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Il futuro del centro-sinistra
Gramsci e l'Italia
Egidio Zacheo

 

                     1. - La ricorrenza dell' 80° anniversario della morte di Antonio Gramsci va colta come una opportunità per cercare di capire il nostro Paese, le ragioni profonde delle nostre difficoltà, dei nostri ritardi politici e civili. Conveniamo tutti sul fatto che dobbiamo ripensare la nostra vita pubblica, che l' Italia deve darsi un nuovo asse attorno al quale construire il suo futuro. Ma dobbiamo convenire anche sul fatto che il nostro futuro non si costruisce se non conosciamo il nostro passato.

Gramsci è un pensatore di genio che proprio in questo ci è di grande aiuto: perchè ha molto riflettuto sulla nostra storia, della quale ha saputo cogliere gli snodi fondamentali e i molti problemi che attendono  da lungo tempo di essere risolti. Bisogna aggiungere, però, che la centralità di questo " tema" nella riflessione gramsciana non è stata ben colta. Le celebrazioni che di decennio in decennio si sono susseguite non sempre hanno saputo evitare di celebrare il Nostro soprattutto come un dirigente politico capace, proprio per lo spessore della sua figura, di suscitare contese politiche ormai del tutto sterili. Si è celebrato spesso il Gramsci politico, utlilizzabile o per una pregiudiziale preferenza o per una pregiudiziale avversione, per giustificare le scelte politiche contingenti di una parte o per essere esposto alle critiche contingenti della parte avversa.

La verità è che il Gramsci " politico"  ci può dire ormai molto poco. La sua attualità non può risiedere qui , troppo diversa è l' Italia del suo tempo da quella del nostro tempo. L'uomo politico va valutato nel contesto della sua epoca storica.  La vecchia Italia liberale che permetterà l'avvento del fascismo non esiste più e non sesistono più le forze sociali e le soluzioni con cui Gramsci intendeva cambiarla. Per fare un esempio: l' analisi della questione meridionale , formulata nel suo breve scritto del 1926, è oggi del tutto inutilizzabile (del resto, lo stesso Gramsci in una delle sue lettere dal carcere definitiva tale scritto << rapidissimo e superficialissimo>> . Il mondo bracciantile lì indicato non esiste più da tempo , come non esiste più il blocco agrario egemone, nè gli intellettuali meridionali mosche cocchiere funzionali alla conservazione dello status quo , nè la possibilità di un rivolgimento radicale tramite un' alleanza tra la classe operaia del Nord e i contadini del Sud. Con la fine di quel tempo è venuto meno anche il valore della proposta politica.

L'attualità e la grandezza di Gramsci vanno cercate altrove. E questo altrove non è nemmeno la sua tempra morale - il suo martirio - testimoniata dalla lunga permanenza nelle carceri fasciste e dalle Lettere dal carcere. Egli stesso, d' altronde , provava un certo fastidio nei riguardi di tentativi di " utilizzarlo " come martire del fascismo perchè si è sempre considerato - anche nei momenti più duri del regime carcerario e di maggiore precarietà della sua salute-  un leader politico che aveva fatto delle scelte nette per condurre una battaglia  che poi aveva perso. Dunque non è un martire, ma un politico sconfitto.

Pur conosciuto soprattutto come l’autore delle " Lettere dal carcere" ,  bisogna dire che nemmeno queste ci consegnano il vero nucleo della sua grandezza. Ci sono qui , naturalmente, il Gramsci scrittore di valore, il valore letterario di questa sua corrispondenza apparentemente rapsodica e occasionale ma che ubbidisce, invece, ad un percorso intellettuale coerente, ma non ci sono  la sua vera grandezza e la sua genialità.

 

                  2. - Facendo un bilancio complessivo delle celebrazioni gramsciane dell' anno appena concluso, si potrebbe dire che sul Gramsci "politico” , "martire" e "letterato", per la verità non si sia indugiato molto. Semmai è emerso un altro limite, sempre presente nell' approccio all' opera di Gramsci: quello dello smembramento del suo pensiero in tanti singoli, isolati temi ognuno dei quali si esaurisce in se stesso e non riesce a cogliere l' elemento unitario che tutti li lega. Abbiamo allora le dispute filologiche sul marxismo di Gramsci, sul suo leninismo, sul suo materialismo o sul suo idealismo e storicismo , sul suo positivismo o antipositivismo ; oppure le dispute storico-teoriche sull' egemonia , sul partito, sulla democrazia diretta, sull' assemblea costituente.  Si è trattato spesso di una fatica grande ma inutile perchè Gramsci è fuori dagli schemi e dalle scuole, non fa uso di stampi preconfezionati che non gli servirebbero comunque a nulla dato che dovrebbe applicarli poi ad un organismo storico - quello dell' Italia - unico, non replicabile e originalissimo.

Gramsci è stato un grande teorico, un pensatore di genio. Nel coro dei leaders politici e dei pensatori del suo tempo, la sua voce è la più alta  per molti aspetti inquietante perfino per la sua parte politica, per il suo stesso partito (del quale non è nemmeno sicuro che avesse la tessera o che ne fosse considerato membro) . Fu un grande solitario e uno sconfitto, ma, commemorandolo a Parigi a un mese dalla morte, di lui Carlo Rosselli ebbe a dire : << In Antonio Gramsci l' umanità ha perso un pensatore di genio e la rivoluzione italiana il suo capo >> .

Ora che non abbiamo più l' assillo storico e ideologico di " fare la rivoluzione" perchè con la Resistenza e la lotta di Liberazione il nostro Paese è entrato nel novero delle grandi democrazie, dove continuano a stare la genialità e l'attualità di Gramsci? Senz'altro nei " Quaderni" perchè lì è contenuta una riflessione ampia , originale, non appiattita sul contingente.

Chiuso nelle carceri fasciste, gravemente ammalato , sconfitto come capo politico, senza il sostegno del suo partito, egli sente urgente il bisogno di approfondire, studiare, di fare qualcosa << für ewig >>. Pensa di concentrarsi su quattro temi apparentemente molto distanti dai problemi reali: 1. << una ricerca sulla formazione dello spirito pubblico in Italia del secolo scorso; in altre parole, una ricerca sugli intellettuali italiani, le loro origini, i loro raggruppamenti secondo le correnti della cultura, i loro diversi modi di pensare ecc. ecc. >> ; 2. << uno studio di linguistica comparata>> ; 3. << uno studio sul teatro di Pirandello e sulla trasformazione del gusto teatrale italiano che il Pirandello ha rappresentato e ha contribuito a determinare>>; 4. << un saggio sui romanzi di appendice e il gusto popolare in letteratura>> (1) .

Trasferito nelle carceri di Turi nel novembre del 1930, precisa ulteriormente gli argomenti da approfondire dando una particolare sottolineatura al tema degli intelletuali. Così scrive alla cognata:  << Mi sono fissato su tre o quattro argomenti principali, uno dei quali è quello della funzione cosmopolita che hanno avuto gli intellettuali italiani fino al Settecento >> . E, ancora dopo, nel 1931, ribadisce, precisando uleriormente : << Uno degli argomenti che più mi ha interessato in questi ultimi anni è stato quello di fissare alcuni aspetti caratteristici nella storia degli intellettuali italiani>> (2).

Non si tratta di divagazioni intellettualistiche, nè del cedimento di una persona che , isolata dal mondo, tende a fuggire dalla realtà, nè di stranezze tipiche della tradizione intellettuale italiana. Per Gramsci si tratta delle questioni fondamentali attraverso le quali, da una parte, <<approfondire il concetto di Stato>> e, dall' altra, per rendersi << conto di alcuni aspetti dello sviluppo storico del popolo itailano>> (3). Lo studio degli intellettuali e della cultura gli serve insomma per capire l' Italia, le peculiarità della sua storia a partire da quella più importante della netta separazione fra la sua politica e, appunto, la sua cultura, fra la chiusura gretta della politica italiana e il carattere cosmopolitico della sua cultura. Nelle note sul Machiavelli indica la causa lontana di tutto questo e il rovello teorico che lo accompagna. Nella riflessione del Segretario fiorentino trova << la conferma>> di ciò che ha rintracciato in altre letture e in altri autori e cioè che << la borghesia italiana medioevale non seppe uscire dalla fase corporativa per entrare in quella politica perchè non seppe completamente liberarsi dalla concezione medioevale-cosmopolitica rappresentata dal Papa, dal clero e anche dagli intellettuali laici (umanisti) , cioè non seppe creare uno Stato autonomo, ma rimase nella cornice medioevale feudale e cosmopolita>> (4).

Le conseguenze di quel fallimento sono state la decadenza politica del nostro Paese in tutta la sua storia successiva , l' incapacità di esprimere una forte e vasta  concezione nazionale e il carattere cosmopolitico e astratto della nostra cultura. Umberto Cerroni ribadisce come proprio, dopo il fallimento del Cinquecento, la politica italiana si slega << da ogni universalismo intellettuale e la cultura da ogni radicazione politica. Nella politica e nella vita morale l'Italia fu preda del guicciardiniano " particulare" e nella cultura inseguì un universalismo cosmopolitico che presto degenerò in astrattismo e retorica. Gli intellettuali si separarono sempre più dalla  concretezza storico- politica e i politici dagli ideali universali >> (5).

Tuttavia, per Gramsci, la tradizione cosmopolitica della cultura italiana ha anche un aspetto positivo: diventa, anzi, la risorsa che consente di guardare oltre il limite del suo presente storico, oltre il muro eretto dal fascismo.  E’ la risposta alla domanda che lo angoscia, all’assillo di rintracciare la via d’uscita da un regime che appariva granitico ed invincibile. Si chiede se davvero <<il moto politico che condusse all’unificazione nazionale e alla formazione dello Stato italiano deve necessariamente sboccare nel nazionalismo e nell’imperialismo militaristico>>. Poiché <<si può sostenere che questo sbocco è anacronistico e antistorico (cioè artificioso e di non lungo respiro)>>, <<esso è realmente contro tutte le tradizioni italiane, romane prima, cattoliche poi>> le quali, appunto, sono cosmopolitiche e tali da spingere Gramsci a dire che <<la “missione” del popolo italiano è nella ripresa del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella sua forma più moderna e avanzata>>. Che per lui è quella rappresentata dal proletariato moderno in generale e da quello italiano in particolare, il cui internazionalismo appare proprio l’erede legittimo della tradizione universalistica italiana: la quale <<si continua dialetticamente nel popolo lavoratore>>, e <<il popolo italiano è quel popolo che “nazionalmente” è più interessato a una moderna forma di cosmopolitismo>> (6).

 

                         3.- Tutti i temi trattati nei “Quaderni” convergono verso un unico punto: l’Italia. L’Italia  è il suo problema. Per risolvere il quale Gramsci interroga il nostro passato. Va a fondo nell’indagine sulle  ragioni della nostra tarda unificazione, cogliendo l’anomalia,  la contraddizione vera dell’intera storia d’Italia: quella tra la sua straordinaria precocità culturale e il suo grave ritardo politico. Umberto Cerroni è  stato lo studioso che più  e meglio di altri – cucendo tra loro, in un ordine coerente, tutti gli spunti che i “Quaderni” forniscono – ha ricostruito il processo che ha determinato la separazione, indicata da Gramsci, fra cultura e politica nell’Italia moderna.

La nostra è la storia unica e dolorosa di una nazione precoce e di uno Stato ritardato, di una eccezionale precocità intellettuale e culturale e di un drammatico ritardo politico. E’ questa, appunto, la nostra anomalia: <<è tutta compresa nella mancata saldatura fra la straordinaria capacità intellettuale, precoce e anticipatrice, e la secolare impossibilità di costruire un circuito politico unificante che in pari tempo diffondesse quella capacità nello spirito generale della nazione e desse gambe, energia popolare e forza politica alla cultura>> (7). Abbiamo avuto la prima lingua moderna, la prima arte moderna, la prima teoria moderna del diritto e dello stato. Con i glossatori abbiamo avuto la prima riflessione sistematica sulla regolazione tra singoli e tra gli Stati; con le tavole amalfitane, il primo codice marittimo; già col Decreto di Graziano (XII secolo), da cui ha origine il Corpus iuris canonici,  la separazione del diritto ecclesiastico dalla teologia, ma non abbiamo avuto una tempestiva unificazione politica e statuale.

Tra tutte le nazioni europee moderne è successo solo a noi (e per altre ragioni alla Germania): Francia ed Inghilterra, pur arretrate culturalmente, avranno per tempo il loro Stato nazionale. A noi ciò fu impedito dalla presenza dello Stato della Chiesa perché in Italia – scrive Cerroni – la Chiesa non era soltanto <<una poderosa costruzione spirituale-religiosa>>, ma aveva anche <<uno Stato temproale che occupava il centro esatto della penisola. Difendendo il potere religioso qui la Chiesa doveva difendere altresì la sua sede fisica e politica>>. Lo scontro con essa, necessario per l’unificazione nazionale, fu sistematicamente perso dalle forze laiche.

La prima sconfitta catastrofica per il futuro dell’Italia fu quella di Federico II.  Egli compì, già agli inizi del XIII secolo, il primo tentativo al mondo di fondare uno Stato nazionale, di unire al Regno di Sicilia il resto d’Italia. Una unificazione dal Sud verso il Nord – sottolinea Cerroni – che vede protagonista proprio il Sud con una cultura nuova fecondata dal contatto con genti estranee alla Germania, dall’incontro con la cultura araba, con la filosofia di Averroé che ci fa uscire dal Medioevo, che ci consegna un mondo conoscibile razionalmente e che nutrirà il pensiero di Dante e Tommaso d’Aquino. A questo Stato da unificare Federico II fornisce già una organica sistemazione giuridica con le Costituzioni di Melfi del 1231, scritte dai più grandi giuristi del tempo: Pier delle Vigne, l’arcivescovo Giacomo di Capua, Roffredo di Benevento. Sono queste, per Cerroni, un documento grandioso di modernizzazione post feudale, in cui è prefigurata l’organizzazione statale su basi moderne: la sovranità laica, la formazione di un ordine giudiziario e di una pubblica amministrazione autonomi, l’organizzazione finanziaria e fiscale centralizzata, il principio della convivenza di più razze e più religioni.

         Il fallimento del tentativo di Federico II costituisce, come già detto, un disastro storico e civile. Restammo per molti secoli senza Stato perché dopo fallirono anche tutti gli altri tentativi. La nostra fu, così, la storia di tanti fallimenti e, come dice Cerroni con una definizione molto bella, di tante <<repubbliche perdute>>. Egli ci fa l’elenco di quelle su cui ragiona anche Gramsci: <<1) lo Stato assoluto di Federico II, in primo luogo, rinverdito da Manfredi nel XIII secolo; 2) lo Stato visconteo che nel XIV secolo penetra nel centro della penisola fino a Spoleto; 3) l’alleanza fra Napoli, Milano e Firenze nella così detta Guerra degli Otto Santi sul finire della emigrazione avignonese dei papi; 4) la repubblica partenopea del 1799; 6) la repubblica napoleonica d’Italia; 7) la repubblica romana del 1848>>. A questi, dice, si potrebbero aggiungere altri tentativi di espansione territoriale: <<lo Stato di Carlo d’Angiò dopo la fine della minaccia imperiale, l’espansione della repubblica di Venezia ai primi del Seicento, il ducato di Castro distrutto dalle milizie pontificie nel 1649, lo Stato di Gioacchino Murat>>.  Col falllimento di tutti questi tentativi, la politica italiana uscì sempre più dal proscenio europeo <<involgarendosi nelle competizioni particolaristiche e la cultura italiana si salvò solo allontanandosi dalla politica e vivendo comunque in un vuoto politico nazionale. E’ così accaduto che si è diffusa tra gli italiani una concezione della vita pubblica sostanzialmente cosmopolitica, cui corrispondeva un comportamento pratico individualistico. Tutte le più grandi energie intellettualli si concentrarono nella attività privata mentre la vita pubblica stagnava e degenerava nei piccoli antagonismi e nelle grandi infamie>>. Per questo la Chiesa ha potuto mantenere per secoli – <<unico caso in occidente>>, sottolinea Cerroni – il suo potere temporale al centro della penisola. E aggiunge:  <<Per secoli l’Italia restò spezzata in tre tronconi: un Nord frantumato in piccoli principati regionali, un centro dominato da uno Stato teocratico e un Sud unificato bensì in uno Stato, ma subordinato a dinastie straniere. Culturalmente la Chiesa - una entità ecumenica metà nazionale e metà politica – dominò incontrastata per cinque secoli>>. Dunque, la Repubblica che abbiamo perduto e che non abbiamo mai avuto è lo Stato Italiano <<della cui necessità storica si avverte sempre più coscienza>>  ma la cui costruzione è sistematicamente fallita (8).

 

                   4.- Nessun soggetto storico è riuscito a portare a conclusione questa impresa. In questo tentativo di costruzione statale – dice Gramsci – hanno fallito tutti: laici e cattolici. I laici perché hanno coltivato un sostanziale disprezzo per le masse, i cattolici per il condizionamento determinante della Chiesa di Roma, avendo questa sempre operato concretamente con la logica e per interessi di una potenza temporale permanentemente in concorrenza con le altre potenze temporali. Scrive Gramsci: <<I laici hanno fallito al loro compito storico di educatori ed elaboratori della intellettualità e della coscienza morale del popolo-nazione, non hanno saputo dare una soddisfazione alle esigenze intellettuali del popolo:  proprio per non aver rappresentato una cultura laica, per non aver saputo elaborare un moderno “umanesimo” capace di diffondersi fino agli strati più rozzi ed incolti, come era necessario dal punto di vista nazionale, per essersi tenuti legati ad un mondo antiquato, meschino, astratto, troppo individualistico o di casta>>. E aggiunge subito: <<Ma se i laici hanno fallito, i cattolici non hanno avuto miglior successo>>. Gramsci dà un giudizio sferzante, impietoso sulla Chiesa, la quale – sostiene - <<non vuole compromettersi nella vita pratica economica e non si impegna a fondo, né per attuare i principi sociali che afferma e che non sono attuati, né per difendere, mantenere o restaurare quelle situazioni in cui una parte di quei principi era già attuata e che sono state distrutte>>. E continua: <<Per comprendere bene la posizione della Chiesa nella società moderna, occorre comprendere che essa è disposta a lottare solo per difendere le sue particolari libertà corporative (di Chiesa come Chiesa, organizzazione ecclesiastica), cioè i privilegi che proclama legati alla propria essenza divina: per questa difesa la Chiesa non esclude nessun mezzo, né l’insurrezione armata, né l’attentato individuale, né l’appello all’invasione straniera>>. Per la sua grettezza ed egoismo, conclude Gramsci, essa è disponibile a sostenere qualsiasi regime politico, anche il più autoritario perché <<per “dispotismo” la Chiesa intende l’intervento dell’autorità statale laica nel limitare o sopprimere i suoi privilegi, non molto di più: essa riconosce qualsiasi potestà di fatto, e purchè non tocchi i suoi privilegi, la legittima; se poi accresce i privilegi, la esalta e la proclama provvidenziale>> (9).

         Quasi tutte le nostre anomalie, secondo Gramsci, incrociano questo vistoso peso storico e ognuna di esse deve essere valutata alla luce di una plurisecolare vicenda nazionale. La stessa questione meridionale, per esempio, da lui affrontata in modo assai diverso nel 1926, nei “Quaderni” diventa una anomalia da ricondurre ai ritardi complessivi del processo della nostra unità nazionale. In questo senso non è possibile ridurla alla questione del Sud e diventa invece una grande “questione Italia”, uno degli elementi peculiari dell’intero Paese. Con Francesco De Sanctis, con il Gramsci dei “Quaderni”,  l’analisi del Mezzogiorno non concede nulla alla chiusura meridionalistica e viene invece collegata ai grandi processi della formazione della coscienza nazionale. L’arretratezza –  la “malattia” – rappresentata dal Mezzogiorno è vista come una patologia dell’intero organismo italiano, che ha, sì, una sua incubazione specifica nel Sud, ma che attiene soprattutto all’incapacità complessiva di strutturare una convivenza nazionale di livello adeguato all’Europa civile e laica. La conclusione è che il nostro Paese, unitosi politicamente con grave ritardo (pur avendo creato con grande anticipo tutte le condizioni culturali, giuridiche, linguistiche per una sua unità), non avrebbe potuto non pagare tributi particolarmente elevati alla fragilità della sua identità storica, civile, politica determinata da tale ritardo.

 

        5.- Gramsci va ancora più a fondo nell’analisi e pone la questione della fine che ha fatto l’eredità culturale e politica lasciataci da tutte le realtà substatali preunitarie. Si chiede, in sostanza, che fine avessero fatto le tradizioni più significative e culturalmente valide delle piccole corti. Insomma, si pone la domanda, per nulla <<oziosa>>: <<Nella formazione dello Stato unitario italiano c’è stata “eredità” di tutte le funzioni politico-culturali svolte dai singoli staterelli precedenti o c’è stata, da questo punto di vista, una perdita secca?>> Cioè: <<accanto a ciò che fu guadagnato>> con l’unità politica del Paese, <<ci fu anche qualcosa di perduto?>>

Si è perduto certamente molto. Per fare qualche esempio con Gramsci, si è perduto molto dello spirito della buona amministrazione austriaca del Lombardo-Veneto o di quella dei Lorena; molto della tradizione <<orientale>> di Venezia; della tradizione intellettuale europea di Milano; molto dello spirito politico, artistico e culturale di Parma, Urbino, Mantova, Modena (10). Come riassume Cerroni, l’unificazione savoiarda dall’alto, per incorporazione, ha <<oggettivamente “scartato” dall’eredità nazionale tutta una serie di elementi culturali>>. Vi è stato <<una sorta di azzeramento della storia preunitaria, che ha emarginato l’eredità culturale delle componenti preunitarie, ha oscurato le cause del loro insuccesso e ha ridotto ad un livello locale e “dialettale” grandi tradizioni storiche come quelle federiciane, veneziane, genovesi, napoletane, siciliane, toscane, piemontesi>> (11).  Vi è un’ “Italia perduta” che Gramsci intende ritrovare e che si è persa a causa della convinzione che l’Italia sia nata solo con la sua unità politica, che, perciò, prima essa addirittura non esistesse.

Le conseguenze per la mancata tempestiva unificazione politica del nostro Paese sono state – e continuano ad essere – gravissime. La stessa cultura, così precoce, così raffinata, senza un oggetto storico-politico, statuale da fecondare, dopo il Cinquecento, inizia a sfaldarsi, ad alterarsi, a disperdersi in sterili astrattezze e fantasticherie. Il talento degli italiani, non rapportandosi con una realtà pubblica legittimata nella coscienza di ogni singolo, degenera in furbizia, in <<talentismo>>, in una specie di perversione del talento, che divaga nel privato ed è disponibile ad ogni tipo di corruttela, di estetismo e di universalismo astratto. Si tratta di una deformazione dell’ingegno indotta <<da una cultura non nazionale-popolare, non responsabile di uno Stato>>. Non si vuol dire – precisa Cerroni – che <<in Italia ogni ingegno diventa un briccone, ma che l’individualismo mina il carattere e la moralità dell’italiano>> (12). Dal suo canto, la politica, separata da una cultura nazionale, perde l’orizzonte dell’interesse generale e diventa miope, gretta, particolaristica, campanilistica, municipalistica.

Sta qui il tarlo della nostra vita pubblica: nell’anomalia storica – unica tra i Paesi moderni dell’Europa – della separazione profonda tra una cultura indifferente al destino della comunità e astrattamente universalistica, e una politica lontana dalla dimensione culturale. L’Italia diventa, e rimane, un Paese fatto di individui che non guadagnano la dimensione di cittadini, con una vita pubblica permanenentemente agitata e sregolata, guastata dall’impasto di due sovversivismi: quello delle classi subalterne e quello delle classi dirigenti, <<dal basso e dall’alto>>. Il sovversivismo dei subalterni è il risultato, appunto, dell’assenza, o debolezza, di una coscienza nazionale ed è correlativo – dice Gramsci - <<al “sovversivismo” dall’alto, cioè a non essere mai esistito un “dominio della legge”, ma solo una politica di arbitrii e di cricca personale o di gruppo>> (13).

La vera rivoluzione da vare, l’impresa storica da portare avanti, per Gramsci, è dunque quella di mettere in comunicazione, per così dire, tra loro cultura e politica: dare alla cultura concretezza e una comunità nazionale e alla politica respiro ideale, capacità progettuale. Possiamo senz’altro dire che, con la sua analisi, lucida e impietosa, dei nostri mali storici, egli indica anche il percorso da compiere per trovare il fondamento della nostra identità nazionale e le ragioni storiche del nostro stare insieme in un Paese moderno.

 

                                                                                        Egidio Zacheo

 

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