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Sulla "Filosofia della Nascita"
Francesco Roat


 

L’idea che il nascere sia una maledizione è vecchia quanto la filosofia occidentale e la precorre; si pensi solo al mito del Sileno ‒ ritenuto precettore del dio Dioniso ‒ che al re Mida, desideroso di sapere quale fosse per l’uomo il meglio, rispose: il non esser mai nato e, comunque, il morire al più presto. Per non parlare dell’orrore della nascita nella tragedia greca, soprattutto in Eschilo e in Sofocle. Una visione pessimistica intorno all’esistere fatta propria da vari ed illustri filosofi ellenici (Zenone, Anassimandro, Eraclito, Empedocle, Plotino), che verrà ripresa nel mondo romano (Lucrezio, Petronio), e quindi nel pur variegato panorama del pensiero medioevale, persino in ambito cristiano (gnosi), per tornare presente ‒ nella modernità ‒ soprattutto nell’Ottocento (Schopenhauer, Kierkegaard, Leopardi) e nel Novecento (Cioran, Anders): secolo dominato da una sorta di tanatologia filosofica. Valga per tutte la celeberrima concezione heideggeriana dell’esserci umano (Dasein) quale un “essere-per-la-morte” (Sein zum Tode), non già per la vita.

Ed è soprattutto guardando allo scorso secolo, ma non solo, che il saggio di Silvano Zucal, intitolato Filosofia della nascita (Morcelliana), dopo aver preso in esame i filosofi della morte come condizione ontologica fondamentale, cerca di esplorare quello da lui chiamato: “un paradigma alternativo, non più focalizzato sulla morte ma piuttosto sulla nascita”. Tale attenzione all’evento primo e fondante di ogni esistenza è stata rivolta in primo luogo da figure femminili (materne?), come Hannah Arendt e Maria Zambrano, alle quali Zucal concede ampio spazio, non scordando certo di soffermarsi sul pensatore che, a suo avviso, più di altri ha dedicato una riflessione eminentemente teoretica all’evento natale, ossia il filosofo tedesco Peter Sloterdijk;  senza tralasciare di mettere in luce, sullo stesso argomento, anche i contributi ‒ tra teologia e filosofia ‒ di Romano Guardini, specie quanto concerne la tematica nascita-rinascita ed il significato della resurrezione cristica.

Non a caso da talune visioni tragico-pessimistiche intorno all’umano nascimento presenti nella cultura ebraica ed anche nell’Antico Testamento (Geremia, Giobbe, Giona, Qoèlet), la prospettiva muta radicalmente nel Nuovo Testamento, dove, ci ricorda Zucal: “Tutto parte dall’annuncio di una nascita e dall’evento di una nascita”, ovvero dallo scandalo di Betlemme, dove è “un Dio che nasce e si fa uomo”. Ma, accennavo sopra, la parte più felice di questo bel saggio del nostro professore di filosofia teoretica e filosofia della religione all’Università di Trento, è a mio avviso quella intorno alle due donne che nel Novecento hanno cercato di rivalutare/rivedere in una luce nuova/alternativa il positivo evento natale come condizione di libertà e creatività.

Vedi in primo luogo Hannah Arendt che, a differenza di Heidegger ‒ di cui fu pure allieva e amante ‒, non vede tanto l’uomo drammaticamente gettato nel mondo quanto piuttosto accolto: da una figura genitoriale quanto meno, senza la quale paradossalmente il neonato non potrebbe nemmeno nascere davvero come persona, mancandogli un tu da riconoscere e tramite cui essere riconosciuto/introdotto nel mondo degli umani. Così alla “cifra luttuosa” heideggeriana, si contrappone quella vivifica arendtiana che vede nella natalità un vero e proprio miracolo stupefacente che consente ogni volta un nuovo inizio, la possibilità di dar luogo a qualcosa di aurorale/originale, inedito, unico. Così il gesto del nascere esprime al contempo la speranza/fiducia in una realtà tutta da sperimentare, innovare, costruire, essendo eminentemente evento cairotico: inaugurale/opportuno e propizio. L’uomo, infatti, secondo Arendt, è capace di uno straordinario potere, dalle caratteristiche divine, quello appunto di creare l’innovazione, la trasformazione, quindi di cambiare il mondo.

Ma è Maria Zambrano, a detta di Zucal, la pensatrice novecentesca che dovrebbe essere chiamata la filosofa della nascita per antonomasia, giacché il suo modo di porsi può venire inteso quale un inesausto e gioioso ringraziamento/gradimento per il dono della vita, che abbiamo ricevuto gratis. E l’esistenza, per Zambrano, è dimensione entro cui ogni giorno rinascere, ad ogni occasione o svolta della vita ‒ sia essa da noi considerata negativa che positiva ‒, tornare a nascere risvegliandoci da qualsiasi notte burrascosa o tranquilla essa sia stata. Ciò non significa affatto banale ottimismo/vitalismo. Se consideriamo la vita di questa grade figura di donna segnata duramente dalla malattia e dall’esilio non possiamo minimamente pensare ciò. Inoltre, ricominciare di continuo è cosa ardua per tutti e di conseguenza, sottolinea Zucal: “si può sempre rinascere, anche se portare a compimento il proprio essere non è mai un trionfo, ma sempre e piuttosto una difficile e sofferta esperienza vissuta di auto-spogliazione”.

Non si può d’altra parte, afferma Zambrano, rinascere senza nudità, ossia senza venire incessantemente privati di quanto indossiamo e costretti, prima o tardi, a disfarci del troppo certo e sicuro che abbiamo accumulato. Ma è necessario trovare il coraggio di accettare, quando le circostanze ci spingano a farlo, tale nudità, che deve tuttavia essere preludio a una nuova veste, a una ripresa dell’itinerario esistenziale senza stelle fisse all’orizzonte, fondamenti o certezze cui ancorarci. È il cammino spirituale del nomade mistico che a nulla si aggrappa e tutto accoglie/accetta, facendo proprio il suo destino senza angoscia mediante un sì fiducioso alla vita ed alla rinascita quotidiana che solo i superficiali possono interpretare come passività o fatalismo.

13/11/2017 19:51:15
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