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Come si forma l’opinione pubblica secondo Walter Lippmann
Mascia Ferri*

Walter Lippmann (1889-1974), giornalista e saggista americano, ha contribuito in modo originale al dibattito sull’opinione pubblica, tanto da essere citato nella maggior parte dei testi di comunicazione. I suoi intensi studi iniziati alla Harvard University lo hanno portato prima a collaborare con il filosofo George Santayana, e poi a dedicarsi alla carriera giornalistica e politica al fianco del presidente degli Stati Uniti Thomas Woodrow Wilson.

Innanzitutto, sostiene Lippmann, l’uomo procede a semplificazioni solo di fronte a qualcosa di complesso che ha bisogno di essere capito. Questa affermazione potrebbe sembrare un’ovvietà, ma dovrebbe anche essere sottolineata nel momento in cui siamo interessati al processo di formazione dell’opinione pubblica. Per esempio, se vediamo un documentario sulla scissione nucleare, possiamo cambiare canale e non preoccuparci per nulla di trovare un vademecum di fisica, ma su alcuni argomenti che fanno parte del vivere sociale (contratti di lavoro, interventi militari, ordine pubblico ecc.), ognuno dovrebbe avere un’opinione. Questo è, secondo Lippmann, il motivo che spinge l’uomo a scegliere nella vita quotidiana singoli fenomeni “artificialmente” semplificati. I fenomeni complessi per antonomasia come l’evoluzione sociale - vale a dire le relazioni politiche ed economiche - non riescono, invece, ad essere sottoposti a un controllo sistematico e analitico né dal singolo uomo né dal legislatore. Essi si prestano, piuttosto, a un’interpretazione soggettiva e parziale: è come dire che un governo di sinistra può auspicare solo un riordino di sinistra, e un governo di destra solo un riordino di destra. Entrambi i governi non sarebbero lo stesso in grado di affrontare l’enorme sforzo di riordinare una società, sia per la complessità dell’oggetto sia per la scarsità dei mezzi cognitivi in loro possesso.

Per comprendere cosa significhi scarsità di mezzi cognitivi, bisogna fare un passo indietro e vedere come Lippmann affronti il problema della complessità.  Innanzitutto l’uomo di Lippmann è un uomo sottoposto a due forze contrastanti: una che lo induce a vivere in uno spazio e un tempo circoscritti, l’altra - fatta di pressioni sociali esercitate dagli sviluppi della modernità, vale a dire di intensificazione e accelerazione di scambi sociali, economici e politici - che lo spinge a far parte di un mondo comunque inaccessibile per intero. Per sopperire a queste lacune, l’uomo moderno crea nella propria mente un modello semplificato di ambiente: lo pseudo-ambiente. Questa felice definizione di Lippmann rappresenta un “ibrido risultante da una combinazione di natura umana e di condizioni ambientali” [Lippmann 1922, tr. it. 1999, 52]: la natura umana spinge a un continuo processo di semplificazione sia attraverso il ricorso agli stereotipi, sia attraverso la formulazione di concezioni assolute e dicotomiche; le condizioni ambientali sono determinate dalla posizione sociale, dal pensiero ideologico e dalla situazione congiunturale.

I limiti intriseci dell’uomo – scaturiti da fattori sociali – spingono a utilizzare gli stereotipi come rappresentazioni efficaci per orientarsi in un mondo sconosciuto, e per risparmiare energie cognitive. Gli stereotipi, infatti, attivano un meccanismo automatico di esclusione delle informazioni ignote, e di accettazione di quelle consuete e riconoscibili. In tal modo l’individuo, invece di rivedere le proprie posizioni su alcuni argomenti, tende a consolidare quelle già esistenti. Il processo di semplificazione attraverso gli stereotipi, non avviene in modo accidentale secondo scelte arbitrarie e soggettive, ma è determinato dalle peculiarità del gruppo di appartenenza: la religione, la classe sociale, l’etnia ecc. Questo è il motivo che impedisce di interrompere il meccanismo di trasmissione basato sulla ripetitività generazionale e su una apparente origine biologica.

Gli stereotipi non sono, tuttavia, l’unica semplificazione alla quale l’uomo ricorre nella vita quotidiana e di cui Lippmann faccia menzione nel suo saggio del 1922 L’opinione pubblica. Anche l’antica contrapposizione tra concetto di bene e concetto di male è assai efficace e versatile. Questa dicotomia tra giusti e ingiusti, buoni e cattivi, chi ha torto e chi ha ragione, scaturisce dalla predisposizione dell’uomo all’assoluto e dalla presenza di stereotipi molto potenti originati prima dalla famiglia e poi dalla religione (in particolare da quella cristiana).

Un argomento al quale Lippmann ha dedicato molta attenzione, e che riporto per l’attualità delle tematiche trattate è la formazione del consenso necessario ai governi per intervenire nei conflitti bellici. In questo caso la semplificazione, operata attraverso gli stereotipi e la dicotomia bene/male, hanno il potere di determinare la vita o la morte delle persone: “L’opinione di massa, acquistando in questo secolo un potere sempre più alto, si è rivelata come un arbitro pericoloso delle decisioni quando le alternative sono la vita o la morte” [Lippmann 1955, tr. it. 1957, 21]. In alcune situazioni, prosegue l’autore, “le scelte sono così fondamentali che il sentimento pubblico diviene incandescente; ma le risposte si limitano alle sole parole con cui sa esprimersi la grande massa: un «Sì» o un «No» (virgolette dell’autore) [ibidem, 20].

Un altro meccanismo responsabile dei processi di semplificazione e distorsione della realtà è la tendenza ad antropomorfizzare le cose inanimate. Basta pensare ai bambini quando fanno parlare i loro orsacchiotti di peluche, oppure a tutto il mondo dei cartoni animati di Walt Disney che “umanizza” animali e oggetti per comprendere quanto sia incisivo questo modo di pensare. I comunicatori professionisti utilizzano ampiamente espressioni come: “Umore della borsa”, “stato di salute del mercato” ecc. Associano, insomma, termini “umani” ad argomenti economici che non attirerebbero alcuna attenzione se non fossero rivolti ad utenti trattati come bambini di cui prendersi cura.

Ma come funziona l’antropomorfizzazione? - Riprendiamo l’esempio precedente e proviamo a vedere cosa viene associato alla parola “guerra”: i libri di storia, gli articoli di giornale, le trasmissioni televisive, i ricordi degli anziani, parlano di distruzione, morte, sangue, mutilazione, solitudine. Tutte queste parole scaturiscono dalla rievocazione di immagini di macerie, cadaveri, feriti, lamenti. Il termine immagine (image) usato da Lippmann si riferisce, quindi, a un’idea che ha acquistato valore visivo e tattile per l’individuo e che riesce a suscitare emozioni. E’ chiaro che questo valore non è uguale per tutti, ma dipende dal rapporto e dall’interazione tra soggetti in un contesto sociale. Dalle argomentazioni di Lippmann possiamo, allora, dedurre che chi cresce in una famiglia di militari sviluppa un valore della guerra diverso rispetto da chi cresce in una famiglia di impiegati. Lo stesso possiamo dire per un ragazzo nato in un paese in guerra permanente come Israele, e uno nato in un luogo sicuro e pacifico come la Svizzera. In conclusione le immagini mentali, ovvero le idee, corrispondono a un mix tra vissuto individuale e contesto sociale.

Secondo Lippmann le idee sono estremamente efficaci per creare nell’uomo immagini ideali di ciò che vorrebbe essere, al punto da contribuire alla formazione del carattere e all’orientamento delle sue azioni. Ma affinché l’idea trasmessa possa entrare a far parte degli schemi mentali dell’individuo, è necessaria un’identificazione con qualche aspetto dell’immagine. Per esempio, se la guerra evoca immagini di aeroplani velocissimi e di piloti sprezzanti del pericolo, il comportamento si manifesterà con un voto favorevole a un intervento diretto. Al contrario, se la guerra evoca immagini di cadaveri ammassati e di bambini mutilati, il comportamento potrebbe manifestarsi con un secco no a un’azione militare.

In sintesi, l’uomo non prende posizione sulla “realtà delle cose” ma su pseudo-situazioni, ossia situazioni antropomorfizzate: prodotti culturali presenti nella mente degli uomini capaci di frapporsi tra l’organismo fisico e la realtà esterna. Da questi presupposti possiamo, allora, determinare la reale efficacia delle idee, ovvero comprendere le reazioni degli uomini ai pensieri, alle immagini e al modo in cui essi si raffigurano il mondo, trattando tali raffigurazioni come realtà: in guerra quando qualcuno spara, non lo fa contro una persona, una mamma, una moglie, un marito, un figlio, un meccanico, ma contro un “nemico”, ossia l’antropomorfizzazione di un’idea. Il nemico evoca immagini di violenza e aggressione tali da suscitare odio e paura fino a far reagire premendo il grilletto: il nemico è morto e il meccanico non è mai esistito.

 

* Mascia Ferri è dottoranda in Storia e sociologia della modernità a Pisa. Laureata in Storia del pensiero sociologico alla Facoltà di Sociologia (Sapienza-Roma) e in Sociologia della conoscenza alla Facolta` di Scienze della comunicazione (Sapienza Roma), ha una specializzazione Ricerca sociale.
Ha collaborato con il Prof. Mannheimer alla Bicocca e presso la sua struttura privata in qualità di stager. Ha  tenuto lezioni seminariali in diverse università italiane e presentato relazioni negli ultimi congressi mondiali dell`ISA e dell`IIS. Ha inoltre ideato un laboratorio di Analisi e formazione dell`opinione pubblica che ha dato buoni frutti all`università di Chieti.

 

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