Tra gli appassionati del calcio si
è discusso da più parti, nelle passate
settimane, del cosiddetto codice etico, un insieme di regole di comportamento
cui i giocatori convocati per rappresentare l'Italia devono sottomettersi se
vogliono continuare a far parte della nazionale. In realtà una società civile
che vuole essere tale, dà una lunga serie di differenti regole che i suoi
membri devono seguire nelle più svariate circostanze che la vita, soprattutto
sociale, presenta.
Ma anche tutte le tradizioni religiose
solitamente prevedono per il seguace una specie di codice di comportamento da
seguire, ossia delle regole che impongono di fare questo e non fare
quest'altro, di mangiare ad esempio una cosa e non mangiarne un'altra, di
osservare delle prescrizioni eccetera. Anche se spesso sembrano incidere
soltanto superficialmente, queste regole sono immaginate ed imposte perché si
ritiene che esse svolgano un lavoro che non può non ripercuotersi nell'intimo dell'individuo
che le mette in pratica. Per esempio si osserva che dei pasti pantagruelici, la
cui digestione richieda molto lavoro ed energie, pesino troppo sull'equilibrio
dell'insieme inscindibile corpo-spirito, con la conseguenza inevitabile per
tutti, principianti e avanzati, di rendere greve e difficoltoso ogni tentativo
di elevazione spirituale. Per questa ragione San Benedetto (480 ca. - 547
d.C.), fondatore del monachesimo occidentale, dispone nella sua Regola (capitolo
XXXIX e seguenti) che il monaco si accosti alla mensa con spirito di sobrietà,
affinché “... Il vostro cuore non sia appesantito dal troppo cibo".
In Oriente Buddha Shakyamuni (566 a.C
- 486 a.C.) consigliò ai suoi monaci e
ai praticanti laici dei pasti
vegetariani. L'Induismo, il Giudaismo e l'Islamismo, da parte loro, prevedono
una serie di comportamenti a cui il seguace deve attenersi, spesso in modo assolutamente scrupoloso.
Invece nello Dzogchen che – sia detto
ancora una volta – non può essere considerato una religione, si fa appello alla
nostra consapevolezza responsabilizzando noi stessi. Nello Dzogchen, dunque,
siamo noi stessi a dettare le nostre regole, ma ciò non significa che ognuno fa
quello che più gli pare e piace infischiandosene delle leggi e delle norme di
civile comportamento sociale dicendo: “Io pratico lo Dzogchen e faccio tutto
ciò che voglio”. Non è così. Chi si trova nello Dzogchen, cioè nello stato
primordiale che costituisce il fondamento dell'esistenza, sicuramente vede
sorgere in sé – e sente intensamente – desideri, passioni e aneliti di tutti i
tipi, e ciò ininterrottamente, ma li lascia scorrere e svanire naturalmente
senza intervenire né per soddisfarli né per reprimerli. E allo stesso modo
affronta e risolve i problemi che gli si presentano ogni giorno: e lo fa in
modo tranquillo, assolutamente naturale, nel rispetto totale della società e
del mondo in cui vive.
Diversamente, l'accorto praticante che
non ha ancora scoperto attraverso la pratica questo stato di autoliberazione, adotta un codice di comportamento così come
viene consigliato dall'insegnamento, e lo fa soprattutto per non creare nuovi
ostacoli lungo il cammino che sta percorrendo. Ma poi, una volta entrato
veramente nello Dzogchen, egli non ha più bisogno di nulla, perché la sua
consapevolezza e la sua chiarezza sapranno consigliargli in qualsiasi
circostanza il corretto modo di comportarsi. Il suo sarà un comportamento molto
attento e nello stesso tempo spontaneo, diretto, privo di timori e pregiudizi,
ben distante dal soffermarsi e indulgere su illusioni capaci di distrarlo dal
suo stato.
Mano a mano che il praticante avanza sul
sentiero che lo porterà alla liberazione finale, il suo comportamento può avere
differenti aspetti. Spesso succede che il primo comportamento sia paragonabile
a quello di un ape che vola in un prato pieno di fiori di tutti i tipi, grandi,
piccoli, gialli, rossi, azzurri o di tanti altri colori. L'ape vola in cerca
del polline, libera e felice, e non si fa condizionare da questo o quel fiore:
si posa su uno di essi, assaggia e ne gusta un po' di nettare. Poi subito
riparte e si ferma su un altro fiore e ne succhia il nettare e così via. Allo
stesso modo il praticante, seriamente interessato all'insegnamento, arricchisce
di esperienze la propria conoscenza finché non scopre la condizione reale.
Si dice che il secondo comportamento sia
come quello di un animale ferito. Un animale ferito non va di qua e di là,
perché la ferita lo ha reso debole e timoroso: si acquatta in un cespuglio per
nascondersi a chi può fargli del male, cerca la tranquillità per poter guarire
e diventare forte. Questa tranquillità, che nel suo stato di infermità e
fragilità gli è necessaria, corrisponde, nell'insegnamento Dzogchen, allo shine,
che è lo stato calmo della mente, uno stato di quiete dove i pensieri e le
altre manifestazioni mentali possono non sorgere o, quando sorgono, lo fanno
lentamente, di modo che non disturbano la concentrazione attenta del
praticante. Come l'animale ferito rimarrà nascosto finché non sarà guarito,
così il praticante cercherà il proprio stato calmo finché non sarà in grado di
integrare tutti i fenomeni che sorgono nel suo vero stato esistenziale,
chiamato, appunto, Dzogchen.
Poi c'è il comportamento del leone, che
è libero di andare dove vuole e che non ha paura di niente e di nessuno. Questo
si verifica quando si ha raggiunto una vera conoscenza e se ne è fatta
l'esperienza reale. Qualunque pensiero, qualunque sensazione e qualunque
circostanza sorgano, il suo stato equanime è incrollabile, la sua mente ferma e
la sua libertà inviolabile. Egli è padrone di sé e mai compirà atti che possano
danneggiare gli altri esseri e il mondo che lo circonda.
Volendo fare un esempio, possiamo dire
che l'onestà pubblica e privata – che nel mondo d'oggi sembra molto spesso
ridursi ad un lontano, pallido ricordo di un retaggio di passati tempi
migliori – per un tale praticante non è
da considerarsi nemmeno una virtù, ma un semplice modo di essere e di agire,
naturale e spontaneo, non un imperativo dell'etica imposto da un autorità morale
o dall'ordinamento giuridico. E questo perché egli non viene condizionato dalla
visione illusoria dei fenomeni che genera la cupidigia e tutto il resto.
C'è, infine, il comportamento che
all'uomo comune potrebbe sembrare quello di un folle che non resta nei limiti.
In realtà succede che il praticante ha raggiunto la capacità di integrare nel
proprio stato sia il bene che il male senza distinzioni. A questo punto egli è
in grado di superare i limiti concettuali creati dagli altri o dalle
circostanze, perché egli si trova in uno stato dove i concetti non esistono
nemmeno.