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Esperienze tra Oriente e Occidente
Le ragioni del Samsaara
Fabrizio Uderzo


Il termine saṃsāra è molto usato nelle religioni dell'India, come l'induismo, il brahamanesimo, il buddhismo e altre ancora. La parola saṃsāra, sanscrita, letteralmente significa “scorrere insieme” e si riferisce ai cicli di vita, morte e rinascita che nelle sue infinite potenzialità viene indicato anche come “l'oceano dell'esistenza” in un senso che sappia tutto comprendere e nulla escludere. Per noi, fin da quando venimmo al mondo, è la vita di ogni giorno, quella che siamo abituati a vivere nel mondo che ci circonda, spesso piena di problemi, fatta di avvenimenti i più svariati, di successi e talvolta di qualche sconfitta, talvolta di errori, Gli impegni sono parte integrante della nostra giornata sul pianeta Terra, una storia fatta di speranze, di illusioni e di disillusioni, di anni finiti. È la vita quotidiana, quella che porta al declino lento del corpo e che si spegnerà, implacabile e spietata, in un giorno che non conosciamo. Allora ci domandiamo: “Perché ci succede tutto questo?”

Sembra una domanda senza dimensioni e senza risposte.

Il maestro   Lodrӧ Gyaltsen (1552-1624), un grande esponente della scuola buddhista tibetana Nyingmapa che era riuscito con un grande rituale di Padmasambhava a scacciare gli invasori Mongoli e per questo meglio conosciuto col nome di Sodogpa (che vuol dire appunto “ricacciare i Mongoli”) era anche un famoso praticante Dzogchen. Egli era un grande studioso e scrisse parecchi libri tra i quali molto importante è quello che raccoglie le Istruzioni sullo Dzogchen Semde (dove per Semde si intende un metodo di pratica che lavora soprattutto al livello della mente).

In tale opera Sodogpa comincia a spiegare che tutto ciò che appare e che percepiamo come appartenente all'esistenza non è altro che pura manifestazione dell'energia della nostra mente originata fin dall'inizio, al pari dello stato chiamato buddhità, che significa “condizione reale fin dall'origine” e che viene chiamata Samantabhadra.

Samantabhadra è la rappresentazione di Atibhudda, il Buddha primordiale. Tra lo stato del Buddha Samantabhadra e quello della natura della nostra mente  non c'è differenza di tempo. Sapendo che per sua natura la mente si manifesta in continuazione, saremmo portati ad aspettarci che proprio per il fatto che tutte le manifestazioni hanno la medesima origine esse siano pure e semplici espressioni di buddhità, ma osservando con attenzione ci accorgiamo che non è proprio così quello che accade. Anche se l'origine è la stessa, la manifestazione è diversa. Noi infatti non siamo Samantabhadra: mentre la nostra buddhità rimane nascosta siamo persone cosiddette “comuni”, che vivono nel samsara, che è limitazione, trasmigrazione e sofferenza. Come può accadere questo? Se la base e la condizione sono le stesse, perché Samantabhadra non è diventato come noi? E perché, invece, noi siamo nel samsara?

Per rispondere a questa serie di quesiti occorre ritornare a ciò che nell'insegnamento Dzogchen significano i termini rigpa e marigpa. Rigpa vuol dire possedere la conoscenza del proprio stato, marigpa significa il contrario.  Rigpa e  marigpa sono dunque due aspetti diversi della stessa base che è la nostra infinita potenzialità, chiamata anche 'stato primordiale'. Nella nostra potenzialità non c'è differenza tra l'essenza di Samantabhadra e l'essenza di noi stessi, ma nella manifestazione è diverso: Samantabhadra rimane nell'essenza del rigpa, cioè della conoscenza dello stato primordiale, mente noi siamo distratti e permaniamo nello stato che è il contrario del rigpa, viviamo cioè nel marigpa.

Facciamo un esempio. Quando appare un fenomeno, noi non ci accorgiamo che si tratta di una manifestazione della nostra mente e subito lo consideriamo un oggetto esterno e quindi, nello stesso istante, automaticamente, confermiamo l'esistenza di un soggetto che attraverso i sensi si mette in relazione con l'oggetto-fenomeno. Entrati così nel concetto di soggetto e oggetto siamo nella visione dualistica e di fatto siamo già nel samsara. Quando appare qualcosa, istantaneamente sorge in noi una sensazione di piacere o di rifiuto e così ci distraiamo dall'essenza della realtà. Samantabhadra invece rimanendo concentrato nello stato del rigpa, non si fa trascinare dal giudizio che sottintende una accettazione o un rifiuto e non entra nella visione dualistica. Ecco la differenza tra noi e Samantabhadra. Se vogliamo ritornare ad essere Samantabhadra dobbiamo capire questo e imparare a integrare nello stato del rigpa tutto ciò che sorge. Noi uomini comuni non conosciamo il nostro vero essere, le nostre potenzialità, e continuiamo a trasmigrare nelle varie forme di esistenza. Siamo sempre andati avanti nella direzione della trasmigrazione invece di tornare indietro e ritrovarci nella nostra vera condizione. Andando avanti così l'uomo, anche se crede di essere sempre più sviluppato e intelligente, costruisce un samsara sempre più pesante e per tale ragione il tornare indietro è sempre più difficile.

Ma volendosi riferire alla  natura della sua manifestazione, cos'è esattamente il samsara? È il frutto del nostro karma che si manifesta e vive in un continuum fatto di circostanze esterne ed interne in cui ad ogni istante alcuni degli infiniti semi accumulati in eoni di eoni della nostra esistenza spuntano sulla superficie come piccole piante che germogliando producono un intrico di differenti liane in cui l'essere viene avviluppato e poi soffocato senza nemmeno che se ne renda conto. La mente perde lucidità ed entra nel caos aggrovigliato di un gioco fatto di mille cause e di mille effetti; l'essere si abbandona a ciò che crede essere la realtà e si allontana sempre più dalla visione consapevole della saggezza originaria.

Nel mare della sofferenza c'è un gorgo che trascina nell'abisso la persona ormai resa cieca dalla sua stessa ignoranza. Ecco l'oscurità di un cielo che non esiste più.

A questo punto, sarebbe davvero proficuo fermarsi per un po' e limitarsi ad osservare, con tutta semplicità, il nostro piroettare continuo, la nostra smania di fare, di produrre, di agire, sarebbe utile “lasciar cadere” tutto, anche mentre tutto continuerà ad apparire e noi continueremo a darci da fare. Non è che si debba bloccare ogni cosa per entrare in una dimensione asettica e impersonale, ma guardare da fermi i turbinii della nostra esistenza e, soprattutto, non dare troppa importanza a quello che succede dentro e intorno a noi, sia quando piove che quando splende il sole.


20/05/2015 19:36:57
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