7 novembre 1917 - 7 novembre 2017: dialogo sul centenario della Rivoluzione d’Ottobre di Lenin
Pubblichiamo di seguito l’ampia intervista di Marco
Ciani a Franco Livorsi, già
professore ordinario di “Storia delle dottrine politiche” presso la Facoltà di
Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano. L’intervista è
comparsa su “Appunti Alessandrini” il 4 novembre 2017. Il testo, in cui il
nostro amico, socio fondatore ed ex Presidente della nostra Associazione,
Franco Livorsi ha risposto a dodici impegnative domande di Marco Ciani, è
piuttosto ampio. Integra e approfondisce temi già emersi in altro suo recente
articolo su “Città Futura”, offrendo molti spunti interpretativi e riflessioni
teoriche che speriamo risulteranno interessanti per tutti. (“Città Futura”)
Caro Franco, quest’anno la nostra ormai tradizionale
intervista per “Appunti Alessandrini” la
dedichiamo alla Rivoluzione d’ottobre, che giusto un secolo fa – il 7 novembre
secondo il nostro calendario - sconvolse il mondo. Ti proporrei, in premessa,
una domanda secca. Se dovessi formulare una sintesi nello spazio di poche
battute, come valuteresti tale evento?
Direi che la Grande Guerra del 1914/1918
segnò una cesura fondamentale nella storia del mondo. Mise in crisi tutto un
assetto mondiale che, nelle linee essenziali, durava dal 1815. Ciò risultò
sconvolgente per l’unico immenso Stato in cui sussistesse ancora la monarchia
assoluta, come anteriormente alla Rivoluzione francese: la Russia degli zar. In
essa, però, nelle grandi città era già operante il capitalismo moderno, con la
sua classe operaia e il coevo movimento socialista. La Grande Guerra, per la
Russia, fu accompagnata da una serie ininterrotta di sanguinose disfatte. Ciò
esasperò il popolo russo e segnatamente la classe operaia, in cui era operante,
dall’inizio del secolo, un piccolo ma influente partito “operaio, socialista,
democratico e rivoluzionario”, diretto da Lenin. Dapprima vi fu una rivoluzione
democratica, che travolse lo zarismo (febbraio 1917). La guerra seguitò, coi
nuovi governi, rovinosamente. Perciò crebbe la protesta - pacifista e per il
pane, ma in forme crescenti e radicalizzate - dei consigli elettivi (soviet)
degli operai, dei contadini e dei soldati. Questi soviet - per impulso di Lenin,
di Trockij e dei socialisti marxisti “maggioritari” (bolscevichi) - fecero la
rivoluzione d’ottobre del 1917. Al centro di essa era effettivamente la classe
operaia delle grandi città come Pietroburgo, con i loro soviet, che si posero
alla testa delle grandi masse lavoratrici, specie contadine, di tutto il Paese.
La dura guerra civile successiva a tale conquista del potere da parte dei
soviet e dei socialisti leninisti (i “maggioritari”, “bolscevichi”), fu essa
pure sanguinosissima, come già la guerra, e durò sino al 1920. Lo scontro
tremendo tra destra nazionalista (i generali bianchi) e Armata Rossa di operai
e contadini (sinistra rivoluzionaria, di Trockij e Lenin), trasformò ben presto
il nuovo regime socialista in un sistema a partito unico, che però per anni fu
effettivamente operante di concerto con i liberi soviet degli operai e dei contadini.
Ma la rivoluzione operaia e socialista, nonostante immani ondate di lotta
proletaria a Occidente, restò isolata: soggetta perciò a possibili invasioni da
Occidente e priva della tecnologia che una rivoluzione proletaria europea
avrebbe potuto garantirle. Perciò si fece sentire tutto il retaggio della
tradizione dispotica “extraeuropea” della Russia e tutta l’urgenza di risolvere
- come “fortezza assediata” - i gravi problemi di sviluppo e di sicurezza del
Paese. Stalin, succeduto a Lenin (morto nel 1924), impersonò tali istanze,
tramite una sorta di nuova rivoluzione dall’alto, assai sanguinaria (con oltre
dieci milioni di morti, specie durante la “collettivizzazione forzata
dell’agricoltura” del 1929), che trasformò la dittatura di sinistra di Lenin e
dei bolscevichi in Stato totalitario: un potere che governava Stato ed economia
col Terrore istituzionalizzato (durato quasi trent’anni, dal 1928 al 1953, e su
quell’onda sino al 1956). Lo stalinismo vinse la scommessa dello sviluppo
dell’industria pesante e della guerra (del 1941-’45), ma a un costo umano
spropositato (anche prima, e dopo, l’invasione hitleriana). Morto Stalin (1953)
e superato il suo modo di governare segnato da immani “crimini” (1956), lo
statalismo sovietico s’inceppò e alla fine non poté reggere né la sfida dello
sviluppo sociale e civile, né quella militare, con l’Occidente americano,
europeo e capitalista. Perciò quel sistema implose tra il 1989 (caduta del muro
di Berlino) e il 1991 (crollo dell’URSS).
Una curiosità personale: ti consideri ancora
socialista?
Sì, ma quasi esclusivamente in riferimento
alla pars destruens invece che alla pars construens dell’idea socialista. Io
resto anticapitalista, Ho diversi amici che sono militanti di “Sinistra
italiana” o del Movimento Democratico Progressista, mentre io sono stato
considerato un ultrariformista quasi della prima ora (almeno dal 1979),
migliorista nel PCI, filosocialista e infine renziano: tutti elementi che hanno
o avrebbero accettato sostanzialmente il capitalismo. Io, invece, seguito ad essere
anticapitalista. E non ho mai smesso di esserlo dal 1962. Naturalmente non lo
sono più né in modo “psiuppardo” come tra 1964 e 1972 né in modo marxiano, e
neppure leninista, “comunista”. Non vedo più, insomma, una specie di guerra di
classe perpetua, ora latente e ora manifesta, tra padroni e operai. Mi sono
convinto che prendersela con i padroni in quanto tali non abbia senso, perché
il sistema o civiltà del capitalismo travalica le persone, che spesso in
quell’ambito sono egoiste e marce, ma che possono pure essere diversamente
orientate, senza effetti significativi se non cambino gli orientamenti profondi
della società e le norme generali del funzionamento dell’economia e dello Stato.
Ma ciò posto resto convintissimo del fatto che il sistema, o se si preferisce
la “civiltà dominante”, borghese, ovverossia capitalista, abbia in sé qualcosa
di distruttivo e di autodistruttivo. E’la religione di Mammona, in cui per il denaro
e i connessi vantaggi, “tutto è permesso” (nonostante gli ammortizzatori
sociali e legali che nel corso del tempo sono stati introdotti per ridurre un
poco lo sfruttamento selvaggio della gente). Intendiamoci, il capitalismo porta
pure veri benefici, tanto che nessun sistema è mai stato così produttivo, così
portatore di consumo per grandi masse e anche così compatibile con le libertà
individuali. Ma questo sistema ha comportato e comporta sempre più anche egoismo,
competizione di tutti con tutti, vera e propria anomia, amoralità ed
inquinamento senza limiti, e distruzione di tutte le culture dei popoli
altrimenti orientati. Bisognerebbe andare oltre il capitalismo, ma ormai non
sappiamo come. E’ come se conoscessimo bene il tumore maligno, ma non sapessimo
come batterlo (anche se abbiamo inventato un po’ di antidolorifici). Ma si
tratta sempre di eliminarlo: senza però ammazzare il malato (come ha fatto
spesso il comunismo “rivoluzionario”). Comunque la ricerca dell’”oltre” – rispetto
al capitalismo - è sempre urgente, e deve seguitare.
Oggi, però, me la prendo più con una
mentalità dominante che con un assetto economico: non perché l’assetto
economico (capitalistico) lo ritenga salvabile e positivamente valutabile, ma
perché lo ritengo - nella sua negatività - il frutto di una mentalità
egoistica, cinica, senza scrupoli e di rapina, di cui il tipo sociale
“borghese” è il compendio (la sintesi). E’l’uomo borghese a generare il
capitalismo, e non il contrario. Spesso persino tra i lavoratori: anche senza
prendere alla lettera la fulminante battuta di Céline che diceva che “il
proletario è un borghese che non è riuscito”. Marx riteneva che il “feticismo
della merce” fosse l’effetto del capitalismo. Per me il feticismo della merce,
la religione del massimo profitto, è la vera causa del capitalismo, e finché
durerà seguiterà ad essere la causa della sua triste, e trista, invincibilità.
Dura perché alla gente - come dicono dalle tue parti, in Veneto - “ghe piase”. Anche se a una forte
minoranza sociale non è piaciuto e non piace. A me non piace.
Il problema è che questa civiltà è marcia,
ma un’altra migliore non è venuta fuori. Questo è il triste “stato dell’arte”
in questo XXI secolo. E l’idea di attaccarsi a strategie strafallite nella
storia, anche in base alle categorie di Marx è reazionaria. E’, infatti, “passatismo”. Non avevano senso i
nostalgici di estrema destra, ma non ce l’hanno neanche i nostalgici di estrema
sinistra. Procedere con la testa all’indietro non ha senso. Le minestre
riscaldate sono immangiabili. Ci vorrebbe un
nuovo socialismo, dopo il comunismo “prevalso” e dopo la socialdemocrazia
“prevalsa” nella storia, ma le forme d’innovazione per ora sono tremendamente
inadeguate benché la crisi della civiltà sia oggi spaventosa. Ad esempio
l’incapacità della sinistra di realizzare un modo d’essere in cui si sia “plurimi
in uno”, tale da comporre audaci idee di riforma sociale ed ecologica ed audaci
idee di forte governabilità dello Stato, entrambe indispensabili, è spaventosa.
Perciò sono un neo-socialista, un convinto post-capitalista, ma non vedo ancora
la casa comune di un socialismo al passo col XXI secolo, “en marche”, pur votando convintamente per il Partito
Democratico perché assolutamente convinto che sia il meno peggio.
Da studioso e profondo conoscitore della materia,
quanto della Rivoluzione d’ottobre rispecchia la concezione marxista della
politica e dove invece ritieni tradito il messaggio del filosofo di Treviri,
Karl Marx?
Per me c’è diversità, ma compatibilità, o se
vuoi continuità, tra la concezione di Marx e quella di Lenin. Anche se su un
punto – la questione del partito - c’era una differenza vera, che da Stalin in
poi – essendo stata da lui dilatata in sommo grado - divenne abissale.
Parlo di una compatibilità e continuità sia
nei tratti “positivi” che “negativi” (o che oggi valuto così). Ad esempio
l’idea che il problema del mondo contemporaneo sia quello di sostituire uno
Stato dominato dagli interessi capitalistici con un nuovo Stato socialista,
dominato dal proletariato (che ha l’interesse di abolire le differenze tra le
classi per abolire la sua stessa estrema dipendenza), era comune a Marx e a
Lenin. Anche la visione della dittatura del proletariato, e dell’estinzione
dello Stato-macchina, “borghese”, nella società civile, era la stessa (com’è
dimostrato in modo assoluto da Lenin in Stato
e rivoluzione, nel 1917). Lenin però enfatizzava in sommo grado il ruolo
storico del partito marxista e rivoluzionario. Ma per Lenin in sostanza il
partito stesso, di cui pure dilatava sommamente il ruolo, era, dal 1902 più o
meno sino al 1920, una sorta di sesta colonna in funzione del diretto dominio
proletario. Questa non era stata l’idea di Marx, per il quale non c’era la
minima differenza tra azione operaia e azione socialista (persino azione
politica e azione sindacale erano ancora un tutt’uno, nella stessa Prima
Internazionale da lui presieduta dal 1864). Sulla base del primato del partito
rispetto alla classe operaia, Stalin poi giunse a vedere nel Partito Comunista
il rappresentante esclusivo, carismatico, del proletariato nella storia
(insomma, il proletariato transustanziato nel “Partito Comunista”, com’è poi
sempre stato per i comunisti, dal più al meno).
Marx e Lenin - in tal caso con tutti i
seguaci comunisti loro, buoni e cattivi, sino al crollo dell’URSS - secondo me,
inoltre, avevano anche alcuni gravi limiti in comune. Di questo mi sono via via
convinto, specie dagli anni Ottanta del secolo scorso in poi. Non avevano mai
accettato, se non tra mille distinguo e relativamente, come in Italia, l’A, B,
C del liberalismo, che è la divisione e
il bilanciamento dei tre poteri fondamentali dello Stato. Per la visione
liberale dello Stato, chi ha il governo (potere esecutivo) non può coartare i
giudici (potere giudiziario) né i parlamentari (potere legislativo), ma non può
farlo né il legislativo verso l’esecutivo e il giudiziario né il giudiziario
verso l’esecutivo e il legislativo. Perché ciò sia possibile i poteri debbono pure
avere un qualche ruolo di difesa e influenza verso gli altri due, ma entro
limiti precisi. In ciò anglosassoni e americani ci sono maestri. Ora Marx e
Lenin non hanno mai creduto in ciò. E moltissimi marxisti anche più democratici
di loro o comunque di Lenin si sono sempre preoccupati della democrazia come “partecipazione”
invece che della divisione e bilanciamento dei poteri, che erano per loro un
che di relativo, di cui all’occorrenza si poteva fare a meno senza tanto
piangerci sopra. Questo “vizio d’origine” secondo me c’era già in Marx.
Popper accusava Marx di essere un falso profeta e
contestava il suo hegelismo storicizzante. Negava inoltre la pretesa
scientificità delle sue dottrine. Quale la tua posizione al riguardo?
Sono d’accordo con Popper sulla decisiva
questione della non-scientificità del marxismo. Ma con qualche precisazione non
da poco. Certo non sono stati pochi, e non tra i minori, coloro che hanno
considerato Marx, e taluni suoi continuatori economisti, come si poteva o può
considerare un Galileo o un Einstein in fisica o in astronomia. Lo stesso Lenin
era assolutamente persuaso di ciò e una vasta messe dei suoi scritti fu volta a
dimostrare la scientificità delle idee di Marx sul capitalismo (e la
rivoluzione). Così la pensarono Engels o Kautsky (sino al 1914). E, in una fase
più recente, per molti anni Lucio Colletti (finito poi berlusconiano). Così la
pensò sempre Bordiga. E, più di tutti, Althusser. In genere non l’hanno pensato
i cosiddetti hegelo-marxisti, da Gramsci a Togliatti, da Rodolfo Mondolfo a
Nicola Badaloni. Io non ho mai creduto alla scientificità del marxismo, neanche
quando mi consideravo marxista in senso forte. Da questo punto di vista
concordo con Popper. Ma per me la cosa va presa cum grano salis e va vista tenendo conto della distinzione che
faceva Dilthey, sin dall’Introduzione
alle scienze dello spirito (1883), tra scienze della natura, in cui si può
ritenere (anche se molti oggi circoscrivono pure tale affermazione) che esista
una verità a prescindere dalla soggettività di chi cerca e di chi opera nella
realtà considerata, e scienze dello spirito, in cui il ruolo della soggettività
- sia di chi fa ricerca che di chi fa la storia - è insopprimibile. Anche se
l’economia si colloca in una specie di marca di confine tra i due campi, mi
sembra indubbio che l’economia stessa abbia molto a che fare con la
soggettività; e ciò è tanto più vero per l’economia di Marx, che è intrisa di
sociologia. Oltre a tutto nella mia piccola interpretazione lo specifico di
Marx è proprio il fatto che è stato tre in uno: un grande filosofo, che però
simultaneamente era anche un economista e un rivoluzionario; un grande
economista, che però simultaneamente era pure filosofo e rivoluzionario, e un
grande rivoluzionario, che però era anche un filosofo e un economista: era tre
in uno e uno in tre; se ne togli uno, il resto non regge.
Invece non seguo affatto Popper nel suo
attacco a Hegel (Miseria dello storicismo,
1945, e La società aperta e i suoi nemici,
1944-45). Anche Hegel, come Marx - compreso il Marx del Capitale (del 1864 e dei due volumi postumi), non può essere preso
alla lettera, ma va preso come uno che ha costruito formidabili modelli di
interpretazione della realtà in movimento: e anche - nel caso di Hegel - del
procedere nella storia da parte di “Dio” - o Logos infinito immanente nella
mente umana. Togliamo pure la visione in cui tutto va secondo ragione (sicché
il reale è razionale e viceversa): visione che in Hegel è connessa al divenire
della mente e in Marx al divenire dell’economia, che ha una logica intrinseca.
Resta in entrambi la capacità di raccogliere, entro modelli interpretativi formidabili, processi molto complessi. Per
me Hegel è come Michelangelo nella scultura. Non tutto è accettabile, anche su
punti decisivi. Ma quanto c’è da imparare da Hegel, da Marx e pure da Platone, con
buona pace di Popper, per cui “i tre” erano grandi maestri di autoritarismo e
totalitarismo, che avrebbero preteso di piegare la società a modelli veritativi
assoluti e che invece erano pseudoscientifici. Ripeto, c’è “un mondo” da
apprendere, ma senza prendere nulla alla lettera o per oro colato, in Hegel e
Marx come nell’antico Platone. Ma le mappature servono a viaggiare in mondi
inesplorati, pur essendo necessariamente imperfette, in ogni ambito in cui il
ruolo del soggetto sia ineliminabile. Del resto studiamo le filosofie - sempre
plurali - che ci sembrino “più vere”, sempre approssimativamente – pur sapendo
che sono sempre diverse – proprio per questo. Troviamo compagni “affini” più
illuminati che ci fanno un po’ luce nella notte. Anche quando ci innamoriamo,
sappiamo che la persona amata ne ha molte consimili, pur essendo per noi unica.
Così sono “questi pensatori”. Per me quei tre – a partire da Marx - restano,
relativamente parlando - illuminanti, nella loro ovvia imperfezione.
Non credi che in un certo senso il “socialismo reale”
assomigliasse più ad una chiesa ancorché laica, con la sua promessa di
felicità, il suo messia, il suo libro (o libri) e così via, piuttosto che ad un
movimento politico vero e proprio? Cioè una realtà più fondata sull’utopia e
sull’attesa messianica che sulla ragione e il confronto con la realtà?
Concordo pressoché totalmente con te. Ma
vale già per Marx. Il “socialismo reale”, da Stalin in poi, rese clericale o
teocratico (burocratico assolutizzato) quel che in Marx e Lenin era ancora
profetico e redentivo. La trasposizione del paradiso in cielo nel paradiso in
terra è evidentissima in certe pagine decisive del giovane Marx, come quelle
sul “comunismo” nei Manoscritti
economico-filosofici del 1844 (nelle “Opere filosofiche giovanili”), o come
quella sul senso che ha per lui la negazione del paradiso in cielo e della
“teologia”, per farli in terra, nell’Introduzione alla Critica della filosofia
hegeliana del diritto pubblico, negli “Annali franco-tedeschi” (sempre del
1844, forse l’anno chiave in Marx). Ma poi la cosa ha un grande seguito. Bertrand
Russell si era presto accorto della perfetta simmetria tra chiesa cattolica e
comunismo mondiale del tempo di Stalin (Pratica
e teoria del bolscevismo, 1949). Su ciò ci sono pagine interessantissime
del Maritain di Umanesimo integrale
(1936), da me anche commentate, che sarebbero da rileggere. Del resto per i
comunisti “il Partito” è sempre stato molto di più di uno strumento per una
politica, com’era per gli altri partiti - socialisti compresi - pur scontata
l’amicizia tra compagni. Per i comunisti, per quelli che vi erano nati, il PCI era
tutto un mondo, in cui facevano tutte le cose che contano nella vita. Non solo
era la loro Chiesa, ma pure la loro parrocchia.
Forse sarei meno d’accordo su termini quali
“utopia” e “attesa messianica”. A volte la storia del mondo cambia davvero
radicalmente, e pare di sperimentare- come direbbe Bergson, ma lo riprende pure,
in una pagina, Vittorio Foa (in Il
cavallo e la Torre. Riflessioni di una vita, 1991) a proposito di certi
stati d’animo di liberazione che accompagnavano il nostro lavoro politico tra
gli operai - il tempo come “durata” - ossia non più spazializzato, fatto di
momenti tutti uguali- con un tocco di eternità (un tempo senza tempo). Quando John
Reed scrisse I dieci giorni che
sconvolsero il mondo (1918), sull’Ottobre, colse a caldo qualcosa del
genere. Non so se ci sia qualcosa di più straordinario della visione di un
popolo che si libera, come quando nella Battaglia
di Algeri di Pontecorvo il Fronte di Liberazione Nazionale, prima di
iniziare la lotta, ripulisce la casbah. Tante lotte proletarie avevano qualcosa
di simile, come se un “altro mondo” si facesse già percepire. Nel 1969 facevo
parte della segreteria regionale del PSIUP, come coordinatore, con Franco
Ramella, del nostro mitico “lavoro
politico di fabbrica”. Una volta Clemente Ciocchetti, che era l’anima dei
giornalini di fabbrica che quasi quotidianamente investivano la FIAT, mi chiese
se da Alessandria non avessi un giovane da mandare lì a dare una mano, non
pagato, ma ospitato da questo o da quello. Erano tempi così. Io gli mandai un
ragazzo appena diplomato maestro, che chiamavamo Micio (deformandone il cognome).
Questi fece un’esperienza di empatia e lotta così intensa, in pochi mesi, che
gli segnò tutta la vita. Talora sembra che la storia cambi in profondità e ci
faccia accedere a un’esperienza umana piena di senso. Perché non riconoscere
che momenti o fasi o possibilità redentive possono darsi nella storia, anche se
poi risultino - però lasciando un limo molto fecondo - possibilità che
falliscono? Ma non sono sempre fallite, e non è detto che falliscano sempre. Hannah
Arendt diceva, in America, al suo collega Adam Ulam che aveva sostenuto, in un
grande libro su Stalin, che l’Ottobre di Lenin portava necessariamente a Stalin,
che quello di Ulam era un punto di vista che, se accettato, avrebbe “ridotto o
eliminato ogni contingenza, ogni nuovo inizio”, “l’imprevedibile” nella storia.
Sono per lasciare l’uscio socchiuso verso il mutamento radicale della storia,
per quanto raro e incerto possa essere. Ma sono “sempre così” tante cose
importanti nella vita: il bello, il buono, l’amore e i momenti di grande
amicizia (rari e transitori, ma possibili ed effettivi). Lo spettacolo della
gente che si libera ha qualcosa di magico; ha un che di infinito in sé, e che
se non apre alla tirannia, o finché non degeneri in tirannia, va colto e
valorizzato. Almeno io sento e penso così.
Col senno di poi sappiamo che la morte di Lenin e il
passaggio del potere a Stalin hanno compromesso in modo irrimediabile
l’evoluzione di una vicenda che forse avrebbe potuto conoscere un epilogo
diverso. Quali i presupposti che hanno prodotto la degenerazione
dell’esperienza sovietica?
Ho già accennato all’isolamento di quella
rivoluzione, diventata presto una “fortezza assediata”. Sola militarmente,
povera di tecnologia, l’URSS era esposta all’esperienza che uno psicoanalista
direbbe del “ritorno del rimosso”: l’involuzione burocratico autoritaria, lo
spirito dell’autocrazia, le tendenze al dispotismo che in quel Paese sempre
ritornano (come aveva già discusso Montesquieu sin dallo Spirito delle leggi, nel 1748). Certo contò moltissimo anche la questione
della personalità nella storia: dimensione sempre sottovalutata e non capita
dai marxisti e persino dagli ex marxisti formati dal marxismo (per i quali il
singolo è sempre un mero epifenomeno della storia sociale, mentre è una
condizione “necessaria” seppure “totalmente insufficiente”). Ogni volta che la
sinistra trova un vero leader sulla sua strada, se questi non è solo il
portavoce di tutti, se può lo liquida. Se Lenin fosse arrivato all’età di Mao
la storia sarebbe stata molto diversa: non opposta, perché la dittatura di
sinistra sarebbe durata; ma i dati di paranoia dello stalinismo, messi in luce
anche dal mio amico Luigi Zoja in un suo grosso libro sulla “paranoia” come
“follia che fa la storia” (2011), non ci sarebbero stati, e tutto il contesto
ne avrebbe risentito in senso più umano, seppure non opposto. Al proposito è
sempre da vagliare a fondo Le origini del
totalitarismo (1955) di Hannah Arendt (un totalitarismo che sotto Stalin ha
raggiunto un’assolutezza persino maggiore del nazismo, pur senza gli orrori
dell’antisemitismo). Tali orrori, con Lenin, ci sarebbero stati risparmiati. Ma
non possiamo fare la storia dei se e dei ma.
C’è però un dato politico per me decisivo, ed
è l’opzione dittatoriale stessa. Per brevi periodi si può pure capire. Ma
quando non si capisce che la libertà liberale, persino con i limiti che può
avere in certe fasi, è un valore irrinunciabile, e che quando lo stato d’eccezione
si fa normale, e la dittatura - persino blanda o non totalitaria – invece di
essere superata si consolida, poi non ci si può stupire della “degenerazione
burocratica e autoritaria”. Io ho maturato una visione pessimistica del potere.
Sono d’accordo con Gerhard Ritter, che scrisse un libro la cui tesi era già
ampiamente contenuta nel titolo: Il volto
demoniaco del potere (1947): il potere ha in sé qualcosa di demoniaco. Non
solo degenera, ma ha in sé qualcosa di degenere. Perciò se viene soppressa
l’opposizione, se non si dà ricambio possibile di ceto dirigente, la
degenerazione è “generazione”, ossia arriva con certezza matematica. I marxisti
questo non l’hanno mai capito del tutto. Ad esempio reagire al gran casino
delle correnti socialiste facendo un partito senza opposizioni interne, invece
che con opposizioni ben delimitate nei loro diritti e doveri, gettò sempre via
l’acqua sporca (del frazionismo) col bambino (della libertà e creatività, che
possono frenare gli errori fatali dei capi). Sopravvalutando il dato economico
rispetto a quello normativo, giuridico e politico, i marxisti rivoluzionari,
anche libertari e non leninisti, finiscono sempre per liquidare sé stessi da
soli, e per liquidare noi con loro. Insomma, la libertà non è un accessorio, ma
un punto fermo al quale - non dico per mesi o alcuni anni (il che nella storia
“può capitare”), ma per epoche intere - rinunciano volontariamente solo gli
sprovveduti (o, ancora peggio, i conformisti, oppure i caporali per vocazione:
tutta gente “meglio perderla che trovarla”). Dopo il 1929 si poteva capire, anche
se molti tra noi nati negli anni Quaranta del Novecento lo hanno capito solo
dopo lo scacco del Sessantotto o anche del Settantotto (quando con il cadavere
di Moro morì pure il progetto di compromesso storico di Berlinguer, mentre
l’URSS svelava anche ai ciechi, che però restavano tanti, un volto irrimediabilmente
liberticida, e la Cina non era da meno).
Cosa possiamo salvare invece di quella rivoluzione?
La Rivoluzione d’Ottobre era stata urbana
ed operaia, cioè socialista in senso marxista e occidentale. La campagna fu
trascinata dalla classe operaia urbana. Un decennio dopo o poco più arrivò la
forma “definitiva” del potere sovietico, allorché Stalin fondò il totalitarismo
sanguinario, normando tutto e tutti al potere centrale (prendere “o morire”).
L’URSS di lì in poi - pur avendo
avuto un ruolo decisivo, e straordinariamente positivo, nella sconfitta di
Hitler (ma perché “quello” nel 1941 aveva invaso l’URSS) - in termini
occidentali per me non ha nulla di
positivo. La classe operaia europea, scegliendo la socialdemocrazia - compresa
quella “di sinistra”, sia chiaro - aveva mostrato molta saggezza. Aveva
ragione, a posteriori; e gli altri, i comunisti, rispetto ad essa, e alla
socialdemocrazia “europea”, pur con tutti i loro meriti avevano torto marcio (tanto
che quel che fecero di buono fu sempre - dove “non riuscirono” a imporre il
loro Stato - un’imitazione, incompleta e incompiuta, della socialdemocrazia
stessa: il che era poi il “segreto” dell’italocomunismo e specie
dell’assolutamente geniale Togliatti che l’aveva inventato, che ibridava il
fortissimo stalinismo della Casa madre con “quanti” più forti che fosse
possibile di socialdemocrazia riformista, pur uniformando sempre il suo “orologio”,
per convinzione o forza maggiore interna, all’ora di Mosca, in politica
internazionale). Ma nel Terzo mondo non è stato così. Quel che si può salvare
dell’esperienza sovietica, in parte dall’ultimo Lenin e soprattutto da Stalin
in poi, è una via allo sviluppo diversa da quella dell’Europa occidentale per
il Terzo Mondo. In tanti paesi arretrati, anche immensi, in cui non c’era
quella borghesia industriosa capillarmente diffusa formatasi in Europa a poco a
poco dal 1300 in
poi, e dove permanevano forme spesso semifeudali oppure sgangherate di antico dispotismo,
l’esempio russo del formare un partito burocratico rivoluzionario, monolitico e
senza scrupoli, con un suo idealismo, capace di prendere lo Stato mettendosi
alla testa della povera gente e di costringere il Paese allo sviluppo “a
fucilate”, fu una cosa molto importante, come si vide e ancora si vede in Asia,
in Cina o in Vietnam (nonostante gli orrori della Cambogia). Quelli sono stati
frutti buoni del comunismo sovietico: una via comunista alla modernizzazione
del Terzo Mondo. E basta. Forse il
significato “progressivo” del modello sovietico non fu minimamente per il mondo
capitalistico europeo o americano, ma per la modernizzazione forzata,
capitalistico privata o anche di stato, di paesi del Terzo Mondo. Non di tutti,
ma di parecchi. Ma nell’Europa capitalistica avanzata e in America - pur mettendo nel conto in
positivo per i comunisti cose molto importanti come il ruolo d’avanguardia
nell’antifascismo e nella Resistenza - a sinistra ad essere positivo è stato il
socialismo democratico, in tutte le sue tendenze (di cui il comunismo è stato o
un affluente o un’imitazione, ma anche una tremenda remora, che impediva alla
sinistra di andare al potere, tanto più in alternativa ai moderati e
conservatori, con quei parenti e compagni o amici che “teneva” a Mosca).
Personalmente penso che con il dissolversi del
“socialismo reale” il pendolo della storia, che aveva proceduto negli ultimi
secoli in direzione dell’uguaglianza, abbia iniziato a recedere lasciando
l’individualismo egoistico privo di contrappesi, padrone di una società sempre
più liquida e in preda a pulsioni effimere. La crisi della sinistra (o meglio
delle sinistre ) a livello globale sembrerebbe confermarlo. A favore, credo, di
una rinascita dei nazionalismi anche regionali, e del populismo. Cosa c’è, se c’è, di vero in tale interpretazione?
Sono totalmente d’accordo salvo che su un
punto. La dissoluzione del “socialismo reale” del 1989-1991 aveva solo reso
visibile una necrosi sistemica molto più antica. Lo dico però col senno di poi.
Io l’avevo vista chiaramente dalla fine degli anni settanta del Novecento
(almeno dal 1979), ma poi Gorbaciov aveva riattizzato le mie speranze di
autoriforma di quel sistema. Vedendo le cose a posteriori, probabilmente -
anche senza tirare in ballo Stalin, che impersonava un collettivismo burocratico
autoritario all’estremo, ma ancora molto vitale - la necrosi iniziò con la
caduta di Kruscev, mi pare nel 1964. Direi che si fa evidente - ripeto: col
senno di poi - quando Breznev nel 1968 non solo invade la libera
Cecoslovacchia, che aveva cercato l’autoriforma “liberal” di quel sistema, ma
lancia la teoria della “sovranità limitata”, per cui quando il campo socialista
è messo in pericolo in un punto i “paesi fratelli” accorrono in aiuto per
salvare “il socialismo”: versione secolarizzata della teoria della Santa
Alleanza pensata dallo zar Alessandro I e da Metternich nel 1815 a favore delle
traballanti residue o rinate monarchie assolutiste d’ancien régime. Quella fu
la risposta dei sovietici al Sessantotto internazionale (una risposta che ora
mi pare non un errore, ma un orrore). Avevano ragione quelli che intorno al ’68
parlavano - mentre io li contrastavo moltissimo - di due imperialismi, uguali e
in competizione nel mondo (il russo e l’americano), solo che molti di noi -
entusiasti dei movimenti politici di massa della classe operaia occidentale, e
convinti, non a torto, che il punto decisivo per battere l’imperialismo
capitalista fosse il Vietnam, la cui eroica lotta era sostenuta dall’URSS –
restarono obnubilati: per l’ostilità nei confronti dell’imperialismo americano.
Ma il “socialismo reale”, visto a posteriori, prese a morire via via da quel
Breznev in poi. Quel ceto politico sovietico ingessò l’autoritarismo invece di
riformarlo almeno nell’economia e facendo spazio a forme di libertà almeno
parziali nella società civile; e, all’estero, fu imperialista verso i popoli
europei e interni soggiogati da Stalin e dall’Armata Rossa: cosa non certo meno
grave di chi, come gli americani, schiacciava contadini del terzo mondo, invece
che vecchi europei come i berlinesi, gli ungheresi, i cecoslovacchi o i
polacchi.
Quel
che tu lamenti, come mondo “dopo la caduta dell’URSS”, io lo connetto, in
sostanza, alla sconfitta del Sessantotto: un corto circuito internazionale
senza uguali dal primo dopoguerra, una specie di nuovo 1848 mancato, che aveva
scosso tutto l’ordine mondiale dall’America alla Cina, da Praga a Parigi e
Berkeley. Il 1989/1991 è il tempo in cui il “socialismo reale”, dopo molti
processi degenerativi sino al 1956, e molti processi necrotici, infarti e
tumori tamponati dopo il ‘56, MUORE DA SẺ. Ma il comunismo era la faccia
autoritaria del socialismo, che, se quello moriva, non doveva stare tanto bene
neanche lui. Così, via via, si arriva alla situazione d’oggi in cui, come
dicevano Edgar Morin e la sua amica Brigitte Kern in Terra-Patria (1994), “la
crisi del futuro riattualizza il passato”: ritornano le barriere divisive
tra Stati contigui; gli egoismi ridiventano “normali”; tornano i nazionalismi e
i micro-nazionalismi; risorgono le forme premoderne di vecchie religioni, come
nell’islamismo fondamentalista o peggio (ma pure cristiani e israeliani non
scherzano); le democrazie entrano in crisi; il mondo non ha più potenze
“complici” ma ordinatrici; prevale il caos e l’anomia; la destra risorge non
più nelle forme criminali e marginali (che pure ci sono, come ci sono alcuni
fessi che da Torino in questi giorni vanno sulla Piazza Rossa), ma attraverso
populismi illiberali e “democrature” (democrazia più dittatura), che paiono
avere il vento in poppa, essendosi affermate in Russia come in Turchia (grande
Paese della NATO), in Ungheria come in Polonia, in Cechia e Austria, ed essendo
all’attacco ieri in Francia e oggi in Italia. La loro forza è la nostra
debolezza: la nostra incapacità di tenere insieme l’istanza del governo forte e
quella della democrazia socialmente aperta; il riformismo più pragmatico e un
programma di mutamento epocale più radicale. La forza di nazionalismi e
populismi è in gran parte “di rimbalzo”: è figlia dell’incapacità della
sinistra di affrontare crisi epocali immani, che potrebbero persino portare
semidittature e guerre terribili. E invece guarda qui che cosa facciamo in
Italia come sinistra. La storia ci condannerà se non ci diamo una regolata di
180 gradi. Ma questa “regolata” è ora molto difficile.
Mi
sembra che nelle tue riflessioni tu imputi una parte non trascurabile della
fine del socialismo alla sua propensione materialista. Ammesso che io abbia
inteso bene, vuoi spiegare un po’ meglio questa ipotesi? Può avere un senso un
incontro tra le correnti progressiste cristiane e quelle socialiste più
liberali (ciò che ne rimane), anche alla luce dell’attuale pontificato?
Il materialismo a sinistra si è manifestato
in varie forme. Una è quella classica, secondo cui siamo solo – come ho sentito
una volta dire a Toni Negri, ma come avrebbe sottoscritto e sottoscriverebbe
ogni marxista, ed anche quasi ogni seguace della filosofia analitica e ogni
ateo - “un mucchietto di atomi”. Una
seconda forma, che accomunava i comunisti stalinisti come post-stalinisti, era
il vedere l’economia non solo come dominante, ma come qualcosa che si misura
esclusivamente o almeno essenzialmente in termini quantitativi (chi produce di
più, chi ha più tecnologia, chi ha più missili in cielo, chi ha più bombe
micidiali, eccetera). Una terza forma, che in certo modo è un corollario, però
decisivo, della seconda, è il materialismo etico, ossia la condivisione, ai
vertici ma spesso anche alla base, della scala di valori, cioè del consumismo,
dell’egoismo e dell’edonismo della borghesia. Infine si ha - come quarta forma
di materialismo - quello che nel pensiero politico è detto “realismo politico”.
I comunisti “leninisti” o stalinisti hanno
sempre preso alla lettera il discorso sul
“mucchietto d’atomi”. Che cosa importa se per raggiungere un alto fine o anche
semplicemente uno sviluppo forte e augurabile noi dobbiamo far fuori migliaia o
milioni di persone, non solo in una guerra civile o rivoluzione di popolo
(e passi), ma tramite plotoni d’esecuzione, gulag e quant’altro? (Naturalmente
oltre a un materialismo economico sull’altro versante abbiamo avuto il
biologismo, che “aiutando la natura” aveva idee sterminatrici verso etnie pretese
marce, nemiche o inferiori). Invece io ritengo che l’uomo dovrebbe agire - ci
sia “Lui” o meno: e per me “qualcosa c’è” - “come se Dio esistesse”. Pensarla
così, “come se Dio ci fosse”, è l’opposto della secolarizzazione, che invece “ragiona”
sempre “come se Dio non ci fosse”, nei diversi ambiti. Ogni essere umano ha, in
altre parole - secondo me - un valore infinito; anzi, ha l’infinito in fondo al
cuore, fosse egli anche l’ultimo mascalzone; e solo se non ci sia altra via di
scampo per non essere fatti fuori noi stessi, si può uccidere e persino fare
violenza a chi ha lo spirito infinito nel cuore. Se fosse stato compreso ciò,
molti “crimini contro l’umanità”, sui diversi fronti, sarebbero stati evitati.
Da Stalin a Mao e a Pol Pot il materialismo impedì di comprenderlo. Il sadismo
fu molto aiutato dalla teoria del “mucchietto d’atomi”, che non vede il divino
nell’umano, quantomeno come istanza a priori.
Inoltre il
materialismo economico ha portato a privilegiare sempre il dato
quantitativo. La gara col mondo
capitalista era a chi produceva di più, a chi mandava più satelliti, e così
via (gara oltre a tutto persa). I rapporti di produzione diventavano secondari.
Ma qui era il germe della “mala identificazione” tra socialismo e capitalismo
di stato: tutto quel modo di vedere le cose che portava gli anticomunisti
qualunquisti a dire che la differenza tra capitalismo e comunismo era che il
primo era lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e il secondo sull’uomo dell’uomo.
Dapprima si voleva cominciare dando a ciascuno lo stesso salario, con differenze
minime, come quelle - diceva Marx nel 1871 e Lenin in Stato e rivoluzione nel 1917 - tra operaio semplice e operaio
specializzato. Ma poi si pensò che così non funzionava, e si introdussero forme
sempre più tremende di cottimo (di cui lo stakanovismo era espressione), o le
dacie per i capi, persino con negozi per loro. Oppure si reintrodusse il
capitalismo privato all’ombra del partito dominante. Invece il problema del
mettere al primo posto non la logica “materialistica” della merce (chi ne fa di
più è il migliore), ma la qualità più umana dei rapporti di produzione, è decisivo.
Il socialismo può essere inteso in tanti modi, ma dovrebbe essere il sistema in
cui il lavoratore non è più, almeno primariamente, FORZA LAVORO, energia
lavorativa che si vende sul mercato (sia che la compri un privato o una
burocrazia di stato), ma è PERSONA; e la prova che non è primariamente FORZA
LAVORO bensì PERSONA non è il porre un burocrate di stato al posto del padrone,
come se il dato notarile della proprietà fosse primario, ma il verificare
empiricamente che il lavoratore sul luogo di lavoro sia padrone, o almeno
compartecipe. Naturalmente ci sono problemi di efficienza da considerare, ma
anche da non porre al primo posto (lo “sviluppo” ha da essere “sostenibile”).
Intanto chi lavora deve potersi organizzare liberamente e protestare (e chi
glielo impedisce è un reazionario, anche se fosse un fondatore del partito
comunista). Inoltre l’azienda dovrebbe almeno essere cooperativa. O almeno
l’addetto dovrebbe partecipare agli utili. O almeno dovrebbe avere suoi
rappresentanti elettivi, fossero pure di minoranza, nei consigli
d’amministrazione. Invece il materialismo economico ha privilegiato su tutto la
quantità di produzione, e così fa non solo nel “comunismo al potere”, ma anche,
molto spesso, nelle socialdemocrazie, che sono quasi sempre la faccia
legalitaria e pacifica dello stesso approccio indifferente alla democrazia
operaia, senza la quale però l’idea socialista è una roba che fa ridere.
Consegue un materialismo morale, che registra anche tra i comunisti, e tra
innumerevoli cittadini ufficialmente tali, dentro e fuori dai paesi del
socialismo reale, la stessa scala di valori - individualistici, di carriera e basati
soprattutto sui soldi, consumisti e di piccolo cabotaggio - prevalente nella
borghesia e piccola borghesia: il che fa scattare a favore del modo di essere
borghese la logica della “Grecia soggiogata dai romani che ha soggiogato il feroce
nemico romano” (dopo il 146 a.C.);
in altre parole la scala di valori del mondo capitalista seguita ad essere
prevalente in campo comunista, e ciò alla fine fa la differenza. Il
capitalismo, rimasto o tornato presto prevalente nei cuori, alla fine torna a prevalere
anche nel mondo sociale. E infatti dopo quel preteso “socialismo” è tornato il
“capitalismo”.
Infine il materialismo è sotteso a quello che si chiama “realismo politico”, che non vuol dire che si deve essere “realisti”
(il che è ovvio), ma che la politica si
basa solo sui rapporti di forza, per cui “avere ragione” significa “prendere il
potere”: ovviamente, se è possibile, con le buone, legalmente; ma
altrimenti come si può: con il fucile, con la pistola o col mitra, col colpo di
stato o la rivoluzione e così via; non solo quando le circostanze storiche lo
impongono per evitare che i lavoratori e i socialisti o comunisti siano massacrati
dal “nemico” sociale e politico loro, ma ogniqualvolta si possa. Così si arriva
alla dittatura, ben presto burocratica, non appena sia possibile e quando sia
possibile, e questa ben presto diventa dittatura su tutti, in primis sui
lavoratori stessi. Invece si dovrebbe capire che “il fine” non può mai essere
sacrificato “ai mezzi” senza abortire. Si dovrebbe controbilanciare il realismo
in senso etimologico con il teleologismo (finalismo), ossia con il restare se
non “fedeli al fine” (il che è spesso impossibile), almeno “attaccati” ad esso,
mai separati “di fatto” da esso. Perciò se tu, per il fine, mi impedisci di
andare in piazza e di dire la mia liberamente, o di scioperare quando credo, e
così via, mi stai certissimamente prendendo per i fondelli: in buona fede se sei
uno stupido; e più spesso perché sei un autoritario fottuto, un padrone per
vocazione mancato, o occulto (o peggio). Se Garibaldi avesse visto i carri
armati contro un popolo, si sarebbe armato per andarlo a difendere
(naturalmente lo avrebbe fatto pure con gli spargitori di napalm in Vietnam).
Ma colui che privilegia la “logica” del “prendere il potere” e “mantenerlo a
ogni costo”, si fa “ingannare” dal proprio stesso “sottile” strumentalismo. Con
una logica idealistica, che non sia disposta a vedere l’A, B, C dell’Idea come
qualcosa che si può sacrificare al Moloch di non so che potere, questa
distorsione - di cui anche molti di noi sono stati vittime in certe fasi - non
sarebbe stata possibile. Ma per questo ci
sarebbe voluto più idealismo etico e molto minor materialismo (filosofico, etico,
economico o politico). Anche questa è una grande lezione di filosofia
politica che mi sembra di avere, faticosamente, appreso, per sempre, dalla
storia.
Su ciò in effetti i punti di contatto tra
idea socialista e cristianesimo potrebbero essere molti, e il francescanesimo
di questo pontefice potrebbe aiutare moltissimo (anche se io maliziosamente
temo che esso sarà una parentesi nella storia della chiesa; ma noi dovremmo
cercare di farne tesoro).
Purtroppo la scena è avvelenata dalla sempre
più diffusa cultura o mentalità della secolarizzazione, che io respingo al pari
- ora - di quel che ha appena detto, a modo suo, Roberto Calasso nel
recentissimo interessante libro L’innominabile
attuale (Adelphi, 2017). Viviamo in un mondo senz’anima o quasi. Spezzoni
di fedi o movimenti morti si scontrano con un pragmatismo da quattro soldi, a
destra, a sinistra e al centro. Ho letto pochi mesi fa il libro Avanti di Matteo Renzi, un leader che come
sai per me è stato una grande speranza, tanto che ritengo una sciagura per il
Paese la sconfitta delle sue riforme nel referendum del 4 dicembre 2016. Renzi
è un cattolico democratico di sinistra, ma se tu cerchi nel suo libro un minimo
di elaborazione di tutte queste idee - magari una qualche riflessione anche
estemporanea sul comunitarismo sociale di Mounier, o sulla democrazia
industriale di Olivetti, o sulla teologia della liberazione, o sul rapporto tra
cristianesimo e socialismo - non ci trovi niente. Appena qualche eco di Padre
Chesterton o dei boy scout o, in qualche cenno, di La Pira. E per il resto
tanto pragmatismo spicciolo, anche ammirevole, da tipo che sta “sui problemi”,
sul concreto, ma che non ha il senso della Prospettiva: non ha una visione un
po’ in grande del futuro, un’idea sul ponte - magari di liane - che può
prefigurarlo. La nostra epoca purtroppo è in grandissima parte così. “Tutto fa
brodo”, in essa. Forse ci vorranno anni e anni per uscire da una tale crisi
epocale, che sembra vanificare la “Prospettiva”. Ma la ricerca deve seguitare.
Seppure con timore e tremore, da viandanti nella notte.
Quale dovrebbe essere il messaggio
principale di chi non vuole rassegnarsi al tramonto degli ideali di fratellanza
tra gli uomini? Come si potrebbe realizzare concretamente un ideale di
giustizia sociale nel XXI secolo?
I
valori di spiritualità, solidarietà,ecologia,
libertà e governabilità paiono a me le coordinate fondamentali di un nuovo
pensiero di liberazione umana, se vuoi di un nuovo socialismo.
Il primo valore non è della e nella
politica, né tantomeno dello Stato, che dev’essere laico. Ha a che fare con
un’auspicabile rivoluzione culturale, che a mio parere dovrebbe portare ad
un’apertura alla dimensione dell’infinito e dell’eterno nella mente umana, come
un a priori inconscio da scoprire e sviluppare nella coscienza (come in Jung). Può
implicare o non implicare il riferimento a “Dio”, come persona o essere
trascendente. Quel che vale è cogliere l’infinito e l’eterno come una
disposizione insopprimibile nell’essere umano, abbia o meno ciò un fondamento
ontologico, “d’Essere”. Ma bisogna sentire e sviluppare tale orientamento, o
almeno mi auguro che accada, così da cogliere la fratellanza tra esseri nell’Essere: l’infinito o eterno immanente
in noi, o “anche” al di là di noi (come un dato comunque antropologico). Ciò è
detto in alternativa al materialismo di cui, su tuo invito, ho parlato: un
materialismo marxista o antimarxista, che per me ha le conseguenze psico-morali,
psico-politiche e psico-economiche di cui ho detto.
Il secondo valore - la solidarietà, o la
“fratellanza” - è alternativo sia al punto di vista comunista che a quello capitalista.
Marx aveva una visione polemologica della storia (come lotta tra le classi,
ritenute irriducibilmente antagonistiche). Certo la cosa aveva a che fare con
la dialettica di Hegel (tesi antitesi e sintesi), ma letta al modo “negativistico”,
ossia avant tout di negazione della
realtà esistente, proprio della sinistra hegeliana, da cui Marx veniva (pur
criticandola e irridendola nel 1844/46). Invece la dialettica di Hegel vedeva
un Logos - di nuovo l’infinito, l’eterno immanente in noi - che circolava tra i
contrari come nella loro conciliazione; o, come avrebbe detto Eraclito nel V
secolo a.C., “armonia dei contrari come quella dell’arco e della lira”.
Insomma, le opposizioni frontali vanno bene, ma nell’unità di tutti e del tutto
che le comprende come parti complementari. Con la visione marxiana e poi
rivoluzionaria, classe contro classe, abbiamo visto il finale (la dittatura,
presto oppressiva e burocratica): un finale che si è visto e rivisto tal quale
tante di quelle volte che a mio parere solo gli idioti possono non prevederlo
(o quelli che tali si fingono per una specie di autoturlupinatura ideologica,
mentre si fanno gli affari loro, e intanto indulgono a una vuota e vieta
retorica, intrinsecamente antimarxista). Da ciò per me consegue quello che
Morin chiama la necessità di “favorire
tutte le soluzioni unitive” (dai rapporti di produzione cooperativi agli
Stati Uniti d’Europa). I conflitti si fanno per trovare soluzioni che vadano
bene a entrambe le parti in lotta, magari obtorto
collo: non già per eliminare una di esse “facendola fuori”. Anche se a un
certo punto dello sviluppo si slitta
da un sistema o civiltà all’altro. Dalle crisi economiche, quantomeno d’oggi,
si deve uscire insieme: datori di lavoro e prestatori d’opera. Bisogna trovare
il modo di andare avanti tutti insieme, senza cedere all’egoismo altrui, ma
neanche pensando di abolirlo ammazzando “gli egoisti”, che sono troppi e anche
tra noi. Pur scontrandoci necessariamente, e liberamente, dobbiamo imparare a
essere naviganti che sanno di viaggiare su una stessa nave e che nelle grandi
difficoltà debbono cooperare per non affondare insieme.
Molti problemi sono oggi trasversali,
dovrebbero interessare le maggiori parti in lotta: dagli Stati Uniti d’Europa
alla buona qualità della vita”, ripulendo
acqua e aria innanzitutto, e salvaguardando la buona salute della nostra e
delle altre specie, dalle più prossime alle altre o a molte altre.
La fratellanza, che è poi questo, richiede
però la libertà: se no diventa una caserma. A partire dall’imprescendibile
libertà liberale, di cui la divisione e il bilanciamento dei tre poteri sono
quintessenza. La libertà ha poi a che fare con diritti della persona sempre più
ampi, che sono tutti quelli possibili e immaginabili che non danneggino altri.
Di sé ciascuno deve poter fare quel che vuole.
Ma pure la
governabilità è un valore molto forte. Viviamo in un mondo in cui la globalizzazione
economica e anche la finanza tolgono spazi nell’economia interna a tutti gli
Stati; in cui tutti vanno necessariamente a stare a casa di tutti (o ci
provano), e in cui sono saltati i contrappesi mondiali - tipo il condominio tra
superpotenze avversarie, ma al tempo stesso regolatrici di tutti i giochi, che
c’era stato dal 1945 al 1989 tra americani e russi. In un mondo del genere -
per indispensabile controtendenza alla crescente anomia - lo Stato forte
s’impone. Se arriva da destra si chiama o dittatura nazionalista o
“democratura”, che spunta dietro al “sovranismo”. Ma se lo “Stato forte” - la
forte governabilità - arriva da sinistra è sufficiente una democrazia
decidente, basata o su un presidente del governo elettivo o su un premierato “all’inglese”.
Secondo me se subisce scacco matto la seconda via, che il 4 dicembre 2016 è in
effetti fallita chissà per quanti anni in Italia, arriva la prima.
Su tali basi - riscoperta dell’infinità nell’essere
umano, solidarietà, ecologia, libertà e governabilità - si possono poi affrontare i diversi problemi
concreti, generali o specifici.
La “soluzione unitiva” deve valere - a
livello di continenti - tra Stati. Il federalismo falso vuole disgregare gli
Stati con la scusa o convinzione di liberarli, ma quello vero è SEMPRE UNITIVO,
cioè federativo “tra Stati”. Abbiano bisogno degli Stati Uniti d’Europa. Ecco
una grande idea contro la destra, che invece è sempre nazionalista o
sub-nazionalista.
Dobbiamo regolare i flussi migratori, dando
regole comuni, a livello europeo e all’interno. Ci vuole la capacità
d’accoglienza (l’opposto delle “banlieue”); bisogna garantire lo “jus soli” o
“culturae”, senza di che anche il fermare gli scafisti in Libia non è
compensato da nulla di buono per la povera gente; dobbiamo garantire, insieme a
Unione Europea e ONU, che i centri di accoglienza in Libia o altrove non siano
lager; dobbiamo aiutare i popoli più poveri a casa loro, ma con imprese “in
loco”, emulando in ciò i cinesi in Africa, ma con più umanità.
Dobbiamo andare incontro ai disoccupati e
sottoccupati, anche con un reddito minimo garantito: reddito che con la grande
disoccupazione tecnologica che pare strutturale potrà imporsi. Naturalmente con
tutte le cautele del caso per evitare che molta gente si prenda il “reddito
minimo garantito” rifiutando lavori che potrebbe fare oppure facendo lavori in
nero e intascandolo illegalmente. In generale ascoltare il giuslavorista Pietro
Ichino, già mio collega di Facoltà a Milano, mi parrebbe opportuno in tali
ambiti.
Il problema che abbiamo è che a sinistra e
nell’area lavorista tali istanze sono condivise (o respinte) “in ordine
sparso”: alcune sì e altre no. Manca l’idea di un grande programma della
sinistra nelle sue varie articolazioni e in vista della sua unità. Questa
confusione delle lingue fa il gioco del populismo e del nazionalismo più o meno
xenofobo. L’odio di fazione a sinistra è più forte della solidarietà e persino dell’interesse
comune. Ne usciremo? – Sì, ma quando?
In conclusione, cosa dobbiamo imparare dalla
Rivoluzione e quali indicazioni possiamo ancora trarre per il futuro?
Resta vero che dobbiamo puntare a un altro tipo di
civiltà, ad una sorta di salto di qualità nella storia, perché il mondo in cui
viviamo è carico di mali terribili e strutturali. Ma dobbiamo farlo: 1) modificando
in primo luogo la mentalità dominante, senza di che si costruisce sulle sabbie
mobili; 2) guardandoci dallo statalismo economico, che funziona solo con un
barbarico e indesiderabile terrore (quando funziona), ossia quando procede per
amputazioni invece di curare i mali dell’organismo; 3) tenendo sempre
fermissimo il legame tra democrazia “liberale” e istanze di socializzazione; 4)
garantendo per legge governi democratici “forti”, quantomeno di legislatura: assetti
che solo sistemi elettorali maggioritari a due turni possono darci.
Infine dobbiamo comprendere che il socialismo
del futuro può essere solo rosso-verde, cioè che ormai esso deve sposarsi con
il più audace, seppure realistico, ecologismo, che privilegi la buona qualità
della vita su tutto, rendendo quanto più possibile liberi da “pollution” acqua,
aria e anche città, e facendo tornare il verde tutto intorno a noi.
Ma tutte queste istanze sono ben lungi dal
coagularsi. E infatti il vento in poppa sembrano averlo le forze
dell’antisocialismo e dello sviluppo “selvaggio”: il che non promette niente di
buono.