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Libri
La presenza del male nel conflitto e il narcisismo etico
Silverio Tomeo

Quest’ultimo testo del sociologo barese Franco Cassano - L’umiltà del male , Laterza 2011 - è all’insegna di una dichiarata urgenza, nel senso di intervento riflessivo, sulla necessità di un’etica pubblica e civile e sui rischi dell’aristocratismo e narcisismo etico del ceto politico-intellettuale che pure cerca il cambiamento, non rassegnandosi al paesaggio devastato dell’esistente. La presenza del male nella storia e nei conflitti, nella condizione umana e nel rapporto con il bene, è stata a lungo tematizzata nella storia del pensiero e nella teodicea, per non dire nella letteratura. Possiamo rammentare vari passaggi di pensiero che vanno da  Bataille sulla “parte maledetta”  alla singolare riflessione di Baudrillard sull’intelligenza del Male. Dal male metafisico a quello radicale, dal male assoluto sino a quella fondamentale acquisizione di Hannah Arendt della “banalità del male”, a partire dalla Shoah, vera frattura di civiltà. Cassano intravede una nuova performatività del male che si aggiunge e sovrappone alle altre. L’umiltà del male sta a voler dire la sua intimità e contiguità con la finitezza e la fragilità dell’uomo, con la debolezza dell’essere, anche approfittando  della “distanza o della boria del bene per mettere le tende e costruire alleanze”. Qui il male, piuttosto che quello metafisico, è quello in relazione a un potere dalle pulsioni totalitarie e di morte, di fronte alle società di massa intorpidite dal consumismo, instupidite dalla società dello spettacolo, deculturalizzate dall’imbonimento televisivo.

I passaggi e i movimenti del libro iniziano e ruotano attorno alla Leggenda del Grande Inquisitore, quella straordinaria parabola negativa contenuta ne I fratelli Karamazov, e all’interpretazione del testo di Dostoevskij si incrocia l’esplorazione della “zona grigia” tratteggiata nel libro  I sommersi e i salvati di Primo Levi.  In ultimo il testo si chiude ritornando attorno ai temi di esordio propri dell’autore, da Marx a Weber sino alla scuola di Francoforte, quasi a voler chiudere un cerchio.

Il Grande Inquisitore di fronte al Cristo silenzioso fatto mettere da lui stesso in cella, gli affaccia l’accusa di voler salvare solo i santi, di aver ignorato con superbia le tentazioni del deserto, di voler donare un’ insopportabile e difficile libertà al popolo dei fedeli, mentre lui – per quanto si sia potuto alleare con lo spirito del male – ha badato a dare una guida al gregge, ad alleviare la gente dal fardello della libertà, a gestire negli anni la Rivelazione e diffida il Cristo ritornato sulla Terra a pronunciare ulteriori rivelazioni. Quindi lo condanna al rogo, ma la figura compassionevole rimane muta, sorride e gli dà un bacio sulla guancia. L’Inquisitore resta confuso, lo fa uscire di prigione e lo diffida dal ritornare mai più. Le ragioni dell’Inquisitore vengono prese sul serio da Cassano, qui sta la novità interpretativa, e fatte incrociare con le dinamiche della “zona grigia” di cui parlava Levi, quando sosteneva come la macchina concentrazionaria dei Lager portasse anche alla collaborazione, oltre che alla morte e al terrore, ma in una situazione di assenza di libertà, come parossismo della stessa società totalitaria, come il suo paradigma tanatopolitico, come lo definisce il filosofo napoletano Roberto Esposito. A voler situare nel dibattito di idee recente in Italia le riflessioni di Cassano, mi vengono in mente almeno due assonanze.

Una filosofa italiana, adesso nota soprattutto per il fortunato libro anch’esso urgente  La questione morale, contro lo scetticismo etico e il declino dell’etica pubblica e privata, in Esercizi di pensiero per apprendisti filosofi prendeva in esame, sulla scia di Luigi Pareyson, lo stesso testo di Dostoevskij. Per Roberta De Monticelli, come ha rimarcato in una intervista recente, questa figura non si riduce al rappresentante di una Chiesa cattolica certo non amata da Dostoevskij, in quanto “il Grande Inquisitore potrebbe ben figurare fra i grandi disincantati cui si rivolge lo Zarathustra di Nietzsche, ‘coloro che hanno visto tutto’, ma non hanno ancora forse superato la compassione per l’uomo”.

Un pensatore come Giorgio Agamben, in Quel che resta di Auschwitz, un testo-chiave del 1998, tratta appunto del tema di chi possa testimoniare sui campi di sterminio. In una toccante riflessione Primo Levi confessava come si portasse dietro come una colpa la possibilità stessa di testimoniare in quanto sopravissuto, mentre i migliori, coloro cioè che si erano subito ribellati e opposti, erano stati i primi ad essere eliminati. Poi afferma che solo i “mussulmani” avrebbero potuto essere i veri testimoni di Auschwitz, ma non avrebbero mai potuto farlo. Venivano così chiamati nei campi quanti entravano in uno stato di abulia totale, quelli che erano del tutto spossessati e ridotti a “nuda vita”, quasi un risultato maggiore per i nazisti degli stessi cadaveri fabbricati a livello industriale.

L’obiettivo critico del suo ragionamento è il narcisismo etico, scrive Cassano, quell’atteggiamento di superiorità morale che finisce per lasciare la debolezza degli uomini nelle mani del nemico. Quindi non è un’accusa al radicalismo etico in quanto tale, ma all’aristocratismo autosufficiente, che non vuole confondersi con le debolezze dell’umano. Senza una grande riscossa etica la politica muore, ci ricorda Cassano, nella linea del suo stesso impegno personale che in Puglia abbiamo ben conosciuto, e vanno certamente distinte le ragioni del cambiamento da quelle del conservatorismo. Ma d’altra parte “il dover essere non può dimenticare l’essere guardandolo dall’alto della sua perfezione”. Si tratta di accettare la dimensione tragica che ha in sé la politica, capire quanto il male sia presente nella storia e nel conflitto,  quanto possa attraversare le pratiche e i dispositivi di potere, e disporsi ad agire alla presenza di quella che Gramsci chiamava la “rivoluzione passiva”, con cui il potere spesso elabora e assorbe le pratiche collettive di cittadinanza e la lotta per il riconoscimento, purchè però questo conflitto ci sia, comunque.

Ritornando  al male, se esso avesse una sua autonoma intelligenza sarebbe il demonio in persona, quindi dobbiamo supporre che siano le nostre stesse intelligenze e pulsioni a fornirgliela spesso in prestito. Il male nella sua banalità impersonale e umile, non semplicemente privativo del bene, agisce come potenza in atto. Insomma, il male esiste, ricordava Pareyson.

03/04/2011 12:00:00
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