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La fine della democrazia*
Emilio Giribaldi

Agli esperti la trattazione del profilo prettamente politico della questione.

Commento sintetico. Sembra evidente che la fine, o l’evoluzione o la trasformazione in qualcosa che non sappiamo - e che per ora non siamo in grado di sapere - della democrazia rappresentativa causata da più fattori, non ultimi la cosiddetta globalizzazione, l’enorme diffusione dei mezzi televisivi, l’altrettanto enorme sviluppo della telematica (fenomeni che a fronte di molti effetti positivi presentano aspetti di senso opposto quali le suggestioni propagandistiche, la superficialità di analisi e di giudizi, le aspirazioni ad obbiettivi irrealistici e simili, lo scadimento della politica tradizionale e il sempre minore apprezzamento per chi vi si dedica) rendono più che mai indispensabili i punti fermi delle Costituzioni democratiche a tutela da un lato dei diritti fondamentali e (teoricamente!) non rinunciabili, soprattutto di libertà, delle persone, e dall’altro del principio di legalità formale e sostanziale a tutti i livelli che dovrebbe vincolare tanto i governati quanto governanti. Salvo che la fine della democrazia rappresentativa significhi tout court ingresso in regimi autoritari o peggio, il che è purtroppo possibile come la Storia ci  mostra.           

Una considerazione sembra interessante. Uno degli effetti negativi della crescita esponenziale dei rapporti economico-sociali nel mondo moderno è costituito da quello che potremmo chiamare accanimento legislativo; il che vale certamente non solo per quella che in tempi andati godeva della fama di patria del diritto ma anche in generale per tutte le nazioni progredite, anche quelle anglosassoni basate sulla “Common Law”: in questi ultimi ordinamenti non vengono da tempo più ritenuti sufficienti il diritto giurisprudenziale e il principio del precedente, occorrono leggi scritte se non codificazioni; e per altro aspetto è esemplare la pratica innocuizzazione a colpi di emendamenti e di interpretazioni di comodo della legge statunitense in materia di controllo delle banche e delle attività finanziarie, di cui si è avuta notizia recente. 

 Restando a casa nostra, sembrano passati i tempi in cui i cosiddetti operatori del diritto (compresa nel concetto la pubblica amministrazione in generale) potevano lavorare con gli strumenti dei quattro codici civili e penali e delle leggi amministrative fondamentali (sullo sfondo, ovviamente lo Statuto albertino e poi la Costituzione del 1948). Le lamentele sull’enorme numero di leggi e leggine (di molte delle quali un ministro del passato governo pretese persino di fare un falò!) e sulla complicazione e farraginosità di molti testi sono ormai generali. Eppure, e credo che molti di noi l’abbiano notato, non appena di profilano problemi di un qualche rilievo nei campi più svariati c’è subito qualcuno, e non solo qualcuno, pronto a reclamare leggi nuove destinate a ingrossare il mucchio senza che ci si curi troppo o magari per niente di accertarsi se le norme che ci sono già siano applicabili per via di corretta interpretazione anche al caso realmente o apparentemente nuovo; si aggiunga che pressoché costantemente la stesura dei nuovi testi di legge è stiracchiata da interessi e compromessi corporativi, se non peggio, con l’effetto di rendere inadeguato il prodotto finale. E col risultato inevitabile di aumentare la confusione soprattutto nei cittadini che vedono crescere i tempi, le difficoltà e i costi dell’applicazione delle normative.

Se dovessi fare l’elenco delle leggi inutili, superflue, molte inutilmente costose e tutte dannose che, in 45 anni di servizio in magistratura, ho visto entrare in vigore per poi rifluire nel mucchio di cui sopra credo che ci vorrebbero alcune ore. Mi pare sufficiente un esempio su una vicenda recente e tuttora in corso. In Parlamento è in atto una vera e propria battaglia su una ennesima modifica del codice penale in materia di corruzione. Lasciamo da parte la questione assai delicata della distinzione tra corruzione e concussione e del progetto di ridimensionamento del, più grave, secondo reato, perché il discorso cadrebbe inevitabilmente in polemica. E non commentiamo neppure, per la stessa ragione, perché la nuova norma (che vorrebbe essere più severa) trova tanti ostacoli. Diciamo semplicemente questo: anziché - con lo scopo almeno dichiarato di combattere il fenomeno criminoso sempre più micidiale ed evitare impunità per decorso del tempo - litigare per mesi su nuove formule, aumento delle pene, nuove circostanze aggravanti e via di seguito, basterebbe che, come avviene in pressoché tutti i paesi del mondo occidentale, si rendesse inoperante la prescrizione, e per tutti i reati, con l’inizio del procedimento penale contro uno o più soggetti individuati: la sanzione sarebbe assicurata sulla base della norma ora in vigore e modulata dal giudice a seconda della gravità del fatto e delle altre circostanze, e in tempi più brevi data anche l’inutilità della proposizione di impugnazioni dirette unicamente ad arrivare all’estinzione del reato: basterebbe mezza dozzina di parole!

Perché ciò non si faccia può essere materia di discussione, ma cadremmo, ancora una volta, in polemica. Ci possiamo limitare a richiamare la “prassi” abbastanza diffusa di confondere, volutamente o meno, il proscioglimento per prescrizione con l’assoluzione nel merito.

La stessa tendenza, ma che ha risvolti ancora più preoccupanti, si constata nei riguardi della nostra carta costituzionale.

Qualcuno ha persino pensato male, e cioè che si tratti di diversivi diretti a far passare in seconda linea l’incapacità o il rifiuto di affrontare i gravissimi problemi e le difficoltà reali del momento. Ma una cosa sembra comunque certa: le modifiche di ordine costituzionale si dovrebbero fare in epoche possibilmente tranquille. Eccettuate ovviamente quelle rivoluzionarie.

Si può dire non passi giorno senza che spuntino proposte più o meno originali o più o meno serie di revisione, le quali tra l’altro sembrano non tenere alcun conto della procedura e dei tempi occorrenti secondo l’articolo 138 della Carta (doppia votazione a intervallo non minore di tre mesi, maggioranza qualificata, possibilità di referendum confermativo senza quorum). Ma qualcuno vorrebbe anche “addomesticare” l’articolo 138!  A leggere i giornali e ad ascoltare le televisioni sembra che molti personaggi della politica nostrana nutrano la ferrea opinione che i guai della terribile crisi economica planetaria che investe con particolare virulenza il nostro Paese, del malfunzionamento della pubblica amministrazione, dell’inefficienza della giustizia penale e soprattutto civile, dello scollamento sociale prodotto dalla disoccupazione, della crisi della scuola e via dicendo si possano risolvere a colpi di bacchetta magica: la revisione costituzionale! C’è chi vuole la repubblica presidenziale o semipresidenziale o alla francese; chi pensa e dice che tutti o quasi tutti i guai stanno nell’articolo 1 o nell’articolo 35 o nel 41 (il liberismo a senso unico che ci ha deliziato negli ultimi anni!); chi vorrebbe modificare il sistema di elezione dei giudici costituzionali (forse per impedire eccessivi disturbi al manovratore?); chi aspira a dare una regolata all’indipendenza della magistratura non solo con un nuovo sistema di responsabilità civile (una legge in materia esiste da tempo, è la 13 aprile 1988 n. 117, ma si vuole anche la responsabilità diretta, in modo da indurre i giudici meno “robusti” a dare ragione al più forte, a scanso di guai!), ma anche, pensate un po’, con l’estrazione a sorte dei componenti togati (non di quelli politici, beninteso!) del Consiglio Superiore della Magistratura in luogo dell’elezione, per mettere fuori giuoco, si dice, le correnti corporative dell’Associazione Nazionale Magistrati; e via discorrendo. Si ignora e si vuole ignorare che tutte le modifiche affrettate sinora apportate al testo della Carta, salvo qualche caso fortunato, hanno fatto cattiva prova. E il vizio, a modesto avviso di un dilettante di diritto costituzionale che ha letto qualcosa in materia, sta nel fatto che, essendo una costituzione, e specificamente la nostra Costituzione, un sistema complesso e delicatissimo di regole, di equilibri e di presidi inteso a garantire i diritti fondamentali e la legalità formale e sostanziale nella cornice del regolare funzionamento di tutti gli organi essenziali di quello che si è sempre chiamato Stato di diritto, qualsiasi modifica anche se in ipotesi limitata a singoli punti è destinata inevitabilmente a incidere su altri.

Se si vuole istituire il Senato delle regioni occorre incidere anche sull’ordinamento delle regioni stesse e sui poteri dell’altra Camera e della Corte Costituzionale. Ammettiamo che si possa anche pensare alla Repubblica presidenziale alla francese, all’americana o di altra provenienza, o all’elezione diretta del presidente del Consiglio: ma  ciò alla condizione ineludibile di prevedere i “contrappesi” del caso (nuovi poteri alla Corte Costituzionale e al Senato delle Regioni nella prima ipotesi, alla stessa Corte e al Presidente della Repubblica nel secondo). Tanto per fare qualche esempio. In ogni caso, sembra assolutamente necessario evitare le improvvisazioni inqualificabili che hanno prodotto il pasticcio (per usare un eufemismo) fortunatamente bocciato dal referendum del 2006.

Trovare i rimedi contro questa che molti considerano fuga dalle vere responsabilità di notevole parte della classe politica è certamente arduo. Tanto per tentare, si potrebbe suggerire, come ha fatto venerdì scorso il professor Maurizio Viroli all’Università di Asti in una lezione veramente magistrale nel quadro del master in “civil education” organizzato da “Ethica”, di introdurre nelle politica, nella scuola (dalle elementari all’Università) e nella società civile quella che è stata definita la cultura della legalità (legalità costituzionale, legalità ordinaria, legalità nei comportamenti del privato cittadino, dell’amministratore, del produttore, del politico). “Vaste programme” qualcuno potrebbe commentare richiamando un detto attribuito a Charles De Gaulle a proposito di argomento diverso ma non troppo da quello di cui oggi si discute. Ma bisognerebbe comunque tentare.

* Forum a margine della conferenza sul tema “Fine della democrazia rappresentativa?” tenuta da Sergio Romano ad Asti Palazzo del Collegio il 10 giugno 2012.

 

15/06/2012 09:17:21
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