Il tradizionale Gioco dell’Oca non va considerato affatto
come un gioco. Tale asserto non esprime certo una mera contraddizione di
termini ma costituisce la tesi/ottica interpretativa che sta alla base del
saggio di Roberta Borsani Sul dorso di
un’oca. Il simbolismo iniziatico del Grande Gioco (Moretti&Vitali). Come
tuttavia sottolinea l’autrice, va chiarito subito che lungo i secoli il Gioco
dell’Oca è stato sempre recepito dai più come un gradevole passatempo sia per
bambini che per adulti (nel Cinquecento e nel Seicento esso era assai
apprezzato presso le corti aristocratiche europee), anche grazie alla
semplicità delle sue regole e al fascino evocativo delle immagini che
illustrano molte delle caselle di questo accattivante gioco da tavola. Però
vari etnologi e studiosi del folklore hanno colto piuttosto in questo gioco ‒
nota Borsani ‒: “la rappresentazione di un progresso iniziatico, all’interno
del quale sono contemplate esperienze spirituali profonde”.
Infatti il percorso a spirale a processo sinistrorso (lungo
il quale ora si avanza, ora si retrocede, ora ci s’arresta in uno stallo paralizzante)
che lo caratterizza allude senz’altro ad un viaggio interiore alla ricerca
della propria autenticità. Si potrebbe anche dire, in termini junghiani, che
esso alluda a un lento, sofferto e laborioso percorso/processo di
individuazione. Non a caso le caselle/stazioni maggiormente significative del
Gioco dell’Oca ‒ il ponte, la locanda, il pozzo, la prigione, la morte ‒
rimandano ad ambiti liminari/cruciali, in cui appunto occorre mettersi in gioco totalmente e con la
massima serietà se si vuole procedere nella maturazione/crescita personale, la
quale mai avviene senza che ci si debba misurare con le perdite, gli ostacoli
e/o i problemi più o meno dilemmatici che ogni cammino esistenziale prevede.
Il Gioco dell’Oca ‒ suggerisce ancora Roberta Borsani ‒
rimanda pure al viaggio del pellegrino, dell’uomo errante per antonomasia che
s’incammina lungo un itinerario nel segno del sacro, confidando alla fine del
tragitto vi possa essere una sorta di conciliante/consolante “ritorno a casa”:
alle proprie radici mai del tutto disseccate, a quella “unità” omnicomprensiva
“che si irradia nella molteplicità senza perdersi”. Gioco/itinerario
estremamente serio, si accennava sopra, ma al contempo anche gaio, se sappiamo
far nostra la concezione induista della vita e del mondo-universo quale lila: quale gioco cosmico caleidoscopico
e impermanente, messo in moto dalla divinità. Concezione che dovrebbe
permetterci di divenire umili e ridimensionare assai le istanze/brame egoiche,
rivolte a voler tutto dominare, soggiogare, controllare. In una parola: a
vincere. Così guardando al Gioco dell’Oca si dovrebbe comprendere che la sua
finalità, paradossalmente, non è la conquista della sessantatreesima casella (o
novantesima, in certe varianti), poiché il suo senso profondo sta semmai
nell’erranza stessa e nella sua accettazione/accoglienza.
Ce lo indica il moto tracciato dalla spirale che, pur procedendo
sempre oltre, sembra volgersi indietro, ritornare sui propri passi, riformulare
quasi ad ogni svolta la strategia del proprio movimento. Visto in controluce,
osserva inoltre l’autrice, “il Gioco dell’Oca può insegnare cose profonde,
segreti dell’arte del viaggio, quello grande che porta fin nelle valli oscure
della morte senza smarrire la luce del ritorno ‒ anch’esso grande ritorno ‒
all’Uno”. E l’oca selvatica (in antico animale totemico e guida presso gli
sciamani euroasiatici), nobile uccello migratore, conosce le trasferte
avventurose e soprattutto l’arte del ritorno, che è destinazione/meta forse
ancor più problematica dell’andata. Comunque sia, l’accento è da porre sul
dinamismo/vitalismo del movimento che rappresenta insieme il mutamento cui
siamo sottoposti, in quanto ogni stasi/rigidità significa morte. Ma appare
altrettanto letale un’attività/motilità maniacale, fine a se stessa, costituita
da un vagare senza direzione o bussola alcuna, che equivale solo a smarrirsi.
Interessante è altresì la sottolineatura, da parte della
Borsani, del ruolo che nel nostro Gioco ha il lancio dei dadi, a cui il
giocatore in un certo qual senso affida il proprio destino, sfidando in
parallelo la sorte. Ciò in effetti comporta: “confrontarsi con un percorso in
cui non tutto può essere controllato dall’io volitivo e cosciente”. Il Gioco
dell’Oca quindi, non tanto ha a che fare con la fortuna, quanto con la capacità
di tollerare/accettare il destino, tramite un positivo amor fati, grazie al quale saper affrontare con serenità le caselle
fauste ed infauste e le sorti d’una partita
che ancora una volta persino etimologicamente rimanda al viaggio esistenziale
con cui ogni vivente è alle prese.
Polimorfe sono perciò le stazioni (sempre provvisorie)
del Gioco dell’Oca ed ognuna di esse è ancipite, rappresentando al contempo un
pericolo e un’opportunità, una chiusura ed un’apertura, uno svantaggio che
potrebbe rivelarsi insomma ‒ se ben gestito ‒ un vantaggio. Emblematica quella
della morte (o dello scheletro), collocata al numero 58 che non fa perdere il
giocatore, né lo bandisce/annichilisce, rimandandolo invece alla casella
iniziale del percorso, al quel numero uno che simboleggia appunto l’inizio ma
pure l’unità, la pienezza, la totalità dell’essere. E giusto intono al tema
della morte e del morire ineludibile Roberta Borsani ha scritto, a mio avviso, pagine umanissime d’estrema pietas e di profonda saggezza. Come la
conclusiva del saggio, intorno alle “sirene” d’un sedicente progresso
scientifico che banalizza/esorcizza la morte e il morire tentando di
anestetizzarne il dolore tramite le pratiche eutanasiche: “Come se la paura
della morte fosse solo paura della sofferenza fisica, e non anche, per forza di
cose e perché l’uomo non è un animale, paura di non essere più, di essere stato
inutilmente, paura di ciò che potrebbe attendere o non attendere nell’aldilà”.