Terza Pagina
La fine dell'onniscienza
Francesco Roat
Nella tradizione scientifica dell’età moderna, da Galileo ad Einstein, è ricorrente un sogno – nota Mauro Ceruti nel suo ultimo acuto e provocatorio saggio: La fine dell’onniscienza (Ed. Studium) -“avere accesso ai destini futuri dell’universo”; poter controllare, dominandoli, ambiti sempre più vasti del reale e prevedere con considerevole sicurezza ciò che accadrà. In una tale visione è sottinteso un ideale ben preciso: giungere ad una conoscenza oggettiva/definitiva dei fenomeni, riuscendo a scoprire le leggi eterne ed immutabili che regolano il mondo naturale. Il che implica un progetto a dir poco titanico, consistente nel vagheggiamento di: “filtrare l’infinito nel finito” e nella forzatura del voler “ridurre l’eterogeneo all’omogeneo”, in cerca di un’improbabile semplicità che si troverebbe dietro l’apparente complessità degli eventi.
Alla base di quest’ottimistica e prometeica visione del mondo vi è altresì un assioma basilare, consistente nel ritenere che, grazie alla scienza, l’uomo possa dare a tali leggi delle: “formulazioni matematiche quantitative e computabili”. Tuttavia, sottolinea Ceruti, sono state proprio le più recenti ricerche e scoperte scientifiche a farci prendere atto di come esistano livelli di realtà che non sono spiegabili in base alla classica concezione epistemologica che per secoli ha dominato l’Occidente. Si pensi solo al microcosmo della fisica subatomica: ambito assai dissimile e altro rispetto alle dinamiche riscontrabili nel cosiddetto macrocosmo. Per non parlare del fatto che oggi siamo (o meglio dovremmo essere) ormai ben consapevoli di come – vedi Heinz von Foerster – ogni descrizione dell’universo implica e non può prescindere da colui il quale la descrive, ossia dall’osservatore. E questo non certo solo in relazione all’analisi delle particelle subatomiche.
Occorre inoltre ammettere che, pure rispetto alla scienza, nel terzo millennio non si può non tener conto del: “carattere irriducibilmente storico di tutte le nostre definizioni, di tutti i principi euristici e regolativi del nostro sapere”, rimarca con insistenza Ceruti, evidenziando l’illusorietà di poter raggiungere certezze assolute e/o verità incontrovertibili. Questo non deve comportare però nichilismi o scetticismi d’alcun genere. Al contrario si tratta di riconoscere semmai la “natura” quale originatrice delle proprie forme (leggi) e delle proprie costanti, non necessariamente/eternamente invarianti. Come a dire, ad esempio, che le regolarità del nostro universo (gravitazione, elettromagnetismo, interazione nucleare forte e debole) costituiscono dei vincoli relativi alla sua storia e non delle necessità dal carattere astratto e atemporale.
In altre parole: la “narrazione” scientifica tratta sì del mondo ma innanzitutto di noi e delle nostre possibilità conoscitive; specie quando si pone come cosmologia o discorso sull’universo (ma c’è chi parla piuttosto di multi-verso); discorso, ovviamente, che mai e poi mai potrà considerarsi esaustivo e/o definitivo, data: “l’inesauribilità e la molteplicità delle architetture del cosmo”. Così ciò che ai nostri giorni sembra d’inderogabile urgenza è l’imperativo categorico a emanciparci una volta per tutte dal falso mito dell’onniscienza/onnipotenza; vera e propria hybris: autentica tracotanza cui s’è macchiato per sin troppo tempo l’homo sapiens.
Quindi Ceruti auspica un’antropologia consapevole dei propri limiti e obbligata a ri-pensarsi davvero, rifiutando in primo luogo lo sfruttamento selvaggio del pianeta, vaccinandosi contro la falsa utopia di un progresso caratterizzato da improponibili magnifiche sorti e progressive, infine conciliando tecnoscienza e saggezza, in una inedita alleanza tra uomo e ambiente. Per un nuovo Umanesimo non più all’insegna di un universalismo astratto, come ha puntualizzato Edgard Morin, ma reso concreto dalla comunanza di: “un destino irreversibile, che lega ormai tutti gli individui e i popoli del pianeta, e l’umanità intera all’ecosistema globale e alla Terra”.
29/09/2015 17:07:11
20.03.2018
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