Scala mobile (1975)
Agli inizi degli anni ’70, l’inflazione in Italia cominciò a crescere, avviandosi ben presto alle due cifre. Intanto, la disoccupazione si apprestava a toccare punte drammatiche mentre i nodi strutturali dell’economia italiana non trovavano soluzioni.
In quella situazione, i sindacati confederali cercarono di trovare un meccanismo che mettesse al riparo i lavoratori dall’aumento dei prezzi, ottenendo nel 1975 una revisione del meccanismo della scala mobile che portò alla definizione del punto unico di contingenza, entrato pienamente in vigore nel ’77. Si trattava di un meccanismo automatico, che adeguava buona parte del salario all’aumento del costo della vita e quindi salvaguardava le retribuzioni reali dei lavoratori dipendenti.
La reazione non si fece attendere. Una campagna mediatica, condotta con notevole forza e dispendio di mezzi, riuscì a concentrare il dibattito sui nodi strutturali della mancata competitività dell’industria italiana isolando il solo problema del costo del lavoro. In questo modo, il costo del lavoro (e i lavoratori) fu additato come il principale responsabile del dissesto e la scala mobile come causa di tutti o quasi tutti i mali.
Confindustria arrivò al punto di disdire unilateralmente nel 1981 l’accordo siglato nel 1975. Le elezioni del 1983 portarono alla Presidenza del Consiglio il socialista Bettino Craxi che, allo scopo di isolare politicamente il PCI e la CGIL, fece approvare dal suo governo, il giorno di San Valentino del 1984, un decreto con il quale di fatto si smantellava la scala mobile.
Il decreto venne impugnato da PCI e CGIL, portando al referendum della primavera successiva. Circa il 54% dei votanti si espresse per il suo mantenimento, approvando la scelta governativa. Intanto, il Paese continuava a sbandare paurosamente e le sue difficoltà economiche vennero sedate soltanto facendo ricorso ad un vertiginoso aumento del debito pubblico. Che è quello che ci ritroviamo oggi, come una palla al piede.
Scala immobile (2013)
Questa scala immobile è il luogo più triste, mesto e disperato che mai abbia visto in vita mia. Qui, ogni famiglia trova il suo posto per censo. Guadagni tot? Ecco, questa è la tua porzione di scala. Puoi entrare attraverso le porte che si aprono sul tuo piano. Quanto ad uscire, al massimo puoi andare sul ballatoio esterno, a fumarti una sigaretta e a prendere un po’ d’aria. Invano cercheresti una posizione migliore guardando all’insù. Dentro, davanti a te c’è una ressa incredibile che ti impedisce di fare il minimo passo. Fuori, sulla tua testa c’è solo un muro piatto, che si perde nel cielo, senza scale e appigli di alcun genere.
Puoi provare ad avventurarti a ritroso, schivando la calca che preme alle tue spalle. Se fai mostra di voler scendere, tutti subito si scostano, ben contenti di lasciarti alle spalle e di avere l’opportunità di fare un passo avanti.
Io ci ho provato, una volta. Ero talmente stanco di starmene nello stesso posto, con le stesse facce davanti, che ho deciso di avventurarmi. Ho notato subito che, man mano che scendevo, le condizioni delle scale, dei ballatoi e dei mancorrenti si facevano sempre più precarie. Dal marmo dei gradini si passava al cemento, dai mancorrenti di legno lucidato a quelli in ferro verniciato male, le luci ai piani erano più fioche, gli intonaci più scrostati, la gente che incontravo più malmessa, con lo sguardo sempre più vacuo o sempre più allucinato.
C’erano più anziani e più giovani. Vecchie coppie sedute in un canto, con aria rassegnata, e giovani coppie o giovanotti in branco che mi fissavano con ostilità appena dissimulata. Io mi guardavo e mi trovavo quello di sempre, ma non osavo alzare gli occhi perché sentivo salirmi in gola un senso di oppressione che diventava sempre più forte, più intenso, più difficile da superare.
Stavo per tornare sui miei passi, rassegnato, quando all’improvviso sentii un boato che risaliva dal fondo, come se una parte dell’edificio fosse sprofondato su se stesso, e le vibrazioni di quel crollo mi attraversarono il corpo come una scossa elettrica, le mani abbrancicate al mancorrente e un lezzo di putridume che saliva a offendermi le nari.
Solo allora, un giovane che si trovava accanto a me, mi apostrofò sardonicamente: - Il signorino è sceso qui in cerca di avventure?
Lo guardai a lungo, perplesso. In cerca di avventure? Per la verità, io stavo cercando soltanto di capire, di conoscere qualcosa in più di come funzionava il posto. Altro che avventure.
Il giovane mi guardò di nuovo e scrollò la testa. Poi si fece serio. – Vedi nonno – disse, e quel “nonno” mi diede fastidio – qui siamo a scendere, come avrai capito. Ma la crisi sale e ogni tanto si mangia un pezzo di scala.
- Si mangia? – Non riuscivo a capire cosa volesse dire esattamente e mi rigirai quel “mangia” in bocca, mentre il cervello vorticosamente lavorava.
- Mangia. Sì, mangia – ripeté il giovane. – La crisi sale come un buco nero. Salendo porta via con sé pezzi di scala e quelli che le stanno attaccati.
- E dove? – riuscii a biascicare mentre il mio cervello si fermava e si fissava sul piano dove i miei mi aspettavano, come una lampadina.
- Dove? – replicò il giovane. – E chi lo sa. – Fece un gesto verso il pozzo buio. – C’è chi dice che là sotto li aspetta una morte civile; nessuno si occupa più di loro, non hanno più casa e si arrangiano sulle panchine. C’è chi dice che scompaiono nel nulla o finiscono all’inferno. Che, più o meno, è la stessa cosa.
Stavolta mi indignai, pure con me stesso. – Ma nessuno fa niente? Nessuno si muove? Potrebbero risalire, tentare di mettersi in salvo…Ci sarà pure un modo. Il governo farà qualcosa…
Il giovane mi guardò, di nuovo sardonico. - Oh, il governo promette. L’avrai pure sentito anche tu, dai televisori che ci sono a ogni piano. Promette che ne usciremo. Non senza sacrifici, però. – E fece nuovamente il gesto all’ingiù.. – Ecco, questi sono i sacrificati, credo.
Quella lampadina che mi si era accesa in testa, a simili parole divenne incandescente. Le gambe si mossero da sole. Lasciai lì in tronco il giovane che ancora parlava e rifeci gli scalini a due a due, spintonando, col fiato in gola. Mi calmai un po’ solo quando arrivai al mio piano e vidi la mia famiglia che mi guardava allocchita. Dovevo avere un aspetto infame e cercai di ricompormi un poco.
Intanto, mentre il televisore sulla mia testa raccontava delle recenti misure prese dal Governo per uscire dalla crisi, io pensavo una cosa sola: quanto ci metterà il buco nero ad arrivare al mio piano?