Due dati balzano in piena luce a proposito
delle primarie del PD del 30 aprile
2017. Il primo è che hanno votato 1.800.000 persone (superando ogni previsione
della vigilia). Il secondo è che Renzi ha stravinto (mentre avrebbe potuto
vincere di misura). Quelli che hanno sempre bisogno di un Nemico da combattere
negano persino queste cose assolutamente semplici e chiare. Si trova sempre,
frugando bene, qualche buon argomento per negare l’evidenza, stringendo forte
la propria coperta di sicurezza, ed esentando se stessi e la propria parte da
qualunque confronto: in primo luogo con la volontà degli elettori, che in
democrazia misura quantomeno il gradimento delle proposte politiche; in secondo
luogo tra partito e partito; e infine tra leader e leader. Così si può restare
fermi, al caldo, vicino alla stufa, o domani sotto l’ombrellone, grattandosi la
pancia senza combinare un cavolo di niente. Ora, infatti, questi contraddittori
“irriducibili” sottolineano che tra le primarie del 2013 vinte da Renzi contro
Bersani e quelle del 30 aprile ultimo scorso c’è stato uno scarto, al ribasso,
di quasi un milione di voti. In realtà c’è stata una discesa vistosa di
partecipanti in tutte le primarie del PD, anche perché le prime erano state di
coalizione (4-311.149 nel 2005, con Prodi; 3.554.169 nel 2007 con Veltroni;
3.102. 709 nel 2009, con Bersani;
3.110.210 nel 2012, con Bersani; 2.802.382 nel 2012, con Bersani: 2-814.881 nel
dicembre 2013 con Renzi e oltre 1.800.000 il 30 aprile 2017, con Renzi). Oggi
l’antipolitica dilaga nel mondo e la lunga crisi economica alimenta la
sfiducia: non siamo sulla luna. A me, comunque, sembra indubbio che un leader
che dopo aver perso 60 a 40 il referendum del 4 dicembre 2016 - subendo una sconfitta di portata epocale che
l’ha indotto a dimettersi come Presidente del Consiglio e poi come Segretario
di Partito - è eletto - dal 70% di quelli che sono andati a votare alle primarie
del PD Segretario e candidato premier, non è proprio un uomo finito. E’ certo
stato anche un po’ aiutato dall’uscita degli scissionisti bersaniani e
dalemiani, di cui si può solo dire, col poeta: “Chi è colpa del suo mal, pianga
se stesso”.
C’è
molta faziosità in giro. Altrimenti non dovrebbe essere difficile riconoscere
che con tutti i loro difetti - per cui non possono essere dette primarie di
tipo istituzionale come quelle americane, ma solo una grande consultazione di
massa da parte di un importante Partito - le primarie appena terminate
dimostrano quantomeno che una forza capace di mobilitare masse significative in
Italia c’è ancora e che si chiama PD. Si dovrebbe riconoscere che NESSUN altro
partito in Italia può fare nulla di simile. E’ vero che in Francia due partiti
di sistema dal 1958, i gollisti “repubblicani” e i socialisti, pur avendo fatto
primarie per scegliere il “Capo” sono stati spazzati via dalla storia. Ma
questo dimostra che se i partiti dominanti di un sistema politico sono in coma,
neppure le consultazioni di massa potranno salvarli. Accadde con i partiti
dominanti della prima Repubblica in Italia nel 1994, e accade ora in Francia
con i partiti là dominanti dal 1958.
Il
dato di queste primarie è stato significativo anche nella provincia di Alessandria,
con i suo 44 seggi. Qui il dato di partecipazione è solo un po’ inferiore a
quello nazionale, ma non tanto. Infatti a livello nazionale, mettendo a
confronto i 2.814.881 di voti alle primarie del PD del dicembre 2013 con gli
1.800.000 voti del 30 aprile 2017, risulta che ha votato il 71% rispetto al 100
della volta prima; per contro assumendo la cifra di 17.000 votanti alle
primarie del PD della provincia di Alessandria del dicembre 2013 e confrontandola
con quella dei 9.733 del 30 aprile 2017, risulta che qui ha votato il 57%.
Due
osservazioni politiche possono completare il quadro italiano.
Ormai
chi non vuole mettere la testa sotto la sabbia come gli struzzi può vedere che In
Italia la partita “vera” delle elezioni politiche, e successiva, sarà tra
Matteo Renzi e Beppe Grillo, ossia fra PD e M5S. Non ci sarà in campo nessun Jean-Luc
Mélenchon. Inoltre il PD si conferma di gran lunga come il partito italiano in
miglior salute o, se si preferisce, in salute meno peggiore di tutti gli altri.
In Francia Macron, ex ministro economico del governo socialista, è risultato il
solo possibile competitore elettorale nei confronti della nuova destra
nazionalista e populista di Marine Le Pen; egli si è ispirato al modello di Renzi,
e Renzi l’ha pure sostenuto in tutte le ultime direzioni del suo partito. Del
resto i due hanno fatto una scoperta che tanti anni fa Lucio Libertini avrebbe
detto la “del cavallo”: che per vincere la sinistra ha bisogno di un buon
apporto del centro, oppure che un centro che guardi a sinistra ha bisogno di un
buon apporto della sinistra. Togliatti diceva che la classe operaia ha bisogno
dell’apporto dei ceti medi progressivi, che per lui sul piano politico erano da
identificare con una parte cospicua della DC; Nenni perciò guardava a Moro e
così via. L’Italia è stata sempre un buon laboratorio che anticipa quel che
ribollisce a livello europeo, nel bene e nel male, da Mussolini a Gramsci, e
oltre. Qui - preso atto della grande crisi dei partiti tradizionali e, se si
vuole, della connessa fatale “americanizzazione”
- dieci anni fa Veltroni ha voluto che nascesse una formazione politica, che a
me - a torto - a caldo era parsa assurda, unendo sinistra e centro in un
tutt’uno, ossia di centrosinistra senza trattino: il Partito Democratico. Purtroppo
mesi fa una parte della sinistra, ostile al centro, se n’è andata dal PD,
rafforzando ovviamente il centro (per fortuna non troppo), ripetendo
all’infinito lo stesso errore d’altri tempi: quello di dividere sinistra
riformatrice (o “rivoluzionaria”) e sinistra ultrariformista (O solo
“democratica”), rovinando il socialismo democratico o danneggiandolo molto, e,
in periodi storici “calamitosi”, facendo il gioco stesso della destra estrema. La
storia comunque oggi è chiara, se uno abbia il coraggio di guardarla nelle “palle
degli occhi” senza giocare con le favolette per dormire bene come i bambini.
Essa ormai ci dice – anzi, ci grida dai tetti, ci piaccia o ci spiaccia (a me
ad esempio spiace persino adesso) - che la sinistra che vince è o una sinistra
che incorpora il centro o un centro che incorpora la sinistra, quale sia tra i
due che realizzano la coniunctio
quello che sta sopra o sotto, che pure conta “assai”. La storia ce lo dice
dall’Inghilterra di Blair all’America di Clinton e Obama e oggi alla Francia di
Macron, e ieri-domani al centrosinistra rappresentato da Renzi. Quello che si
vede chiaramente è che l’altra sinistra può anche prendere il 20% come Mélenchon in Francia (anche se in Italia
mettendo insieme tre pezzi diversi, e che neppure si uniscono, non arriva al
10), ma oggi vi arriva al prezzo spropositato di far vincere l’estrema destra:
idra che senza manganelli, ma in America coi missili a testata nucleare, sta
alzando con evidenza la testa in tutto il mondo. Ma l’Italia, buon laboratorio
del cambiamento, ci ha dato prima il partito che fa vivere insieme centro e
sinistra - come Blair, come Obama - che è il PD; e poi, purtroppo molto
tardivamente, il leader per tale cambiamento, Matteo Renzi. La differenza tra
noi e la Francia pende a favore della Francia in termini di regole
istituzionali di governabilità, là blindate dal 1958, dal gollismo e poi mitterandismo
contro ogni evenienza, mentre il tentativo di dotare il nostro Paese di un
maggioritario con premio di maggioranza e a due turni - sia pure con molti
pasticcetti annessi - purtroppo è stato bocciato il 4 dicembre 2016 da grandi
masse esasperate dalla crisi economica. Ma a vantaggio dell’Italia, rispetto
alla Francia, c’è la nuova geografia dei partiti, e soprattutto il PD, fondato
da Veltroni: contesto per cui il Macron francese potrà anche diventare
presidente della Repubblica ma poi, non avendo un vero partito alle spalle,
dovrà forse coabitare con un
presidente del Consiglio che potrebbe essere di colore diverso (probabilmente
“grigio”), mentre se Renzi alle elezioni politiche vincesse avrebbe un PD alle
spalle. Ma, sempre a vantaggio dell’Italia, va detto che se il PD di Renzi
perdesse anche alle politiche (com’è purtroppo possibile), al potere non
andrebbe un partito fascistoide o comunque post-fascista, tipo “Alleanza
Nazionale”, come il Front National di Marine Le Pen, ma il M5S. Questo è vero,
ma bisognerà starci attenti, come già si vede in materie non tanto “piccine” come
immigrazione, Unione Europea e autoritarismo
di partito nel M5S: anche perché l’alleanza con i populismi di destra di
Lega e Fratelli d’Italia, dopo le elezioni politiche potrebbe far rientrare il
populismo di destra “alla francese” o il trumpismo agli spaghetti dalla
finestra dopo che pareva essere fuori dalla porta. Comunque è vero che il M5S
non è il Front National.
Un punto chiave di tutta la faccenda sarà la nuova legge elettorale, che
a fine maggio nascerà o starà per nascere. Al proposito io resto fermo al
rifiuto delle ammucchiate e rimango strenuo fautore della logica
dell’alternativa tra blocchi storici opposti (me ne infischio se per ora è tra
tre poli invece che due). Basta con i trasformismi. Ci abbiamo sguazzato da
quando un alessandrino, sia pure per “fare l’Italia”, ha inventato il
trasformismo nel 1849 nel Parlamento Subalpino (si chiamava Urbano Rattazzi, e
il suo De Gasperi o Fanfani o Moro si chiamava Cavour; la mela era bellissima, e
allora “da mangiare” tutta, ma il verme del trasformismo c’era già, anche se
sino al 1876 fu poi messo nella spazzatura quando “la si apriva”). Se vogliamo
moralizzare e ammodernare il Paese, in senso europeo, dobbiamo “tendere” al
bipartitismo tra grandi partiti di governo (anche partendo da tre). Perciò sono assolutamente d’accordo con Renzi
- che spero terrà duro su ciò contro tante vecchie sirene, da Bersani a Prodi,
e da Orlando forse a Franceschini - nel rifiutare il premio di maggioranza alla
Coalizione invece che alla lista. Se torniamo al premio alla coalizione, avremo
i soliti ricatti dei piccoli partiti che “incasinano” i governi e li fanno
cadere stupidamente, per il maggior danno comune (col potere di veto, e di
provocare crisi, dei Mastella o Bertinotti o Turigliatto o altri e, sull’altro
versante, dei Bossi o Fini, o domani chissà chi). Ma in fondo al tunnel un po’
di luce ora filtra. Al proposito trovo straordinaria l’occasione di prendere
alla lettera l’idea di Di Maio, del M5S, di superare
la faccenda invereconda, anche se accolta dalla Corte Costituzionale, dei capolista bloccati, e soprattutto di assegnare un congruo premio di governabilità
- per la Consulta sino a 15 punti - a una prima lista che prenda il 35%: il
che costringerebbe molti - o per ostilità al PD
o al M5S - a sostenere o il PD oppure il M5S. (Io - ma capisco bene che
la mia opinione non conta, se non per ragionare, purtroppo - metterei persino
il 30 come minimo per il “primo partito”, perché col 45 si potrà poi completare
l’opera con alleato piccolo ma non determinante; e accadrebbe eccezionalmente).
A
me sembra, comunque, conclusivamente, che oggi stia emergendo un dato sistemico
politico. La prima Repubblica ruotò intorno al grande confronto, con momenti di
scontro drammatico (e in stato di necessità di dialogo, come ben sapevano don
Camillo e Peppone), tra Democrazia Cristiana e PCI; ora pare che in Italia, nel
periodo storico in cui stiamo entrando, il confronto assolutamente serrato, ma
con ovvi momenti di compromesso, sarà tra PD e M5S. A molti “piccoli” non
piace, ma a me piace, e preferirei l’egemonia o dell’uno o dell’altro a qualsiasi tra i soliti “pasticciacci
brutti” del nostro Paese. Il PD, in ogni caso, sarà guidato da Renzi. So che a
molti compagni ed amici, persino in Città Futura, non piace, ma a me piace. E,
a questo punto, dovranno cercare di farsene una ragione.
(franco.livorsi@alice.it)