L’idea che il nascere
sia una maledizione è vecchia quanto la filosofia occidentale e la precorre; si
pensi solo al mito del Sileno ‒ ritenuto precettore del dio Dioniso ‒ che al re
Mida, desideroso di sapere quale fosse per l’uomo il meglio, rispose: il non
esser mai nato e, comunque, il morire al più presto. Per non parlare
dell’orrore della nascita nella tragedia greca, soprattutto in Eschilo e in
Sofocle. Una visione pessimistica intorno all’esistere fatta propria da vari ed
illustri filosofi ellenici (Zenone, Anassimandro, Eraclito, Empedocle, Plotino),
che verrà ripresa nel mondo romano (Lucrezio, Petronio), e quindi nel pur
variegato panorama del pensiero medioevale, persino in ambito cristiano (gnosi),
per tornare presente ‒ nella modernità ‒ soprattutto nell’Ottocento
(Schopenhauer, Kierkegaard, Leopardi) e nel Novecento (Cioran, Anders): secolo
dominato da una sorta di tanatologia filosofica. Valga per tutte la celeberrima
concezione heideggeriana dell’esserci umano (Dasein) quale un “essere-per-la-morte” (Sein zum Tode), non già per la vita.
Ed è soprattutto
guardando allo scorso secolo, ma non solo, che il saggio di Silvano Zucal,
intitolato Filosofia della nascita
(Morcelliana), dopo aver preso in esame i filosofi della morte come condizione ontologica fondamentale, cerca di
esplorare quello da lui chiamato: “un paradigma alternativo, non più
focalizzato sulla morte ma piuttosto sulla nascita”. Tale attenzione all’evento
primo e fondante di ogni esistenza è stata rivolta in primo luogo da figure femminili
(materne?), come Hannah Arendt e Maria Zambrano, alle quali Zucal concede ampio
spazio, non scordando certo di soffermarsi sul pensatore che, a suo avviso, più
di altri ha dedicato una riflessione eminentemente teoretica all’evento natale,
ossia il filosofo tedesco Peter Sloterdijk; senza tralasciare di mettere in luce, sullo
stesso argomento, anche i contributi ‒ tra teologia e filosofia ‒ di Romano
Guardini, specie quanto concerne la tematica nascita-rinascita ed il
significato della resurrezione cristica.
Non a caso da talune
visioni tragico-pessimistiche intorno all’umano nascimento presenti nella
cultura ebraica ed anche nell’Antico Testamento (Geremia, Giobbe, Giona, Qoèlet),
la prospettiva muta radicalmente nel Nuovo Testamento, dove, ci ricorda Zucal: “Tutto
parte dall’annuncio di una nascita e dall’evento di una nascita”, ovvero dallo scandalo di Betlemme, dove è “un Dio che
nasce e si fa uomo”. Ma, accennavo sopra, la parte più felice di questo bel saggio
del nostro professore di filosofia teoretica e filosofia della religione
all’Università di Trento, è a mio avviso quella intorno alle due donne che nel
Novecento hanno cercato di rivalutare/rivedere in una luce nuova/alternativa il
positivo evento natale come condizione
di libertà e creatività.
Vedi in primo luogo Hannah
Arendt che, a differenza di Heidegger ‒ di cui fu pure allieva e amante ‒, non
vede tanto l’uomo drammaticamente gettato
nel mondo quanto piuttosto accolto:
da una figura genitoriale quanto meno, senza la quale paradossalmente il
neonato non potrebbe nemmeno nascere davvero come persona, mancandogli un tu da
riconoscere e tramite cui essere riconosciuto/introdotto nel mondo degli umani.
Così alla “cifra luttuosa” heideggeriana, si contrappone quella vivifica arendtiana
che vede nella natalità un vero e proprio miracolo stupefacente che consente
ogni volta un nuovo inizio, la possibilità di dar luogo a qualcosa di aurorale/originale,
inedito, unico. Così il gesto del nascere esprime al contempo la
speranza/fiducia in una realtà tutta da sperimentare, innovare, costruire,
essendo eminentemente evento cairotico:
inaugurale/opportuno e propizio. L’uomo, infatti, secondo Arendt, è capace di
uno straordinario potere, dalle caratteristiche divine, quello appunto di creare l’innovazione, la trasformazione,
quindi di cambiare il mondo.
Ma è Maria Zambrano, a
detta di Zucal, la pensatrice novecentesca che dovrebbe essere chiamata la
filosofa della nascita per antonomasia, giacché il suo modo di porsi può venire
inteso quale un inesausto e gioioso ringraziamento/gradimento per il dono della
vita, che abbiamo ricevuto gratis. E
l’esistenza, per Zambrano, è dimensione entro cui ogni giorno rinascere, ad
ogni occasione o svolta della vita ‒ sia essa da noi considerata negativa che
positiva ‒, tornare a nascere risvegliandoci da qualsiasi notte burrascosa o tranquilla essa sia stata. Ciò non significa
affatto banale ottimismo/vitalismo. Se consideriamo la vita di questa grade
figura di donna segnata duramente dalla malattia e dall’esilio non possiamo minimamente
pensare ciò. Inoltre, ricominciare di continuo è cosa ardua per tutti e di
conseguenza, sottolinea Zucal: “si può sempre rinascere, anche se portare a
compimento il proprio essere non è mai un trionfo, ma sempre e piuttosto una
difficile e sofferta esperienza vissuta di auto-spogliazione”.
Non si può d’altra
parte, afferma Zambrano, rinascere senza
nudità, ossia senza venire incessantemente privati di quanto indossiamo e
costretti, prima o tardi, a disfarci del troppo
certo e sicuro che abbiamo accumulato. Ma è necessario trovare il coraggio
di accettare, quando le circostanze ci spingano a farlo, tale nudità, che deve
tuttavia essere preludio a una nuova veste,
a una ripresa dell’itinerario esistenziale senza stelle fisse all’orizzonte,
fondamenti o certezze cui ancorarci. È il cammino spirituale del nomade mistico
che a nulla si aggrappa e tutto accoglie/accetta, facendo proprio il suo
destino senza angoscia mediante un sì fiducioso alla vita ed alla rinascita
quotidiana che solo i superficiali possono interpretare come passività o fatalismo.