Fu Garab Dorjè. un essere totalmente realizzato vissuto nel II° secolo a.C. nel paese di Oddyana (regione che oggi si troverebbe nel Pakistan) colui che introdusse per primo gli insegnamenti Dzogchen nell'attuale era storica. Il Vairo Drabag, un testo edito a Lhasa (Tibet) nel XIII° secolo, dà notizie della sua vita ed anche dei detentori del lignaggio che per primi trasmisero ininterrottamente nel tempo, da maestro a discepolo, questo supremo insegnamento. Vediamo dunque che all'inizio il re Dhaheanatalo ne ricevette la trasmissione direttamente da Garab Dorjè e a sua volta lo trasmise a suo figlio principe Thuwo Rajahati, che a sua volta lo trasmise a sua sorella principessa Barani, che a sua volta lo trasmise Al Maestro Lugyal Gyalpo che a sua volta lo trasmise alla principessa Nöjyinmo Changchubma, figlia del re Sisung, che a sua volta lo trasmise alla prostituta Metsongma Parani. l'elenco non si esaurisce qui, ma è interessante e opportuno soffermarsi sulle parole con cui Nöjyinmo Changchubma spiegò alla sua alunna l'essenza dell'insegnamento:
“Fra Buddha ed esseri senzienti dall'origine non c'è dualità;
Se comprendi, questa è la suprema conoscenza.
Realizza che la tua mente non duale è il darmakaya:
All'infuori di ciò non esiste altra meditazione!”
Allora Metsongma Parani, che era figlia di un uomo chiamato Bhahuta, appartenente alla casta dei sudra, la più bassa tra le caste in India, espresse così la sua realizzazione:
“Io sono la prostituta Parani.
Poiché la mente è al di là di nascita e morte,
anche se la si uccide non muore.
Tutta l'esistenza è nettare:
per purezza e impurità non c'è posto dall'origine!”
Leggiamo dunque che Metsongma Parani ricevette come supremo insegnamento l'invito a comprendere e a realizzare il “darmakaya” per estirpare dalla radice la visione dualistica che, secondo la tradizione buddhista, è la base su cui si origina il samsara, cioè i cicli di rinascite nei vari mondi di esistenza dove dominano inarrestabili differenti tipi di sofferenza. La Maestra, principessa Nöjyinmo Changchubma, completa la trasmissione del Dharma affermando che “...All'infuori di ciò non esiste altra meditazione!”, il che è come dire che una volta realizzato il “dharmakaya” abbiamo realizzato l'insegnamento. Quando vivremo poi in una stabile consapevolezza dello stato primordiale, allora tutto si rivelerà, perché, raggiunto questo stadio, si viene a scoprire un'estensione delle percezioni del conoscibile.
Ma cos'è esattamente il dharmakaya? Quale realtà si vuole indicare con questo termine? E perché conoscerlo è così importante?
“Dharmakaya” è una parola sanscrita che letteralmente significa “corpo del Dharma” ma che si riferisce, più esattamente, all'essenza della mente personale e universale cui tutti gli esseri senzienti possono accedere poiché la possiedono dentro di sé essendo l'ego, come si vedrà, una sua manifestazione. Per prima cosa va detto che per conoscerlo occorre farne l'esperienza diretta, come ad esempio per farsi un'idea precisa di cosa significhi “dolce” è assai efficace, ed anche sufficiente, mettere in bocca un cucchiaino di miele.
Quando entreremo nella conoscenza del dharmakaya, per averne fatto ̶ appunto ̶ di persona, l'esperienza diretta, nello stesso istante, attraverso la grande chiarezza che con tale esperienza si viene ad acquisire, noi stessi sveleremo in modo diretto, senza offuscamenti e senza alcuna mediazione dei sensi sia fisici che mentali ‒ e dunque attraverso una vasta ed arcana consapevolezza ‒ che una coscienza invisibile agli occhi è la suprema sorgente di tutte le cose che ci appaiono e dove, per ciò stesso, gli opposti in realtà non solo tali. Ma occorre fare attenzione: saremmo ben lontani dalla realtà se immaginassimo la coscienza, o mente che dir si voglia, come un'entità creatrice di fenomeni che sorgono staccandosi da essa come oggetti indipendenti. Non è che da una parte vi sia un soggetto che crea e dall'altra gli oggetti creati (se così fosse saremmo ancora nella dualità): qui non esiste alterità fra soggetto e oggetto perché essi si identificano. È la mente stessa che esprime la propria energia manifestando i più svariati e differenti fenomeni. Quando appare qualcosa, qualunque cosa, è la mente che si manifesta. Per questo diciamo che “la mente è tutto” e che “tutto è la mente”; ed ecco che allora i termini bello e brutto, buono e cattivo, dolce e amaro, vita e morte, e così di seguito, perdono il significato contrapposto che comunemente gli viene attribuito. “Fra Buddha ed esseri senzienti dall'origine non c'è dualità”, semplicemente perché essendo fatti della stessa sostanza, sono inseparabili. È la suprema sorgente che li unisce manifestandoli in sé stessa. E non si può chiamarli neppure “aspetti differenti della stessa realtà” perché queste manifestazioni, al pari dei sogni, sono semplici miraggi, meri riflessi, giochi di illusione, apparenze impermanenti. Ci accorgeremo che perfino ciò che chiamiamo “samsara” e ciò che chiamiamo “nirvana” sono solo dei meri concetti della mente dualistica, privi di una vera e propria esistenza indipendente. Tutto questo significa che non esiste divisione nel molteplice.
Come ciò può avvenire? Non possiamo non domandarcelo.
Per avviare la ricerca sui giusti binari è bene ripartire dalla prima domanda: cos'è esattamente il dharmakaya? Andiamo a leggere ciò che scrive Padmasambhava, il grande Maestro che introdusse il buddhismo nel Tibet nel secolo VIII° della nostra era:
“Dopo che il pensiero passato si è dileguato senza lasciar tracce e il pensiero futuro non è ancor sorto, la mente è fresca e come nuova; in questo momento, mentre si osserva nudamente sé stessi, rimanendo naturali nel presente senza creare nulla, il sentire ordinario, qui e ora, è una chiarezza in cui non c'è nulla da vedere; è una limpidezza in cui la consapevolezza è evidente e nuda; è uno stato puro e vuoto in cui non c'è nulla di determinabile; è una lucidità in cui la luminosità (il continuo manifestarsi dei fenomeni. Ndr) e il vuoto non sono duali.
Non è una cosa, infatti è del tutto indeterminabile; non è neppure nulla, perché è uno stato di pura chiarezza: Non è neppure determinabile come il molteplice, perché è l'unico sapore dell'inseparabilità. Non è estrinseca, è proprio la consapevolezza di sé.
In queste poche parole viene magistralmente sintetizzata l'esperienza del dharmakaya, come è chiamato il primo dei tre corpi della mente-di-buddha, l'essenza della mente, uno stato puro e vuoto dove tuttavia tutto continua a manifestarsi in continuazione. In questa esperienza la scoperta suprema è una nuova acquisita consapevolezza secondo cui vuoto e luminosità (cioè chiarezza che è continua manifestazione dei fenomeni) non sono duali: la mente è vuoto e nello stesso tempo manifestazione continua del molteplice. Quando si rimane in questa consapevolezza senza distrarsi, cioè senza seguire questo o quel fenomeno (rincorrendolo se piacevole e rifiutandolo se spiacevole), è evidente che tutto appare dello stesso sapore. La mente è l'unità; così come l'oceano, che è uno per quanto innumerevoli siano le onde che ne increspano la superficie. Così come lo spazio, che è uno a prescindere dal numero e dal tipo di galassie che lo solcano. Quando noi siamo la mente, quando siamo l'oceano, quando siamo lo spazio, siamo anche le onde, siamo anche il nostro ego, le galassie, i buchi neri e la polvere interstellare. Liberandoci della nostra visione dualistica diveniamo semplicemente ̶ma anche totalmente ̶ “la nostra coscienza” e con lo sguardo del dominus diveniamo padroni anche di quel tutto infinito che allo stato potenziale è già nella mente fin dal principio. Cominciamo a vivere splendidamente qualcosa che assomiglia alla libertà assoluta. Dōgen Zenji (1200-1253), il grande Maestro giapponese fondatore della suola zen “Soto” scriveva:” Studiare la Via del Buddha è studiare sé stessi. Studiare sé stessi è dimenticare sé stessi. E dimenticare sé stessi è percepire sé stessi come tutte le cose. Realizzare questo è lasciar cadere mente e corpo di sé stessi e degli altri. Una volta che avrete raggiunto questo stadio, sarete distaccati anche dall'illuminazione e la agirete ininterrottamente, senza pensare ad essa”.
E allora si può ben capire come qualunque dualità tra opposti venga naturalmente superata. (O meglio, non esista proprio).
E parimenti si può bene intendere come nella illimitata manifestazione del molteplice non possa esservi alcun conflitto. Le galassie, i corpi celesti, non sorgono nello spazio con lo scopo di farsi la guerra, anche se a volte collidono fra loro e si urtano distruggendosi vicendevolmente oppure dando luogo ad ulteriori, altri fenomeni. Lo spazio “vede” tutto ciò, ma non ne resta coinvolto e condizionato. Nelle praterie o nella savana accade che il gattopardo divori la gazzella che piange la sua morte, ma non per questo la terra è “crudele” o “assassina”. Così, allo stesso modo, davanti ad un comportamento definito eroico, generoso e altruista, la terra, o l'universo, o la mente in cui tutto nasce e svanisce, non cambiano la loro natura incondizionata, semplicemente perché si trovano al di là di qualunque fenomeno e di qualsiasi circostanza possa sorgere, di qualunque colore essa sia. È come la luna riflessa nell'acqua: la luna appare nell'acqua ma non si bagna, né l'acqua è perturbata dalla luna. Quando noi siamo la nostra mente, quando siamo l'oceano, quando siamo lo spazio, ci troviamo al di là di concetti come bene e male, buono e cattivo, immanente e trascendente, buddha ed esseri senzienti, samsara e nirvana, vita e morte. Tutto ha in realtà lo stesso sapore, perché è fatto della stessa sostanza ed è, di fatto e per natura, inseparabile.
Quando la prostituta Parani dallo stato di beatitudine senza limiti del darmakaya, dice senza muovere le labbra: “Tutta l'esistenza è nettare: per purezza e impurità non c'è posto dall'origine!” siamo noi che lo diciamo, perché Metsongma Parani siamo noi, e ciò vuol dire che al di là del tempo percepiamo un fiume senza rive che scorre fin dal principio, fatto di un'acqua purissima che non potrà marcire mai, qualunque turpitudine, qualunque bruttura, qualunque barbarico atto si compia nel suo alveo, qualunque dolore colpisca il nostro cuore! Capire e realizzare che questa realtà è la nostra mente è l'unica “meditazione”.