Cronache dal Paese di Zarathustra, nelle terre tra i due fiumi.
Ankawa Mall doveva essere un centro commerciale: oggi, i
lavori si sono fermati, c’è solo lo scheletro, tra pilastri, muri divisori e
arcate incomplete.
Qui sono arrivati da pochi giorni i profughi cristiani di
Mosul e di Karakosh, sfuggiti alle bande nere dell’ISIS: 250 famiglie, per un
totale di 1.100 persone. Sono gli attuali abitanti di Ankawa Mall. Il campo che stiamo visitando è stato allestito dall’UNHCR,
ma la situazione appare subito disastrosa.
La gente sta stipata in box, ricovero per una famiglia di
almeno dieci persone; nuclei famigliari inferiori, devono dividersi il box. Una
tenda funziona da parete divisoria. Accanto ai box, sono stati sistemati fornelli e cucine.
C’è carenza di bagni e di servizi igienici che fanno
crollare il livello delle condizioni igieniche: diarrea, malattie della pelle,
scottature, affliggono i rifugiati. Parecchi sono ancora traumatizzati: quasi ogni famiglia ha
perso qualche parente. All’interno di un box, ci fanno notare una ragazza, distesa
su una branda, lo sguardo perso nel vuoto. Da settimane non parla. Muta di
fronte a tanto orrore! A breve, tra un mese, cominceranno ad arrivare piogge e
freddo invernale; ed allora, i problemi si moltiplicheranno.
Con una popolazione di circa 5 milioni di abitanti, il
Kurdistan iracheno ospita 1.300 mila profughi, quasi il 30% della popolazione. Vivono in tende, campi, anfratti, palazzi in costruzione,
scuole, in condizioni disperate. Il governo autonomo della regione kurda è stato il primo
attore umanitario ad intervenire, aiutando questa improvvisa marea di profughi,
apprestando ripari, trasporti, cibo, acqua e medicine. Ma fa quel che può. Da febbraio di quest’anno, sono venuti
meno i trasferimenti del governo centrale e le casse della regione kurda sono
al collasso. E pure l’UNHCR lamenta grosse difficoltà per scarsità di fondi.
Non c’è pace per chi fugge da guerra e terrore.
Makhmur si trova ai margini del deserto iracheno, a circa
quaranta chilometri di distanza da Hewler, antico nome kurdo della città di
Erbil. Assaltato due mesi or sono dalle bande nere dell’ISIS, è
stato riconquistato dai guerriglieri del Pkk dopo una battaglia che ha avuto un
suo pesante prezzo in termini di vite umane: sette morti e quattro feriti. Il campo, fatto di casupole in mattoni di terra cruda e
pietra, ospita 12 mila profughi, fuggiti dal Kurdistan turco, quando l’esercito
di Ankara ha cominciato a bruciare e bombardare i loro villaggi di frontiera.
Inseguiti dagli elicotteri turchi, hanno attraversato le montagne coperte di
neve che separano la Turchia dall’Iraq e sono arrivati in questa regione. Dal 2012, il campo di Makhmur è interessato da un progetto
solidale dell’Associazione Verso il Kurdistan di Alessandria, per la realizzazione
di una struttura sanitaria permanente.
Manca anche l’acqua potabile
a Makhmur, quella che c’è è inquinata da idrocarburi, e per questo,
viene trasportata quotidianamente con autocisterne da una falda acquifera
pulita che si trova a circa dieci chilometri di distanza. Mancano medicinali a
Makhmur. Manca anche l’unica ambulanza che c’era nel campo a Makhmur, rubata
dalle bande dell’ISIS. La povertà ed il disagio sono evidenti, ma vissuti con
dignità. Ci invitano per il pranzo: ospitalità generosa e cibi
eccellenti. Al momento di ripartire, tanti bambini ci accompagnano con
sorrisi e con il classico saluto con le dita divaricate a V. Due ragazze, kefia in testa, tute da guerrigliere e
kalashnikof in spalla, ci salutano, mentre tornano dal turno di guardia
all’ingresso del campo.
Bandiera kurda a mezz’asta all’entrata della sede del
Parlamento regionale kurdo. Un devastante attentato con tre camion imbottiti di
esplosivo ha fatto oltre cento morti a Karatepe, settanta chilometri da Kirkuk. Jaffar Ibrahim Eminki, vice presidente del Parlamento della
regione, usa toni preoccupati e parla di momenti difficili: “ISIS ha cercato di
conquistare Erbil, ma i peshmerga, pur essendo dotati di armi leggere, hanno
respinto l’offensiva. Oggi siamo impegnati in combattimenti per riconquistare
alcune nostre città. I nostri sforzi ci hanno portato al controllo della città
petrolifera di Kirkuk, da sempre contesa e per la quale avrebbe dovuto tenersi
un referendum, mai fatto. Sappiamo che ISIS dispone di armi chimiche: i nostri
soldati feriti ne portano segni evidenti.
E oggi in Parlamento ci sarà una presa di posizione a sostegno dei
nostri fratelli kurdi del Rojava e di Kobane, sotto assedio.”
All’incontro in Parlamento, abbiamo portato una bottiglia d’
acqua inquinata del campo di Makhmur. Chiediamo che il governo regionale del
Kurdistan intervenga per garantire condizioni di vita e di salute migliori,
stessa richiesta che, di lì a poco, facciamo a Sokol Kondi, di origine albanese
ed oggi capo del dipartimento UNAMI dell’ONU.
Entrambi ci assicurano un loro interessamento. Staremo a
vedere se alle parole seguiranno fatti concreti. Intanto, fuori, nei giardini difronte al Parlamento, kurdi
siriani, turchi, iraniani ed iracheni hanno istituito da sette giorni un
presidio per chiedere supporto ed interventi concreti a favore del Rojava e
della cittadina di Kobane, la città che resiste, la “Stalingrado” kurda.
In Iraq, gli yazidi – o ezidi come amano definirsi in lingua
kurda – prima che arrivassero le bande dell’ISIS, erano circa 600 mila; di
questi, 400 mila vivevano in villaggi, tra i monti del Gebel Singiar, la zona
al confine con la Siria.
Siamo saliti con il pulmino a Sexan (o Shaykhan), una città
di 140 mila abitanti, dove vivono 6 mila yazidi, a cui se ne sono aggiunti
altri 4 mila, profughi, in fuga dai massacri delle orde nere. Per arrivare fin
qui – ci raccontano – hanno camminato su sentieri di montagna per dieci giorni.
Lo yadismo, insieme all’ebraismo, è la più antica religione
del mondo.
Perseguitati da sempre. “Eravamo 17 milioni, siamo rimasti
in 700 mila”, ricorda un loro detto. Gli islamisti sostengono che “adorano il
diavolo”. Ma non è vero. La loro religione deriva dalle predicazioni di
Zarathustra.
Gli yazidi sono una comunità chiusa, gli sono proscritti i
matrimoni interreligiosi e sono coperti da un alone di segretezza. Sono di
lingua kurda, festeggiano il Capodanno il primo mercoledì di aprile, pregano
guardando il sole, propiziando prima per il prossimo e poi per se stessi. Il
loro leader politico è l’Emiro (Amir), che nomina il capo spirituale, il
“maestro” (Shaykh).
Nel villaggio di Baadre, poco distante, 12 mila abitanti,
quasi tutti yazidi, siamo arrivati per incontrare una ragazza yazida di 17
anni, scappata dalla regione di Singiar, dove è rimasta prigioniera dell’ISIS
per due mesi e dieci giorni. Richiede l’anonimato per paura di rappresaglie nei
confronti dei suoi parenti ancora nelle mani dell’esercito nero. Ci racconta
delle donne che venivano portate nei mercati per essere vendute come schiave.
Lei, dopo ripetuti tentativi di fuga repressi con la prigione, è riuscita a
fuggire, raggiungendo una prima casa che però le ha rifiutato l’ospitalità e
quindi una seconda famiglia che l’ha aiutata nella fuga.
Lalish è la “mecca” degli yazidi. Si trova a 60 chilometri a
nord di Mosul. ISIS ha tentato di attaccarla, per distruggere questo luogo
simbolo. Senza però riuscirci. A Lalish si trova la tomba dello sceicco Adi Ibn Musefir,
morto nel 1163, figura preminente della religione yazida. Almeno una volta nella vita, gli yazidi sono tenuti ad un
pellegrinaggio di sei giorni per visitare la tomba dello sceicco e altri luoghi
sacri. Ci muoviamo nel tempio tra otri piene di olio di oliva che
si usano per alimentare le lampade votive; dalle colonne pendono drappi di
sette colori diversi, a rappresentare i sette angeli di Dio. Tutt’intorno a Lalish ci sono profughi scampati alla furia
dell’ISIS. Sono accampati ovunque, in tende, ripari di fortuna. Sono curiosi di
noi.
A Sulemanya, cuore pulsante del commercio e dell’attività
industriale, incontriamo il PYD, il partito dell’unità democratica del Rojava
(Kurdistan siriano), il più importante partito kurdo della regione. Ci ricevono con la formula consolidata del tandem
uomo/donna, ovvero un presidente e una co-presidente. Sono tre ore di confronto e di discussione, dove, al centro
sta l’esperienza del l’autogoverno dal basso del Rojava, le assemblee popolari,
l’autodifesa popolare armata di uomini e donne contro le bande assassine
dell’ISIS, la democrazia paritaria.
In Siria, vivono 3 milioni e mezzo di kurdi, due e mezzo nel
Rojava. Kobane, che fino a qualche mese fa, era solo un puntino
sulla carta geografica della Siria, oggi è conosciuta in tutto il mondo, per la
strenua resistenza contro le forze dell’ISIS. Dal 2012, il Rojava è stato suddiviso in tre cantoni:
Cizire, Afrin e Kobane.
Ciascun cantone con un’autonomia amministrativa, una propria
Costituzione ed una rappresentanza parlamentare comprensiva di tutti i gruppi
etnici e religiosi. Per ogni carica, c’è un corresponsabile uomo e donna. Le donne sono rappresentate in tutte le istanze nella misura
del 40%. Ci sono tre lingue ufficiali: il kurdo, l’arabo/siriano e il
siriano (aramaico).
“Purtroppo, in questo momento di guerra, l’economia è a
pezzi - ci dicono – l’esempio del Rojava con la sua democrazia partecipata e
paritaria, rappresenta un modello dirompente per tutto il Medio Oriente. Per
questo, vogliono cancellare questo
esperimento”.
E l’ISIS prontamente esegue. Ma i burattinai stanno da
un’altra parte; da un lato, fanno parte anche nella coalizione dei settanta
Paesi che si battono contro l’ISIS, ma dall’altro, finanziano e coprono le
gesta degli uomini del terrore. Hanno ambizioni di potenza nello scacchiere
mediorientale.
In questo i kurdi sono veramente soli. Non hanno ripari, non
hanno amici, gli unici amici siamo noi, sono i popoli.