famiglia aveva casa vicino alla
Piazzetta della Lega. Sarebbe stato giusto dedicare a Norberto Bobbio la Civica
(e non solo una striminzita saletta per incontri a pianterreno). Non lo si è
fatto. Amen. Ma ora si dedichi tale Biblioteca a Umberto Eco. In fondo lo
stesso “Nome della rosa” ha molto a
che fare con una biblioteca, in cui era nascosto un libro di Aristotele che
insegnava all’umanità l’umorismo: l’arte del ridere, che l’ironico alessandrino
Eco amava in sommo grado. O gli dedicate il Classico o gli dedicate la
Biblioteca. Anche il Teatro non andrebbe male, per il fondatore del DAMS in
Italia. Ma ora non mettetevi a fare il vostro solito girotondo all’infinito,
discutendo per anni e anni una soluzione, dimenticandovene dopo pochi giorni e per
anni, e poi svegliandovi all’improvviso sotto il pero senza aver nulla deciso, arrivando a onorare degnamente lo
scrittore italiano più famoso al mondo che ci sia stato negli ultimi cento anni
dopo Canicattì. La faccenda non è rilevantissima, ma dice molto sul lato
d’ombra della nostra città. Caro Cuttica di Revigliasco, ripara subito e al
massimo livello che ti sia possibile, perché in caso diverso i tuoi propositi
da riformatore culturale mostreranno subito che hai voluto o vorresti fare un
salto, ma partendo con piede zoppo.
(franco.livorsi@alice.it)