Associazione Città Futura - Logo
Terza Pagina
Da Berlinguer a Renzi
Franco Livorsi
Quatto quatto, in Italia, sta arrivando il cambiamento anche nella sinistra, e da sinistra. Finalmente. Non è il cambiamento socialista e democratico di tipo franco-tedesco, che avevo desiderato da circa trentacinque anni, ma comunque è epocale. Può portarci fuori da un interminabile guado e comunque nella sinistra europea e internazionale, non solo italiana. Era ora. Infatti la sinistra che è stata di tipo maggioritario in Italia è stata in crisi d’identità - in modo prima lentissimo, e poi sempre più forte - a partire dalla metà circa degli anni Settanta in poi, con una speciale accelerazione negli ultimi sette anni..
 
La crisi d’identità del PCI iniziò negli anni Settanta
 
Tutto era cominciato quando il Partito Comunista Italiano di Berlinguer, al culmine di un processo espansivo del movimento operaio e della sinistra che era stato continuo dal luglio Sessanta, aveva proposto il “compromesso storico”. Dal luglio 1960 c’era stata una lunga epoca, durata quindici anni circa, in cui si erano verificate grandi e continue lotte sociali politiche e culturali. Si era visto lo sgretolamento progressivo del moderatismo democristiano (con i socialdemocratici come “variabile dipendente”). Infatti dopo il Sessanta erano state imposte, tramite una forte dialettica tra lotte e governi, grandi riforme civili e sociali. Tutto ciò aveva fatto diventare il PCI quasi pari alla Democrazia Cristiana per voti. Ma allora il gruppo dirigente del PCI, invece di prendere atto del fatto che propria in quella fase di massima forza sarebbe stato necessario diventare socialdemocratici europei “senza se e senza ma” per fare l’alternativa democratica di sinistra e mandare a casa i “soliti ignoti” moderati (in primis democristiani), credé di poter semplicemente aggiornare profondamente la linea della svolta di Salerno del 1944 e poi della “nuova maggioranza”, sempre proposta da Togliatti, trasformandola in strategia a tempo  indeterminato. Allora Berlinguer propose infatti un “compromesso storico”, ossia epocale - non solo contingente e da “grande coalizione” eccezionale per un breve periodo di palese emergenza - a “tutti” i democratici[1]: compromesso di cui il governo monocolore democristiano del cinico Andreotti scaturito dalle elezioni politiche del 1976, grazie alla forza rigeneratrice attribuita leninisticamente al PCI - ossia all’astensione e poi appoggio esterno del PCI stesso a quell’esecutivo - avrebbe dovuto essere addirittura la genesi. Enrico Berlinguer era a mio parere un leader di una grandezza morale senza pari, come tra i socialisti lo era il presidente della Repubblica di allora, il vecchio socialista Sandro Pertini, che infatti alla morte dell’Enrico lo pianse come un figlio (e giustamente), ma come leader storico non volle la socialdemocratizzazione, neppure in senso europeo, del PCI. Il PCI era per lui la comunità idealizzata, direi “etica”, con cui si era identificato, anche criticamente, ma sempre empaticamente, e forse sempre più empaticamente, dalla prima giovinezza, e Togliatti era stato il suo riferimento anche dottrinario fondamentale. Berlinguer collocava tutti i suoi riferimenti teorico politici, anche gli amati Marx e Lenin, in quel contesto. Probabilmente riteneva l’idea e contesto del comunismo (e tanto più dell’”italocomunismo”) irrinunciabili; e per tenersi fermo al comunismo nell’ora in cui la situazione storica poteva finalmente portare il partito al potere –e per farlo senza optare per la social democratizzazione accelerata del suo partito - cercò di rassicurare l’ampio fronte moderato ed anticomunista proponendo a tempo indeterminato l’alleanza di tutti i democratici (in teoria di un buon 90% del parlamento, e a tempo indefinito, sino al cosiddetto “socialismo” ed oltre). Se i non comunisti circondavano amichevolmente i comunisti da tutti i lati, perché mai avrebbero dovuto attribuir loro intenzioni totalitarie, e reagire ad esse con autoritarismo preteso uguale e contrario, ossia fascista? Era evidente che l’alleanza “storica” non era più imperniata - prima ancora che lo PSI di Craxi optasse per un anticomunismo viscerale - sulla relazione privilegiata con i socialisti, che Togliatti aveva almeno politicamente mantenuto pur aprendo lui pure al centro, bensì sulla relazione del  PCI con la DC. Dichiaratamente o di fatto. Cominciò, allora, specie dal giugno 1976, ma con prodromi risalenti alla proposta del “compromesso storico” del 1973, la lunga tragedia di una sinistra non più comunista “davvero”, e infatti aderente alla NATO e pronta ad allearsi per tutta un’epoca innanzitutto con la DC; ma neanche “davvero” socialista democratica, e infatti sempre “comunista” nelle insegne, sempre centralista democratica come ogni comunismo del mondo, sempre legata politicamente all’URSS o comunque - anche dopo lo “strappo” del 1981 - in un rapporto “da compagni” con i sovietici, rapporto del resto ridiventato piuttosto stretto al tempo di Gorbaciov. Iniziò insomma, specie dopo le elezioni politiche del giugno 1976, la tragedia del “né né”, ossia del partito non più comunista, ma neppure socialdemocratico. Un partito socialdemocratico, anche in senso europeo, con “quel nome”, con quell’unanimismo interno sostanziale,  e soprattutto con gli “amici” in politica internazionale in quel di Mosca, e comunque in relazione “da compagni” con i sovietici sino alla fine dell’URSS, era “fuori dal mondo”. Quel grande partito non era in grado di salire sul treno del governo del Paese facendo scendere le forze detestate da decenni alla sinistra e dai tanti milioni di lavoratori che la votavano: forze sin lì governanti con cui il PCI voleva invece allearsi, temendo il rinculo di destra come se l’Italia fosse stata il Cile e i terroristi neri avessero potuto essere quel movimento reazionario, ma “con basi di massa”, senza il quale a Occidente non si governa, come avevano pur insegnato Gramsci e Togliatti[2], tra l’altro in epoche in cui pure del neocapitalismo europeo “in Italia” non c’era stato neanche l’odore, o c’era stato solo qualche sprazzo.
 
La crisi d’identità irrisolta nel post-comunismo
 
   Dopo il crollo del muro di Berlino e poi dell’URSS (1989/1991) il Partito perse il nome e il centralismo democratico (diventando Partito Democratico di Sinistra, e Democratici di Sinistra). Più oltre, non solo non raggiunse esplicitamente il socialismo europeo, ma rinunciò persino al riferimento esplicito alla “sinistra”, per sposarsi agli amici democristiani di sinistra facendosi Partito Democratico (2007). E tuttavia, anche senza retroterra politicamente comunista, restava sempre la continuità dell’organizzazione, e dei quadri centrali, tanto che i D’Alema, i Veltroni e i Bersani, e persino i Fassino o Enrico Morando, per non dir di Napolitano, erano stati “tutti” dirigenti comunisti, e funzionari, di primissimo piano, già al tempo di Berlinguer. E moltissimi militanti del PD di oggi vivono ancora nella convinzione di aver solo cambiato nome e colore esterno della “ditta”; e ciò non solo quando siano vecchi (ex comunisti), ma pure quando siano militanti e dirigenti “nuovi”, per altro spesso diretti discepoli dei “vecchi”. Del comunismo non è rimasto niente nel PD, neanche il riferimento preferenziale al mondo operaio, alle rosse bandiere e in una parola all’idea socialista, comunque intesi (che neanche Craxi si era sognato di abrogare). Ma siccome le idee marciano sulle gambe degli uomini, la continuità fisica o psicofisica, talora con dirette “filiazioni”, dei gruppi dirigenti centrali come periferici, ha avuto il suo peso. Per questo l’idea iniziale di Renzi di “rottamare” i dirigenti inossidabili, in sella da decenni, invece di apparire come ovvia logica europea e occidentale del ricambio, è parsa a lungo una forma di parricidio. E forse lo era. Ma il cambiamento per sottrazione – “Aderiamo alla NATO, ma siamo comunisti” (Berlinguer, 1974); “Rinunciamo al governo pur democratico delle sole forze di sinistra d’ogni tipo, ma siamo comunisti” (Berlinguer, 1974-1979); “Rinunciamo al nome comunista, ma non siamo socialisti” (Occhetto, 1989/1993); “Uniamo tutti i democratici progressivi, ex comunisti e ex democristiani, ma non siamo socialisti” (Veltroni, 2007) - alla fine doveva produrre una spaventosa crisi di identità e di leadership. Infatti il 95% del parlamento si dice “democratico”, e si barcamena tra economia privatistica e intervento pubblico sia che a parole dica “Meno Stato e più mercato” o “più Stato e meno mercato”, per cui dirsi “democratici” non vuol dire assolutamente niente, è un essere “uno nessuno centomila”, al di là di quel che “nel fondo” pensi chi l’abbia autorevolmente “inventato” (come l’ottimo Veltroni). L’indebolimento progressivo dell’identità, ben al di là dell’indebolimento imposto dalla storia a tutti gli “ismi” del XIX e XX secolo[3], si è poi riflesso in leadership sempre più deboli. Già si era visto come il caro Bertinotti, certo attratto dalla perenne idea gauchiste di spostare l’asse della politica italiana a sinistra - idea forse accarezzata in assiduo dialogo con l’astuto post-togliattiano D’Alema - fosse bastato a far saltare il primo e miglior governo Prodi (1996/1998). Poi, quando Prodi tornò a battere Berlusconi, nel 2006, il suo governo, oltre che molto indebolito dal “Porcellum” voluto dalla destra per rendere ingovernabile il Senato alla vigilia della propria sconfitta, fu molto danneggiato, nell’immagine, da forze ultraminoritarie interne (tipo Pecoraro Scanio), e travolto da una minuscola forza neodemocristiana, e in specie dal suo “leader”, il “grande politico” - si fa per dire - Clemente Mastella. Più oltre ancora Bersani non riuscì a fare un suo governo o a promuovere un governo amico (ad esempio diretto da Rodotà), dopo due mesi di stallo in seguito alle elezioni del febbraio 2013, nonostante la maggioranza assoluta del PD alla Camera e quella relativa al Senato. E dopo alcune grosse “grane” e tradimenti interni, come il mancato voto a Prodi presidente della repubblica da parte di oltre cento parlamentari del PD “nel segreto dell’urna”, appunto durante l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, invece d’insistere come era pur accaduto tante altre volte in occasione di elezioni di presidenti della repubblica (con lo stesso candidato o con un altro), talora per diciotto votazioni, dichiarò intempestivamente la crisi generale interna. Bersani annunciò le dimissioni e condivise l’idea di rieleggere, per la prima volta dal 1946, lo stesso presidente della Repubblica: un presidente che pure non aveva voluto mandarlo alle Camere, come candidato premier con un mandato ampio, senza una maggioranza preventiva certa. Insomma, tutto dimostrava che la prima forza della sinistra - prigioniera dei “soliti noti”, ossia di vecchi capi e modi di fare politica rimasti imperanti a dispetto dei massimi mutamenti politici - era giunta all’estremo della sua crisi storica. Il PD appariva ormai come un giocatore di poker che riesca a perdere anche quando gli fiocchino poker d’assi serviti in mano, per incapacità minima di battersi. Era un pugile suonato. Dicendo ciò non vorrei assolutamente offendere né Bersani né alcun altro, neanche in modo minimo, anche se forse mio malgrado lo sto facendo; ma so bene che sto parlando di bravissime persone, di bravissimi quadri, nella fattispecie di leader culturalmente a posto e che hanno dato buona prova di sé come amministratori della cosa pubblica e statisti, nell’insieme migliori “in tutto” di quelli loro opposti; ma affermo che nei momenti decisivi si sono dimostrati sempre più “indecisionisti” e incapaci di governare le contraddizioni. Il problema riguardava l’insieme dei quadri del PD, e non solo i massimi capi, essendo virtù e vizi, ivi, simili “sopra” e “sotto”, ai livelli centrali come periferici, in contesti in cui non bastava essere più onesti e più preparati, e persino molto più onesti e preparati degli altri gruppi rivali, ma bisognava necessariamente essere tutti raccolti attorno a leder forti ed autorevoli, in ogni ambito: in grado di parlare per tutti; rappresentativi dell’insieme sociopolitico loro, come al tempo di Togliatti e Berlinguer sebbene in altro contesto storico, e con poche - o tante - decisive intenzioni in testa, ma da far valere ad ogni costo. Tra l’altro la carenza di forte leadership era tanto più grave nell’epoca della crisi storica delle identità collettive tradizionali, rimaste povere o prive d’ideologia e con una base sociale necessariamente “liquida”, in cui in tutti i partiti si davano leader “d’identificazione”, persino Sinistra Ecologia Libertà (non certo, dunque, solo per volontà “demoniaca” di Berlusconi).
 
L’irruzione di Renzi
 
   In teoria quest’andazzo avrebbe potuto proseguire magari per altri decenni (in fondo dura almeno dalla morte di Berlinguer), con un indefinito gioco della staffetta tra vecchi capi e loro epigoni (ad esempio con l’ottimo Cuperlo al posto di D’Alema e infine Bersani), ma grazie a Dio la base dei militanti, e soprattutto elettorale, del PD, proprio dopo aver “toccato il fondo” ha saputo reagire. Ha potuto reagire proprio per quelle qualità socioculturali che la rendono migliore dell’altra Italia in termini di molto maggiore moralità media (senza per questo essere diversa in tutto, sia chiaro), di motivazioni politiche (senza che gli altri siano tutti canaglie, sia chiaro), e di bisogno di un’Italia democratica saldamente ed efficacemente governata (senza che abbia il monopolio di tale bisogno, sia chiaro). Già aveva “a sorpresa” dato il 40% a Renzi nel 2012 quando questi si era contrapposto a Bersani come candidato premier nelle primarie, avendo – allora - il 90% degli attivisti e apparato del PD contro. Ora, alle primarie per il congresso del PD del 2013, Renzi ha preso il 46% dei militanti e quasi il 70% di tre milioni di elettori volontari del PD. Una vera svolta storica. Erano anni che io, parlando con i miei amici, nel mio piccolo e oscuro habitat, sostenevo che quando un sistema politico sia totalmente inceppato - come mi pareva e pare quello italiano - o il Paese precipita via via nel baratro di un’infinita decadenza istituzionale economica politica e morale, oppure deve intervenire per forza un fattore “altro” che scompagini tutto il gioco: perché altrimenti la comune rovina “di tutte le classi in lotta” – come l’avrebbero detta Marx e Engels nel Manifesto del partito comunista del 1848[4] - è garantita. Ci vuole, specie in tali gravi frangenti storici (nostri), quello che il grandissimo Vittorio Foa, dando il meglio di sé, tardivamente, nella vecchiaia, scoprì ne Il Cavallo e la Torre. Riflessioni di una vita[5], chiamandolo “mossa del cavallo”. Egli allora scoprì, o comunque meglio precisò, che la storia non è solo di masse (o classi) in competizione, bensì di capi (delle masse o classi) capaci di muoversi sulla scacchiera delle lotte politiche e sociali (anzi “in” esse”). Teorizzava una sorta di decisionismo di sinistra “interno” alle forze sociali del mutamento (pur per se stesse decisive), forse ricordandosi dopo tanti anni di venire dal volontarismo di Carlo Rosselli, di  “Giustizia e Libertà” e del Partito d’Azione di Parri, oltre che da Marx e dal marxismo economico “scientifico” pure suo. Sosteneva che in ciò era stato bravissimo il suo maestro nella vita sindacale (che considerava esser stata la sua vita “avant tout”), Giuseppe Di Vittorio. Questo (“mossa del cavallo”), secondo me aveva pure fatto Togliatti nel 1944, quando aveva utilizzato la tattica stalinista dello sparare tutti insieme contro il nemico comune (nazifascista), per fondare una politica delle alleanze “cattocomunista” base della Costituzione e di una nuova strategia, e soprattutto, “lemme lemme”, per sostituire al solito partito dei militanti “rivoluzionari” di tradizione leninista, ad esempio sempre vivo in Francia, il “partito nuovo”, inteso come una grande comunità di popolo in espansione, certo persino troppo monolitica (stalinista-leninista), ma comunque molto innovativa ed efficace storicamente. Sempre qualcosa come la “mossa del cavallo” (lì mancata) era stato “nei voti” anche di Saragat, quando nel 1947 aveva rotto il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, presto PSI, per rifiutare lo stalinismo (giustamente), ma così aveva fatto suo malgrado un immenso favore agli stalinisti socialisti, che solo allora avevano potuto incapsulare per dieci anni Nenni e compagni nel loro gioco “leninista”. Un’altra “mossa del cavallo” mancata era stata, per me, quella di Berlinguer, quando reagì alla grande crisi del moderatismo col “compromesso storico”, invece che con la socialdemocratizzazione accelerata del PCI. Pure una mossa del cavallo mancata era stata quella di Craxi, quando si era illuso di poter fare una grande socialdemocrazia di massa anche in Italia non già trascinando i comunisti, come già Mitterrand in Francia, con paziente politica dell’incontro-scontro con loro, ma riprendendo, dopo i primi “niet” berlingueriani, l’anticomunismo viscerale saragattiano. Una buona e anzi geniale “mossa del cavallo” pare invece, ora, quella fatta da Matteo Renzi tra il 2012 e il 2013 (e che certo proseguirà), scompaginando “finalmente” tutti i giochi della sinistra tradizionale: iniziando l’era di una sinistra post-comunista.
 
Renzi e il Demiurgo
 
   Questa faccenda, in termini istituzionali, ha altri due referenti, a tratti magari “imbarazzanti”, ma da richiamare perché essa possa essere compresa a fondo: uno è un pensatore “minore ma non troppo” dell’elitismo, ossia della teoria delle minoranze qualificate che farebbero la storia: il liberaldemocratico, politologo e pure autorevole editorialista della “Stampa” negli anni Quaranta, Filippo Burzio. Si chiama “teoria del Demiurgo” (con particolare riferimento al suo libro l demiurgo e la crisi occidentale[6]). Il termine Demiurgo fa riferimento a un grande mito del “Timeo” (IV secolo a.C.) dell’antico Platone, relativo al dio (Demiurgo) che prendendo a modello l’eterno e perfetto mondo trascendente e spirituale delle idee avrebbe dato forma alla materia eterna informe, generando il mondo vivo (perciò imperfetto, ma non troppo)[7]. In politica il “demiurgo” è un fattore che viene a razionalizzare una situazione irrazionale, in cui tutto paia incepparsi, avvitarsi su se stesso, imputridire, decadere. Naturalmente noi di cultura marxista, o comunque socialista, sappiamo bene che il Capo senza le masse vale come il due di briscola. Quelli tra noi di cultura non solo leninista, ma pure luxemburghiana e “foana”, sanno pure che le masse hanno nella storia anche tendenze sociopolitiche loro proprie, che sfuggono a qualsiasi indottrinamento e pesano sull’insieme, anche politicamente, per se stesse; ma se l’elemento elitistico, con particolare riferimento alla dimensione del capo storico, non sia considerato a sé, bensì visto “nel contesto”, come una delle componenti necessarie del gioco generale delle forze sociali e politiche in campo, è un dato di prima grandezza. E chi non lo capisce - fermo magari alle teorie della storia “senza soggetto”, tutta di massa e masse perché in primis economico-sociale, e persuaso col vecchio Engels che tanto quando la storia lo richieda il capo arriva sempre[8]  – non ha una posizione più avanzata, ma più arretrata. Non ha saputo  masticare le osservazioni di Gramsci sulla contrapposizione tra cesarismo rivoluzionario e reazionario[9] . Con ciò Renzi non è un “Cesare”, come non lo era Berlusconi. Ma nell’irrompere di Renzi c’è un dato demiurgico che finalmente arriva da sinistra. Riflette sempre l’arrivo o di una forza o di un singolo, e sull’onda di tutto un vasto e poi articolato nuovo gruppo dirigente, che scompaginino giochi politico-sociali ingarbugliatissimi, ormai senza uscita con danno di tutti.
  Tuttavia la faccenda del Demiurgo ha un referente molto più importante di Filippo Burzio. È il Max Weber di Economia e società[10]. Weber sosteneva che il “dominio”, in senso sociologico, può essere di tipo tradizionale (si è sempre pensato e fatto così), burocratico (razionale, come il burocratismo, che poi sarebbe pure il parlamentarismo) o “carismatico”, in riferimento a una leadership che sembra quasi segnata da investitura divina, come lo spirito profetico, o che investì gli apostoli rimasti senza Cristo in forma di “Spirito Santo” (ossia in forma di chàrisma). L’originalità dell’elaborazione di Weber consisteva nel fatto che non era solo una variante della vecchia teoria più o meno superomistica del “capo”, stigmatizzata da Engels, da Plechanov, da Bordiga e infine da Althusser e altri[11]. Infatti Weber spiegava che il potere carismatico sorge solo quando una situazione sia senza sbocco. In quella situazione ci sono dei signori nessuno che la società investe del “carisma”. Non è, insomma, l’idea, tipicamente fascista, per cui “ci vorrebbe un uomo”, eccetera eccetera. Significa “solo” che quando una società tocchi il fondo, sicché le soluzioni intrasistemiche facciano ormai sistematicamente fallimento, il motore batta sempre in testa, e non se ne possa più del passato, e non si creda più in niente, e le cose fondamentali non si riescano a fare o non riescano a durare, arriva il potere carismatico. Quando arriva la cosa può essere estremamente sgradevole e sgradita, deplorevole e deplorata, anche per i migliori del vecchio ceto politico; o era stata sgradita sino a pochi anni prima agli stessi che ne sono diventati fautori. Ma si determina comunque, come un fenomeno sociale che viene dal profondo. Accade più o meno come quando una grande azienda in crisi si affida a un grande manager. La società, per un impulso di vita, fa lo stesso. Il gioco tradizionale deve essere scompaginato ad ogni costo, ed è scompaginato, o almeno per quella via si prova e riprova a scompaginarlo, da destra o da sinistra. I politici tradizionali ne hanno orrore, o comunque lo temono per ragioni che possono essere anche molto buone, che io non vorrei negare in nessun modo. “Abbiamo già dato!”. Si pensa subito a Mussolini e più ancora a Hitler. Oppure a Berlusconi. Non è forse vero che Robert Michels, il grande pensatore elitista autore del classico La sociologia del partito politico (1912)[12], era stato uno stretto collaboratore di Weber? E che lo era stato pure Carl Schmitt, poi teorico del führerprinzip?  E non è forse stata la ricerca disperata di una soluzione alle aporie della democrazia delegata, di partito e parlamentare, che a un certo punto aveva spinto Michels, ex sindacalista rivoluzionario, a enfatizzare il legame tra “un uomo e un popolo”, vedendo Mussolini come capo carismatico che impersonava la “volontà del popolo” meglio dei vecchi burocrati parlamentari? E non è stato un capo carismatico coi fiocchi Adolf Hitler, che fu creduto da una Germania disfatta e in disfacimento, colui che poi, dopo una ripresa economica e infine bellica “drogata”, la condusse ad un’assoluta rovina, che coinvolse il pianeta, e portò razze pretese “nemiche”, ad un abominevole sterminio?[13] E non era già stato un bisogno carismatico a spingere tanti milioni di italiani, in agguato persino oggi, nelle braccia di Silvio Berlusconi, sperato “diverso” e “opposto” rispetto al vecchio ceto politico (di cui pure era figlio dagli anni Ottanta, ma politicamente ai margini, già molto potente però quatto quatto: benché il fenomeno del craxismo sconfitto da sinistra e tornato dall’altra parte della barricata sia storicamente impressionante). Tutto vero, ma “unilateralmente”, e per ciò falsamente, come nei ragionamenti pseudoevidenti che Aristotele chiamava “paralogismi”. In realtà tutti i grandi fenomeni della storia hanno una faccia di sinistra ed una faccia di destra. Lasciamo ai cretini politici la visione per cui di notte tutte le vacche sono nere. C’è un parlamentarismo di destra e ce n’è uno di sinistra. C’è persino un liberalismo di destra ben diverso da quello di sinistra. C’è una dittatura di destra e c’è una dittatura di sinistra: Metternich non era Robespierre, Mussolini non era Lenin. E’ vero che su altri, come Hitler e Stalin, si potrebbe discutere e si è discusso, ma solo sino a un certo punto. C’è elitismo ed elitismo, come ci hanno spiegato Schumpeter come pure Bobbio[14]. E c’è potere carismatico e potere carismatico. O, più prosaicamente, c’è leaderismo forte e leaderismo forte, c’è decisionismo e decisionismo. Anche Roosevelt è stato un evidentissimo caso di tipo carismatico, sorto dal bisogno di uscire dalla crisi del 1929 e grazie al quale – ben inteso in seguito ai talenti di migliaia e milioni di persone – l’America divenne la prima potenza mondiale. Pure il fenomeno del gollismo è stato progressivo, anche se le sue stigmate erano di destra (ma non fasciste). De Gaulle fu l’uomo che fondò la Resistenza antinazista in Francia, portò la Francia fuori dall’Algeria e pose fine ad una repubblica parlamentare pura e partitocratica che condannava quella “grande nation” – pur dall’ossatura burocratico amministrativa più forte di quella italiana – alla stessa ingovernabilità e indebolimento progressivi della nostra (lì durata dal 1944 al 1958): assetto “gollista” cui almeno per il maggioritario di collegio a due turni, che di quel sistema non è un piccolo accessorio, guarda da anni con favore il PD. L’alternativa di sinistra di Mitterrand e poi di Jospin senza quel contesto istituzionale dal 1958“gollista” sarebbe stata impossibile, almeno col minimo di stabilità che la storia richiede quando cambi “tutta” la squadra di governo.
  Ma prendiamo pure per buono l’esempio di “Silvio Berlusconi”. Supponiamo pure che abbiano ragione quelli che vedono Berlusconi, Grillo e Renzi come tre facce del populismo (ovviamente intercambiabili solo per i poverini che non vedano differenze tra Forza Italia, il M5S e il PD, ossia tra i tre grandi movimenti di cui i tre sono comunque filiazione e massima espressione “dall’inizio”). Ciò posto che cosa significa mai questo rivolgersi degli italiani, dal 1994 in poi, a capi popolo scelti fuori dal gioco politico tradizionale e tramite una sorta di investitura da parte delle masse? Non significa forse che la vecchia repubblica - dei partiti e a governo scelto dal parlamento e non dal popolo sovrano stesso - per la gran massa dei cittadini italiani è ormai “in-credibile”, fallita, marcia, irrecuperabile? Non significa forse quel che si è visto in Weber, ossia che il senso del fallimento sistemico fa sorgere nelle grandimasse, a prescindere dai nostri giudizi di favore o deplorazione, il bisogno insopprimibile di capi in cui la popolazione possa riconoscersi vedendoli come irriducibili - o meglio “sperandoli” irriducibili - al gioco politico tradizionale? E se il 40% dei cittadini crede nei “suoi” sindaci, da esso stesso scelti, e solo il 4 ai partiti, che pretendono di scegliere i governanti al postoloro, non vuol forse dire che si fidano solo di leader da loro stessi investiti, cui poi, se li deluderanno, in elezioni successive daranno un calcio nel sedere?
  E infatti i cittadini stanno provando e riprovando, ma sempre su quel terreno, scegliendo loro il leader a dispetto dei giochi deipartiti dominanti nelle istituzioni. Prima hanno fatto emergere Berlusconi. L’hanno provato e l’hanno trovato deludente (dimezzando i suoi voti nel febbraio 2013 e assistendo alla sua caduta in gran parte infischiandosene sempre un po’ di più di “lui”, nonostante la sua illusione di “rifondazione” forzitaliana: illusione in cui probabilmente sta sperperando altri milioni). Poi hanno provato Grillo, che resta una mina vagante, ma che con la sua tattica assolutamente neobordighista dello “splendido isolamento”, se continuerà (il che a me pare quasi impossibile, perché sarebbe un perseverare diabolicamente nell’errore)[15], può solo pestare l’acqua nel mortaio. Infine stanno puntando su Renzi, non solo come capo del PD, ma per il governo del Paese; anche se lo sarà (se durerà e ci riuscirà, come credo) solo dopo le elezioni, abbastanza certe, del 2015. Non s’illudano i “riformisti”, i tanti nostalgici del proporzionalismo e della prima repubblica, sia pure con gli aggiustamenti del caso; non s’illudano i Napolitano, i D’Alema, i Casini, e sotto sotto gli Alfano: se il ragionamento che ho provato a fare è fondato dopo Renzi non c’è un Letta bis o qualcosa del genere, ma solo il “grillismo” al potere. E di questo “grillismo” per ora non si sa quale sia l’anima profonda (se è vero il ragionamento qui proposto). L’idea, probabilmente di Napolitano, e già nella reazione di Berlinguer ai “fatti del Cile”, di fermare le derive antisistemiche tramite tattiche unitarie neogiolittiane, di “larghe intese” che mettano insieme destra e sinistra costituzionali, era stata ed è perdente, nonostante la grandezza politica del personaggio, specie sino alle elezioni del 2013.
  Naturalmente è più che lecito l’interrogativo sull’inevitabilità, ovviamente relativa, della via “carismatica”, democraticamente intesa, alla Roosevelt o alla Blair, ossia ben più democratica che socialista.
 
L’altra strada non l’ha bruciata Renzi
 
   Un’altra via era possibile, ma ormai solo con la storia dei se e dei ma. In Inghilterra la dialettica è rimasta quella tra Conservatori e Laburisti, in Germania soprattutto tra Democristiani e Socialdemocratici, in Francia tra gollisti e socialisti. Da noi no. Da noi sarebbe pur stato assolutamente possibile far evolvere ulteriormente in senso “francese”, anche senza pieno semipresidenzialismo, il sistema nato col “Mattarellum” nel 1994 (ad esempio rendendolo a due turni), e soprattutto trasformare il PCI, e poi il Partito Democratico di Sinistra e i Democratici di Sinistra, non inPD, ma in un grande partito socialista europeo. Non si volle farlo. In parte per la crisi d’identità politica e morale dello PSI dopo trent’anni e più di potere a mezzadria con la DC (dal 1962 al 1993), e in parte per il viscerale antisocialismo dei comunisti, condiviso nel profondo da Bordiga a Occhetto e D’Alema, dal segretario generale all’ultimo dei militanti “sempre comunisti”, sino a fare dei socialisti addirittura l’alibi di tutto quello che non andava, anche fatto in proprio, nei governi locali socialcomunisti. Sarebbe stata assolutamente possibile la via di Mitterrand e poi di Jospin, o se si preferiva quella del socialismo democratico tedesco o del laburismo inglese, ma non si volle perseguirla (o ci si illuse di perseguirne una, anzi “tutte”, senza dirlo in giro). E siccome dal 1994 sono passati vent’anni, insistervi sarebbe vanità delle vanità. A me spiace molto, ma mi pare inconfutabile che quella via èstata sconfitta dalla storia. Per me vent’anni di prove bastano. Poi si deve cambiare. In alternativa restava solo il modello della democrazia non-socialista, non socialdemocratica neanche in senso europeo. Per complesse ragioni sembra che l’Italia, forse per la profondità abissale della sua crisi interna di tipo politico e istituzionale, stia emulando più l’America che i grandi paesi europei. Il PD ha preso a modello il “clintonismo”, che però  è diversissimo dalla tradizione della sinistra italiana e del Paese (oltre che dall’Europa occidentale a noi storicamente sempre vicina, francese e tedesca). Forse in un Paese che a destra è stato fascista e a sinistra comunista, la fuoriuscita, una volta fallito il centro, poteva essere solo americana. C’è una strana americanizzazione della società italiana (con rischio di “sud-americanizzazione”, per soprammercato). Fallita la democrazia imperniata sui partiti nata nel 1948 (anzi, 1944), e il suo guscio istituzionale (che è il parlamentarismo, che qui sarà sempre quello nostro e non quello “tedesco”), si è dovuto scivolare nel presidenzialismo, già caratteristico nell’elezione del sindaco, del presidente della Provincia e della Regione. Se fosse stata fatta, “almeno” intorno al1990, una scelta socialista e democratica avrebbe potuto darsi uno scenario o semipresidenziale (francese) o di “premierato” (inglese); non quello tedesco, per tante ragioni profonde, ma anche perché il sistema del 1948-1993, a parte la foglia di fico del voto di sbarramento, era già su quella lunghezza d’onda (solo che noi non siamo tedeschi, e avevamo i comunisti e non i socialdemocratici come primo partito della sinistra). In fondo lo scacco di Bersani è stato il fallimento dell’ultimo, ma ahinoi troppo tardivo, in ritardo di circa vent’anni, tentativo di svolta laburista “di sinistra”, che avrebbe potuto persino condurre, sull’onda del potere a livello di governo da parte del leader, all’unificazione tra PD e Sinistra Ecologia Libertà, che secondo me verrà realizzata ora da Renzi come nuovo “Blair”, con un “New” PD.
 
Il carattere bifronte della democrazia imperniata sulla leadership
 
  Va pure detto che il PD, proprio in quanto tanto povero di identità ideologica, e in certo modo leninista alla rovescia, rappresenta il passaggio dal partito dei militanti a quello dei simpatizzanti, imperniato sugli elettori esterni e al più sui loro eletti (in specie sui sindaci)i. Sembra che si vada verso il partito dei governanti eletti dal partito stesso e dai suoi elettori. Come in America, gli eletti non sembrano più la “longa manus” del partito, ma proprio il contrario. Non è, lì, l’”eligendo” o l’”eletto” ad essere l’”eligendo” o “eletto” del partito, ma è il partito ad essere “dell’eligendo” e “dell’eletto”. Per questo Renzi diventando segretario è diventato il presidente “in pectore”, realizzando una sorta di diarchia rispetto a Letta, per volontà dei “militanti ed elettori”. In termini ideal-politici e partitici sembra che incarni la socialdemocrazia alla Blair, cui esplicitamente si richiama (e il sottile Blair lo ha pure espressamente “ben visto”, “benedetto”). Il tentativo di mantenere la continuità col passato è finito. E il bravo Cuperlo è fallito perché persino suo malgrado l’ha impersonato. Nasce un “New PD”, che subito Renzi ha detto di volere nel Partito Socialista Europeo. Renzi sarà pur stato “popolare” a vent’anni, ma ora non lo è in nulla, a differenza di Letta, democristiano antropologicamente. Personalmente avrei preferito la “via Jospin”, ma ora la discontinuità può arrivare solo così (alla Blair), e ben venga, perché finalmente si esce dalle sabbie mobili. E va bene. Tanto più che sul piano decisivo della forma elettorale e di governo Renzi si gioca tutto su un terreno di avvicinamento al modello francese: bipolarismo a due turni, “sindaco d’Italia” (capo del governo indicato dagli elettori), governi per legge di chi ha vinto per tutta la legislatura. L’idea – per contro - che una ribollita di forme istituzionali proporzionaliste o prevalentemente tali, che ci hanno regalato una sinistra maggioritaria esclusa per cinquant’anni dal potere centrale, governi semestrali, connivenze continue tra maggioranza e opposizione, egemonia o fortissimo condizionamento da parte di partiti di centro, dissesto delle casse dello Stato, malaffare semilegalizzato in tanta parte del Sud, valga a salvarci, pare a me strampalata. Quella progressiva è l’altra. Finalmente ha trovato un forte leader e leadership, in un contesto di crescente unità a sinistra interna e presto - credo io - con SEL. Da ciò si può ripartire.
  Certo anche Renzi potrebbe fallire, inghiottito dalle sabbie mobili di una classe politica che vuol sempre cambiare tutto per non cambiare nulla. Ma questa volta non è affatto detto, anche perché il leader ora emergente sa bene che se non riuscisse a ottenere prestissimo almeno una nuova legge elettorale e di governo nel senso anzidetto, e forti risultati di “dimagrimento dello Stato”, sarebbe un gatto nato morto. Nel mio piccolo prevedo che tra poco “tutta la sinistra”, a partire da quella che lo ha votato - cui però molti altri soggetti strutturati e non potranno aggiungersi - lo seguirà con convinzione: pur tra forti polemiche future, interne, in materia di diritto del lavoro (su cui Renzi sembra pensarla come Pietro Ichino: il che però si vedrà soprattutto quando sarà diventato presidente del Consiglio, credo nel 2015). Comunque una cosa sembra a me chiara. Lo scacco delle soluzioni tradizionali in termini di opinione pubblica è ormai irreversibile. La lotta è tra tre forme di potere di tipo democratico, ma personalizzato e basato sul voto popolare diretto: quella già di Berlusconi (o chi per lui), quella di Grillo e quella di Renzi. Se fallirà Renzi, arriverà Grillo o un uomo (o donna) diBerlusconi. Ipotizzo che arriverà, a sorpresa, Grillo. Ma che cosa celi quel pentolone “cinquestellato” in ebollizione, nel fondo, non è chiaro. Potrebbe essere una nuova rivoluzione democratica, e ancora non lo escludo affatto, ma anche una rivolta neoreazionaria. Secondo me per ora non può saperlo nessuno, né tra i fautori né tra gli avversari irriducibili. Renzi, comunque, è l’ultima “chance” di una democrazia riformista o riformatrice in cammino. 
 




[1] E. BERLINGUER, Riflessioni dopo i fatti del Cile, Editori Riuniti, Roma, 1973. Contiene i tre famosi articoli interconnessi pubblicati sui n. 38, 39 e 43 di “Rinascita” del 1973. Si confronti con la raccolta di scritti dello stesso: La questione comunista (1969-1975), Editori Riuniti, 1975.
[2] Tutto il discorso di Gramsci sui blocchi storici alternativi e sulla differenza tra Oriente e Occidente nei Quaderni del carcere, edizione dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, lo attesta bene. Ma si confronti con: P. TOGLIATTI, Lezioni sul fascismo (1935 ma 1970), a cura di E. Ragionieri, Editori Riuniti, 1970. Questo necessario rappresentare immense masse, sia pure d’opposto segno, è proprio quello che estremisti e terroristi, di bande opposte, non hanno mai capito (persuasi o di poterne fare a meno o di poterle rappresentare senza verifica empirica di ciò in effettiva capacità di far votare o/e lottare per sé immense folle.
[3] Ho cercato di analizzare “Ragioni profonde e stato degli  ‘ismi’ tradizionali nel mio libro: I concetti politici nella storia. Dalle origini al XXI secolo, Giappichelli, Torino, 2008, pp. 181-360.
[4] Si veda l’edizione critica a cura di Emma Cantimori del 1948, e poi con introduzione di B.Bongiovanni, Einaudi, Torino, 1998.
[5] Einaudi, Torino, 1991.
[6] Bompiani, Milano, 1943.
[7] Lo si veda in: PLATONE, “Opere”, a cura di G. Giannantoni, due volumi.
[8] F. ENGELS, Lettere sul materialismo storico (1890), in: K. MARX – F. ENGELS, “Opere scelte”, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, 1971, pp. 1239-1254.
[9] A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, edizione dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Einaudi, 1975 (in: Quaderno 13, XXX, 1932-1934: “Noterelle sul Machiavelli”, al par. 27, alla voce “Il cesarismo”, pp. 1619-1622, con interessante contrapposizione e definizione a p. 1619).
[10] L’opera, postuma, è del1922, e a cura di Pietro Rossi, Comunità, 1969
[11] F. ENGELS, Lettere sul materialismo storico, cit.; G. PLECHANOV, La funzione della personalità nella storia (1899), Rinascita, Roma, 1956; (A. BORDIGA), Il battilocchio nella storia, “Il programma comunista”, n.7, 3-17 aprile 1953, Superuomo, ammosciati!, ivi, n. 8, 16-30 aprile 1953, Fantasime Carlailiane, ivi, n. 9, 7-21 maggio 1953 (con attribuzioni in: Amadeo Bordiga 1889-1970. Bibliografia, a cura di A. Peregalli e S. Saggioro, Colibri, Milano, 1995, pp. 145-146); L. ALTHUSSER, Lenin e la filosofia (1969), Jaca Book, Milano, 1972, con aperta teorizzazione della “storia senza soggetto”.
[12] R. MICHELS, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna. Studi sulle tendenze oligarchiche degli aggregati politici, 1912, e Il Mulino, Bologna, 1966. Si confronti, proprio per il passaggio alla teoria del “capo” come espressione diretta del popolo sovrano in forma di folla empaticamente a lui interconnessa, il libro del Michels fascista Corso di sociologia politica, Istituto Editoriale Scientifico, Milano, 1927.
[13] Per questi aspetti di Schmitt resta fondamentale: C. SCHMITT, Le categorie del “politico”. Saggi di teoria politica, a cura di G. Miglio e P. Schiera,Il Mulino, Bologna, 1972; per questo tratto di Hitler, si veda: A. L. CARLOTTI, Adolf Hitler. Analisi storica delle psicobiografie del dittatore, Angeli, Milano, 1984.
[14] J. A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, Comunità, Milano, 1955, sostiene tra l’altro che anche la democrazia è potere pieno delle élites, però sottoposte a scelta da parte degli elettori. Ma si veda: N. BOBBIO, Democrazia, in: “Dizionario di politica”, diretto da N. Bobbio, N. Matteucci e G. Pasquino, UTET, Torino, 1983, pp.308-318.
[15] Ci sono strane analogie tra tattica di Bordiga e del M5S nella relazione tra i partiti, che fanno sospettare che G. Casaleggio, che potrebbe essere il vero ispiratore ideologico e politico della compagnia, possa esser stato influenzato da tale visione. L’idea che tenendo fermo alla propria assoluta diversità, senza contaminazione con le altre forze politiche, in presenza di una crisi storica epocale il partito sarebbe stato raggiunto dalle masse e perciò si sarebbe trovato nella condizione di incassare il risultato dello scacco altrui, era bordighiana. Su ciò naturalmente rinvio al mio vecchio libro: Bordiga. Il pensiero e l’azione politica. 1912-1970, Editori Riuniti, Roma, 1976. Ma qui c’è ancor più immobilismo tattico, oltre che assenza di una teoria rivoluzionaria altrettanto forte. Non escludo che il M5S agisca in modo così miope sul piano tattico, condannandosi ad una modestissima rilevanza politica mentre è quasi il primo partito, ritenendosi alla vigilia di nuove elezioni sin dall’insediamento delle nuove Camere del febbraio 2013 (e dunque in campagna elettorale). Se la scelta fosse permanente, oltre a tutto in un contesto democratico, sarebbe di un nullismo politico assoluto. 
28/12/2013 13:27:08
comments powered by Disqus
20.03.2018
Aydin (*)
Questa settimana vorremmo proporvi un piccolo gioco: esaminare un episodio della storia alessandrina secondo i metodi analitici della storiografia anglosassone. La scuola storiografica inglese, che personalmente apprezziamo nel modo più assoluto e a cui cerchiamo di adeguarci quando scriviamo, dà molta...
 
17.03.2018
Marina Elettra Maranetto
“Brutto schifo” era la conclusione cui perveniva la mia amica olandese, che non è mai riuscita ad impossessarsi delle sfumature della nostra lingua, riassumendo con tratto ecumenico tutto ciò che la contrariava, dal particolare all’universale. Ed è quel brutto schifo che ogni giorno, come un rigurgito,...
12.03.2018
Marina Elettra Maranetto
Poco le era stato risparmiato perché non s’era risparmiata. Erano le parole di cui si serviva ad aver preso il posto dei sentimenti che le avevano afferrato la vita. Convertita all’età della saggezza, ma peccando d’orgoglio, si compiaceva d’interpretare ciò che l’interlocutore s’aspettava d’ascoltare...
 
11.03.2018
Patrizia Gioia
Questa mattina al teatro Filodrammatici: Libertà e Bellezza con la musica dei paesi: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia Woody Allen, con la febbrile ironia ebraica, dice che la musica di Wagner gli fa venire voglia di invadere la Polonia. Ascoltando invece la musica polacca e di questi...
04.03.2018
Elvio Bombonato
Via del Campo c'è una graziosa gli occhi grandi color di foglia tutta notte sta sulla soglia vende a tutti la stessa rosa. Via del Campo c'è una bambina con le labbra color rugiada gli occhi grigi come la strada nascon fiori dove cammina. Via del Campo c'è una puttana gli occhi grandi color...
 
28.02.2018
Marina Elettra Maranetto
“Zoccole pentite”, categoria onnicomprensiva che esula dall’accezione comune del termine esprimendo parità di genere. Sono i mutanti di schieramento politico che transumando verso un’altra parte più conveniente ne diventano sostenitori appassionati pensando di riscattarsi. Più realisti del Re,...
28.02.2018
Patrizia Gioia
Cari Amici, non è facile vivere la vecchiaia. Pare assurdo ma arriva come un temporale, previsto ma inaspettato, all'improvviso ti trovi addosso anni come pioggia, dai quali pare impossibile ripararsi, inutile cercare intorno tettoie, ombrelli, ripari, ormai sei bagnata e tutto il tuo corpo e la tua...
 
25.02.2018
Patrizia Gioia
«Gandhi, in una lettera a Sarojini Naidu, si definì una volta scherzosamente “mystic spinner”, ossia “filatore mistico”.Questa sua espressione scherzosa e unica rappresenta un suggerimento centrale per guidarci a ricomprendere noi attraverso la figura del “Mahatma”, il profilo insieme mistico e politico...
25.02.2018
Mauro Fornaro
La crisi della famiglia tradizionale si correla alla crescita delle cosiddette nuove famiglie o “famiglie moderne”. Si tratta di variegate tipologie tutte in crescita negli ultimi decenni pure in Italia: principalmente famiglie ricomposte, cioè formate da due partner che si mettono assieme portando...
 
17.02.2018
Nuccio Lodato
All'indimenticabile memoria di ZEUS, Gatto Nero incomparabile e insuperato [e al Micio Ignoto...
Segnali
Alessandro Gassman e Marco Giallini sul grande schermo ...
Al Teatro Sociale tornano i tanto attesi appuntamenti del Sabato Pomeriggio in Famiglia quest'anno una...
Segnaliamo un articolo comparso sulla rivista economiaepolitica.it in cui si sostiene la tesi che le...
Segnaliamo un interessantissimo articolo di Rosa Canelli e Riccardo Realfonzo sulla crescente disuguaglianza...
Il Forum dei Movimenti per la Terra e il Paesaggio annuncia che il Gruppo di Lavoro Tecnico-Scientifico...
Segnaliamo un interessantissimo articolo del prof. Felice Roberto Pizzuti docente di Politica Economica...
I MARCHESI DEL MONFERRATO NEL 2018 Si è appena concluso un anno particolarmente intenso di attività,...
Stephen Jay Gould Alessandro Ottaviani Scienza Ediesse 2012 Pag. 216 euro 12​ New York, 10 settembre...
Segnaliamo un interessante articolo comparso sulla rivista online economiaepolitica http://www.economiaepolitica.it/lavoro-e-diritti/diritti/scuola-sanita-e-servizi-pubblici/servizio-sanitario-nazionale-a-prezzo-regionale-il-paradosso-del-ticket/...
Segnaliamo, come contributo alla discussione, un interessante articolo comparso sul sito “Le Scienze.it” Link:...
Il Circolo Culturale “I Marchesi del Monferrato” presenta il suo nuovo progetto per il 2018: le celebrazioni...
Segnaliamo un interessante articolo comparso sulla rivista online economiaepolitica http://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/europa-e-mondo/la-ripresa-e-lo-spettro-dellausterita-competitiva/...
DA OGGI IN RETE 2500 SCHEDE SU LUOGHI, MONUMENTI E PERSONAGGI A conclusione di un intenso lavoro, avviato...
Segnaliamo il libro di Agostino Spataro, collaboratore di Cittàfutura su un argomento sempre di estrema...
Memoria Pietro Ingrao Politica Ediesse 2017 Pag. 225 euro 15 Ha vissuto cent’anni Pietro Ingrao...
News dai media nazionali:
Ultime Notizie
facebook
"Citta` Futura on-line" è la testata giornalistica dell`associazione Citta` Futura registrata 
in data 20 gennaio 2012 con atto n°1 presso il Registro della Stampa del Tribunale di Alessandria.
Redazione Mobile:  +39.3351020361 (SMS e MMS)  - Email: cittafutura.al@gmail.com 

Oltre le informazioni. Opinione ed approfondimento.