Mi trovavo in Francia, in una foresta dell'Alta Savoia.
Stavo camminando tranquillamente nel bosco quando, tra le conifere, un giovane capriolo che stava acquattato nell'erba mi vide e si alzò di scatto, ma il mio incedere, passo dopo passo, era lento ed egli, comprendendo che da me non poteva derivargli alcun pericolo, non si spaventò. Dopo dieci metri di fuga si fermò e mi attese guardandomi. Ricordo che il pomeriggio era assolato, il movimento era calmo, il respiro era sereno ed armonico.
Al Maestro zen Daisho (VIII Sec.) un giorno fu chiesto: “Che cos'è l'originaria mente-di-buddha?” Rispose: “Montagne, caprioli, calma, non-attaccamento, le passeggiate nei boschi, la bolletta del gas, la mente quotidiana, un sorriso, defecare”. Tutto è la mente-di-buddha. La mente-di-buddha è tutto. Tutto ciò che appare è la mente-di-buddha. Ogni divisione è abbattuta. Non c'è separazione tra il molteplice e l'uno e finalmente percepiamo che la nostra mente è Buddha.
Lasciar cadere, lasciar andare, solo allora potremo capire. Nella calma e nel silenzio avviene uno stravolgimento totale. Non si ragiona più come prima, le parole perdono il loro abituale significato e il loro valore e talvolta saltano persino gli stessi principi della logica euclidea: la nostra mente viene rieducata, dolcemente, a poco a poco. Qui non esistono assiomi, boe, punti di ancoraggio, porti sicuri, non esistono fari, né miti, né esempi. La libertà, per essere veramente tale, non può appigliarsi ad alcunché.
Dogen Zenij (1200 - 1253), famoso maestro zen giapponese, fondatore della scuola Soto, diceva: “Abbandona l'illuminazione e cammina nella libertà”. Ed ecco che Millarepa, Padmasambhava, ed anche i Buddha dei tre tempi sono lampi lontani, semplici ornamenti della nostra visione, come qualunque altra manifestazione, bella o brutta che sia. Lasciar cadere vuol dire abbandonare tutte le ancore, tutti i nostri gentili Maestri e, issate le vele, lasciare che la saggezza del vento ci porti alla non-meta; che non è un luogo, ma uno stato dell'essere, dove non ci sono barriere, steccati, e neppure i limiti a cui ci appoggiavamo, dove non esistono longitudine e latitudine e lo stesso concetto di “posizione” non ha alcun senso.
Non siamo più un “punto nello spazio”, siamo “lo-spazio”. Il che significa che “siamo tutto ciò che appare”: occorre capire che il Maestro che insegna è la nostra coscienza. La nostra coscienza è il Maestro che insegna. È attraverso lui che la mente rieduca sé stessa e finché non realizzeremo questa esperienza vagheremo per miliardi e miliardi di anni camminando in tondo attratti da questo o quel miraggio o da qualche punto che riteniamo “fermo” e tranquillizzante per la nostra supposta sicurezza, smarriti nell'infinito deserto dell'ignoranza. (Ma questo argomento meriterebbe un capitolo a sé stante).
In questa consapevolezza, dunque, tutto ciò che appare è la mente-di-buddha. La stessa mente ordinaria, quella che chiamiamo mente quotidiana, è la mente-di-buddha, l'illusione stessa, che si presenta con tutte le sue qualificazioni, è la mente-di-buddha. Rimanendo in questa comprensione senza alterare nulla, tutto è compiuto. Realizziamo la non-azione e la mente è finalmente sé stessa, con tutte le sue infinite potenzialità, gioiosa nella sua libertà, senza alcun laccio -di qualsiasi natura ̶ che la possa condizionare.
Non ci si chiede se l'illuminazione è vicina o lontana, se si è prossimi al risveglio totale o no. Illuminazione e realizzazione sono solo vuoti concetti. Si nuota in un oceano dove non ci sono domande e neppure indagini analitiche: adesso le pulsioni della nostra miopia spesso paranoica non sono più nemmeno un ricordo. Un esempio: un'idea molto diffusa anche tra gli stessi buddhisti è quella secondo cui, praticando con umiltà, impegno, devozione e purificazione, con assiduo studio e dedizione totale e quindi con ogni continuo sforzo della nostra volontà, si possa progredire lungo il cammino spirituale fino a raggiungere l'illuminazione. Sembra un'affermazione lineare, logica, facilmente comprensibile, perfettamente in linea con gli insegnamenti fondamentali. E invece resta una mera espressione intellettuale della mente ordinaria, che poggia su concetti abituali e ragiona secondo la logica convenzionale, così come tante altre.
È un'espressione che, e ce ne accorgeremo andando oltre l'involucro, non ha alcun senso. Seguendola, ci fondiamo su qualcosa che, come tutti i concetti, non ha una vera sostanza e di conseguenza ci ritroviamo a “camminare tra” o meglio, a vivere, realtà prive di un'esistenza propria. Tuttavia, procedendo con le esperienze che la pratica vivifica, arriveremo a capire e a realizzare che anche questo ragionamento senza radici vere, è parte dell'energia della nostra mente primordiale, della nostra mente-di-buddha.
In realtà la comprensione è capire che non esiste “cammino”. Quando punto di partenza e punto di arrivo coincidono, non esiste percorso, non esiste il termine “camminare”. Infatti arriveremo a comprendere in modo diretto e chiaro che tutto quello che ci appare, turpe o luminoso che sia, bello o brutto, doloroso o gradevole, tutto, tutto è già nello stato illuminato, fin dall'inizio.
Per realizzare questa verità è sufficiente lasciar andare, lasciar cadere, e, senza alcuno sforzo, ci si viene a trovare in questo stato primordiale di comprensione feconda. Eppure, la frase “con ogni sforzo della nostra volontà si può progredire lungo il cammino spirituale fino a raggiungere l'illuminazione” è perfettamente corretta e sperimentabile. Dire che “non esiste cammino” e nello stesso tempo affermare che “si può progredire lungo il cammino” sembra una palese contraddizione, ma non è così: entrambe le espressioni fanno parte della nostra esperienza esistenziale. Succede che ad un certo punto del cammino ci accorgiamo che siamo nel punto di partenza e di arrivo nello stesso istante! Occorre andare oltre il senso e il significato delle parole per attingere la trascendenza e ritrovarsi in un'altra dimensione, in quella dove la nostra chiarezza illumina la stanza.
Praticare la Via del Buddha è non distogliere l'attenzione da questo stato luminoso.
Praticare la Via del Buddha è volare serenamente nel vasto cielo. Come Garuda, nella mitologia buddhista l'uomo-uccello con becco e ali di aquila nemico dei Naga (creature semidivine a forma di serpenti che vivono negli Inferni). Ma attenzione: il “vasto cielo” non è lo spazio sopra di noi. Lo spazio sopra di noi non è il “vasto cielo”.
Quando è caduta ogni barriera dell'ego, quando “fuori” e “dentro” non esistono più nemmeno come concetti, quando tutto è nascosto e nello stesso tempo manifesto, allora c'è il “vasto cielo”. E questo cielo comprende anche il mondo, comprende ogni cosa, senza alcuna recinzione, senza preclusioni di sorta. Quando Garuda vola in questo cielo, il volare e il cielo sono la stessa cosa. Quando Garuda vola, vola anche il cielo e quando vola il cielo, anche Garuda vola. Eppure Garuda è fermo come una montagna. Garuda non è un punto che vola nello spazio, è lo-spazio. Questo è l'incomparabile, immobile stato del rigpa, che si trova oltre la dicotomia movimento/stato calmo: è contemplazione dove se si cerca colui che contempla non lo si trova. È cosa utile farne l'esperienza.