La metamorfosi ha avuto inizio un sabato
mattina ritirando la posta.
Accadono così le cose, infilandosi nella
normalità come una lisca di pesce nella gengiva: non te ne accorgi e dopo due
giorni si forma un ascesso.
Sembrava
una lettera da cestinare con le altre che intasano le cassette postali, ma il
logo azzurrognolo, inoffensivo, chissà perché invitava a cadere nella trappola
della lettura. Maico e null’altro. Chi sei? Dopo le prime parole ormai ero
spacciata: l’offerta di una visita audiometrica gratuita, con annesso il mese di prova dell’ultima
novità in fatto di protesi per sordi, m’aveva ghermita. La riga rossa dell’ira
era salita dai visceri alla testa. Questi vogliono rubarmi il futuro quando mi
sento in piena crisi d’onnipotenza.
Ci sento benissimo. Il più flebile
sospiro, il battito del cuore, il sussurro di una foglia. Sono giovane, ancora.
Già… ma perché sento il bisogno di affermarlo con tanta emotività? E’ quell’
“ancora” a destare il sospetto di non esserlo più. Rabbrividendo mi scruto, mi
spio, e avverto il malessere come un tormento di mosca. Mi chiedo quale Cia
d’informatori voglia trascinare anche me, soggetto passivo, nella malevola
visione di montascale, pannoloni, cataratte, plantari, e similari inconvenienti
dell’età di Maico.
La fuga da un futuro prossimo, nel quale
ero andata a strofinare la faccia, parve risolversi nel gesto di annientare la
lettera nella spazzatura e nulla di ciò che era accaduto sembrava destinato ad
affiorare. I giorni apparivano quelli di prima, i passi altrettanto lievi. Ma
non è stato così. Ho tagliato i capelli cortissimi, abbandonato i tacchi bassi
e le tonalità sobrie. Ho accantonato l’ultimo briciolo di saggezza per
inciampare in scemenze quotidiane, elaborando teorie assolutorie. Ho mangiato
distanze in treno e in aereo. La vita prendeva la forma di una continua vacanza
e il conto in banca arrossiva. Stavo diventando adoratrice di me stessa, ma la
solitudine, un tempo amica e confidente, pesava come un macigno di malinconia.
La cupola di notte africana pareva
circoscrivere il luogo per salvare dal nulla stelle tanto grandi da sentirle
addosso. Passeggiando lungo la spiaggia, stanca di raccontarmi uno stupore che si avvitava nella mia testa, avevo preso
la direzione di una musica in lontananza. Non ricordavo d’essere entrata in un
locale, ma la voce che intonava canzoni della mia giovinezza, tra i classici
intramontabili come aspiravo ad essere anch’io, fece da esca. In giro quasi nessuno. La voce sovrastava il
brusio di lingue diverse: pochi prestavano attenzione oltre la prima fila di
tavolini. A colpo d’occhio, potevo essere la più giovane. La luce soffusa
faceva il resto.
Bene, faccio ancora la mia figura qui
dentro, ma sedermi al tavolo in veste di adescatrice intenzionale disturba il
mio senso estetico. Così mi arrampico sul trespolo presso il bancone del bar
ben calcolando che, pur diversamente alta, avrei conquistato la vetta
conservando l’onore. Prendo un caffè e me ne vado, mi dico accorgendomi
all’istante di essere a tre metri dal cantante. Non mi pare educato svignarmela
subito, così m’impongo d’attendere la pausa.
Inevitabile che lo guardassi. La faccia
da americano era passata indenne attraverso burri d’arachide e sciroppi d’acero
delle loro colazioni fritte. Niente maniglie dell’amore né stomaco da bevitore.
In aggiunta, una testa folta di capelli striati di biondo come non se ne vedono
dalle nostre parti. Cantava per sé, assorto nella musica che accarezzava sulle
corde, portandomi a piccoli passi dentro la sua passione. Non riuscivo a
distogliermi per un’emozione che lo corrispondeva al punto da fargli volgere la
testa dalla mia parte.
Ora cantava anche per me. Non mi
accorgevo di nulla, nemmeno della signora seduta accanto che doveva
sentirsi fuori tempo e fuori luogo. Non provando il mio
stesso rapimento, fissava il suo pessimo caffè tenendosi pronta, col
portafoglio in mano, a cogliere l’attimo della fuga, incurante del minuetto di
sguardi e di applausi in pieno svolgimento vicino a lei, né io la sentivo trafficare
con le monete, tra decimi, centesimi e cambio di valuta nel quale si era imbozzolata.
Il silenzio arriva improvviso. Scivolo
dal trespolo con la gola strozzata dall’ansia. Non so cosa fare, il tempo mi
manca. Con tre passi s’accosta al bancone afferrando il bicchiere già pronto
per lui. E’ troppo bello per me anche da vicino. Toppo vicino. Accenna un
inchino e un baciamano. Le sue luci di posizione sono accese e lampeggiano
sorrisi e parole. Non ho più saliva mentre stento una conversazione in Inglese,
ignorando la mia mano ancora trattenuta. Mi fingo monca perché mi sto perdendo
nella naturalezza seducente di chi sa di essere ciò che è. Le mie gambe di
gelatina non reggeranno un passo, si scioglieranno sul posto: “ritratto di una
mezzo-busto con moncherino”… e mi porteranno via così. Ma ecco che ad altezza
di naso una mano con spiccioli taglia di netto il foto-dramma.
“Scusi, Signora, le sembra giusto il
resto?” mi chiede la vicina nella mia lingua. Sarà dalle scarpe che gli
Italiani all’estero si riconoscono a colpo sicuro.
“Immagino di sì”, rispondo attonita. In
pochi istanti lampi di pensieri da riempire pagine scritte, arrivano a
coscienza tutti insieme. La bolla di sapone si è frantumata in volo.
Provo vergogna. La mia mano ancora nella
sua già freme nella fretta del commiato e ritorna al suo posto. Le gambe mi
trasportano fuori. Sono di nuovo intera.
Mi attende la risacca, col suo tonfo cadenzato che è il battito del
mare, mentre il mio ancora infuria. Guardo la cupola della notte senza più sentire
le stelle su di me, così lontane adesso. Mi sento stanca come un binario su cui
siano transitati troppi treni. Il logo azzurrognolo di Maico ha acceso la sua
flebile luce.
Voglio tornare a casa.