Com’è noto è in corso la
pubblicazione dei Quaderni neri di Heidegger, ossia dei pensieri filosofici
che egli segnò man mano che la sua concezione si sviluppava ulteriormente dal
1930 al 1969 (ma il “Quaderno” relativo al 1930 non è stato trovato). Il
filosofo stesso volle che essi costituissero gli ultimi volumi della sua “Opera
omnia”, iniziata mentre era in vita. E infatti partono, nell’”Opera omnia”, dal
volume novantaduesimo. In Italia a novembre è uscito il “primo”, o primo
gruppo, di tali Quaderni, relativo al
1931/1938. Da
noi, come dappertutto, l’emergere di talune espressioni antisemite presenti nel
volume sul 1939/1942, già uscito in Germania ma non in Italia, ha suscitato
anche una forte e demolitrice polemica contro Heidegger, che valuteremo meglio
quando conosceremo, pure nella nostra lingua, questo secondo volume. Personalmente,
ritengo doveroso, specie per un intellettuale, fidarsi solo dei propri occhi,
specie nel formulare valutazioni demolitrici, che non si devono mai dare di
seconda mano contro nulla e nessuno, ma solo con la propria testa. Comunque la
forte vis polemica mi colpisce, pensando al fatto che la recezione del
filosofo, in Francia (con Merleau-Ponty e Sartre), e in Italia (con Pietro Chiodi,
e sino a Gianni Vattimo), è
avvenuta “da sinistra”. La traduzione di “Essere
e tempo” (1927) di Heidegger da noi è infatti comparsa nel 1953, realizzata
da Pietro Chiodi, un capo partigiano di “Giustizia e libertà”, già professore al liceo di Beppe
Fenoglio, e importante anche per la scelta partigiana dello scrittore di Alba,
come emerge esplicitamente in alcune pagine del grande romanzo di Fenoglio Il partigiano Johnny (1968).
Immagino che la traduzione di Heidegger abbia comportato qualche contatto tra
il partigiano Chiodi, autore anche di uno dei più vivi testi della Resistenza, e
Heidegger, proprio negli anni in cui costui era stato epurato ed escluso
dall’insegnamento universitario in Germania in quanto nazista compromessosi col
regime hitleriano. Che uno sotto il nazismo fosse stato nazista, in modo più o
meno attivo, a meno che non fosse stato un aguzzino nel primo decennio dopo la
Liberazione non impressionava nessuno (neanche
un capo partigiano convintissimo, com’era stato Chiodi). Ma col passare dei
decenni la sensibilità sui risvolti oscuri delle biografie è cresciuta, anche
in modo benefico, nel tentativo di tener sempre viva la memoria dell’orrendo
olocausto subito dagli ebrei.
Tratti della filosofia di Heidegger
Questo primo volume dei “Quaderni neri” di Heidegger l’ho letto con
estrema cura, per capire meglio la filosofia dell’autore: una riflessione
teorica incentrata, dall’inizio alla fine, sul problema dell’essere, cioè sulla “prima origine” (in greco “arché”) da cui balzano fuori, e infine
sono riassorbiti, come da Natura naturans,
o “natura che crea la natura”, tutti gli enti (quale sia la realtà ultima di
questo radicale, o matrice, di tutto e tutti., o di questo Nulla creativo, o
Vuoto, o Vivente, alias “essere”). Se
potessimo “vedere” - ma per Heidegger
possiamo almeno “intra-vedere” - l’origine di tutto, la prima matrice,
“l’essere” onnicomprensivo, scopriremmo il senso delle cose e una vita
“autentica”, Anche se la verità scoperta su di lui (l’essere) rispetto a noi
(come “esser-ci”, esseri umani “nel” mondo) fosse amara al pari della morte,
come infatti risultò, in una prima fase, per Heidegger, in “Essere e tempo” (1927). Allora egli vide
quello che nell’essere ci annienta: il suo lato tenebroso. Infatti ogni condizione
umana, ogni “esserci” – che lì era il punto di partenza - gli sembrò
un’esistenza “gettata”, segnata da una continua “dispersione” (“deiezione”) tra
“banalità e chiacchiera”: modi di esistere “in-sensati” volti a farci rimuovere
il “niente”, l’in-consistenza, il
non-essere, o pura contingentia mundi,
che ci connota: ossia il nostro morire continuo: il “tempo” che ci fa e -
ahinoi - ci disfa secondo dopo secondo (ossia il fatto che il nostro esistere
“autentico” è un “essere per la morte”, è una “morte continua”). Non è che
semplicemente “moriremo”: moriamo in ogni istante. Quella consapevolezza è, per
quel “primo” Heidegger, la cifra stessa dell’”autenticità” esistenziale, che
svelandocisi per quello che è ci fa vedere l’impossibilità delle possibilità
(“angoscia”); ma ci consente pure di vedere l’essere al di là dell’anonimo
“esser-ci”, quantomeno rendendoci non più prigionieri delle scemenze
quotidiane.
Tuttavia comprenderemmo, tanto più, il
senso, l’origine, “l’essere”, anche nella più pura “gioia” di vivere - ritenne in seguito, dopo la “svolta” del suo
pensiero intorno al ’30, e specie dal ’36
in poi - se potessimo rimuovere la rimozione, cioè rimuovere la vita
inautentica che tanto ci alletta solitamente. Lo sostenne nel libro “segreto” “Contributi alla filosofia. Dall’evento” del
‘36/38: opera che sarebbe da approfondire per vedere se lo svelamento dell’essere
nella storia, di cui lì tra le alre cose si tratta, sia da interpretare - dal
punto di vista di Heidegger - in una chiave prevalentemente religiosa o
politica, individuale o collettiva. Lì, e di lì in poi, comunque Heidegger ci
dice che potremmo accedere ad una condizione naturale estatica, da esseri nell’essere, invece che “staccati da” (ex-sistentes) rispetto ad esso (ossia
invece che separati dall’essere in sé e per sé onnicomprensivo). Lo potremmo se
- con tutta la nostra angosciante nullità, da esseri che sono “come le foglie”,
già al centro di “Essere e tempo”
(1927) - potessimo scoprire, e soprattutto appassionatamente sentire - perché
per Heidegger, come per Husserl, è pensiero “vero” solo il pensiero
empatico, in cui si perde la differenza
tra soggetto e oggetto, e si vive quel che si pensa con “naturale”
emozionalità; e non quello astratto, pur utile su un piano strumentale – vedremmo
che siamo anche l’albero della vita da cui cadiamo. E nell’istante stesso in
cui lo com-prendessimo e sentissimo, appunto con tutto noi stessi,
raggiungeremmo un tale stato ek-statico
da relativizzare l’annientante male di vivere descritto in “Essere e tempo”. Ci sarebbero pur
riusciti – a “essere nell’essere”, vivendo l’angoscia del nulla (di Essere e tempo), ma anche, e insieme, la
più pura gioia di vivere, come se tali sentimenti dell’essere fossero due volti
complementari del Vivente - uomini già civilissimi, come i greci antichi tra
VII e IV secolo a.C. E, in termini non uguali, ma omologhi, e però moderni, lo
potremmo fare anche noi se potessimo vedere le cose non già subordinando
l’essere all’esistente (ossia antropomorficamente, antropocentricamente, in
modo “umano troppo umano” avrebbe detto Nietzsche), ma guardando l’esistente
come momento dell’epifania o svelamento dell’essere: in certo modo mettendo
sulla testa (sull’essere) quello che è posto – anche in Essere e tempo – sui piedi (sull’esistente “umano”). In tal caso
potremmo cominciare a fare un funerale di terza classe ad una civiltà
materialistica e tecnologica, fondata sul non-essere, ossia sull’asservimento
via via più spaventoso dei viventi al loro uso, o alla condizione di “utilizzabili”.
Heidegger e il nazismo secondo Safranski
A questo punto vorrei mettere tra parentesi
la filosofia, di cui mi sono or ora studiato di dare solo alcune coordinate
essenziali, per
cogliere solo, nel primo volume dei “Quaderni
neri” (dal 1931 al 1938), i brani del filosofo relativi al nazismo
(“nazionalsocialismo”). Vorrei citare taluni passaggi e commentarli, ma solo quanto serva per
renderli comprensibili anche al lettore non specialista (tenendo conto del linguaggio,
spesso oscuro, di Heidegger). Prima di procedere ulteriormente provo a dire in
due parole quale sia stata la “vera” posizione di Heidegger, almeno in queste
700 pagine e relativi anni, in materia di nazionalsocialismo. Mi pare che “per
ora” – per i volumi successivi vedremo - esca avvalorata la tesi del suo
biografo Rüdiger Safranski, il quale documenta che Heidegger dal 1933 al 1945 è
stato nazista: nel 1933 con forte convinzione, scemata via via dalla fine del
’34 e soprattutto dal ’36 in poi. Egli sostiene che Heidegger non fu mai
antisemita (io qui direi “non sarebbe mai stato antisemita”), bensì persuaso -
dopo la grande crisi del suo Paese e del ’29 - della necessità di un governo
autoritario come quello di Hitler. Dapprincipio credé anche - sempre secondo
Safranski - che il nazismo fosse una vera rivoluzione politico spirituale,
negatrice della “civiltà” tutta basata su una razionalità (per lui
pseudorazionalità) strumentale, materialistica e utilitaristica. Tramite le
camice brune sarebbe stata in cammino, come già nell’ellenismo arcaico e
classico (al cui cuore filosofico ci sarebbero stati i presocratici Eraclito e
Parmenide), tutta una civiltà alternativa, fondata sul senso del divino nella
natura e nella vita: uno stile individuale e collettivo d’esistenza
sincronizzato con natura e vita quali sono nella loro totalità onnicomprensiva
e nella loro intima essenza, annichilente e aperta alla pura gioia al tempo
stesso (alias sincronizzato “con l’essere”). Ma
ben presto comprese, già verso la fine del ’34, che il nazismo era solo
uno dei “competitors” per il dominio
mondiale, segnato dalla tipica “volontà di potenza” del nostro mondo, dentro
una civiltà “incivile” mondiale, che è tutta nell’essere – e non potrebbe
essere altrimenti, perché ci siamo sempre dentro - ma contro l’essere, o contro Natura o antifysis: in cui, per così dire, vediamo (siamo) il diavolo che si
morde la coda; ci facciamo continuamente male da soli, e, quel che è peggio,
sempre di più. Questa visione di un mondo “civile” in cui di notte tutte le
vacche sono nere, ossia i contendenti sono
della stessa pasta, gli avrebbe impedito - nonostante il suo criticismo
crescente - di staccarsi da quel mefistofelico humus già “a caldo”. Ma lo
avrebbe fatto dopo il 1945.
Parole di Heidegger sul nazismo dal 1931 al 1938
E ora veniamo ad alcuni testi di Heidegger
sul nazismo. Le citazioni sono tutte tratte dal primo volume citato dei “Quaderni neri 1931/1938”:
“Una volontà del popolo (volklich) che magnificamente si desta
sta entrando in una grande oscurità mondiale”.
(Questo è il primo pensiero.
Siamo nel 1931. Si nota sia la percezione del risveglio nazionale, che prelude
al nazismo, e sia quella dell’annuncio di tempi oscuri nel contesto
internazionale, in cui ciò accade).
“La grande esperienza e
fortuna (è) che il Führer abbia risvegliato una nuova realtà che mette il
nostro pensiero sulla strada giusta e gli conferisce forza d’urto. Altrimenti,
con tutta la sua profondità, sarebbe rimasto perduto in se stesso e solo con
difficoltà avrebbe trovato il modo di essere efficace. L’esistenza letteraria è
giunta alla sua fine.”
(Qui la speranza redentiva
nel ’33 riposta in Hitler è evidente. Il pensiero dell’essere a misura della
storia, senza l’avvento nazista avrebbe trovato più difficoltà ad emergere. La
scoperta di una nuova identità “autentica”, a livello collettivo, sarebbe stata
molto più difficoltosa se avesse dovuto seguire la sola via dei pensieri. I
pensieri “d’essere”, palingenetici, di
cui il filosofo si sentiva lo svelatore, tramite il risveglio politico
avrebbero perso il loro carattere “letterario” e avrebbero preso a farsi vita
concreta. Qui, nel 1933, siamo in piena fede nazista da neofita. Ma ben presto
il giudizio si farà più dubbioso e critico). Infatti nel ’34 nota:
“Di qui, naturalmente
all’insegna di uno stupido richiamo al Mein
Kampf di Hitler, si diffonde nel popolo una ben determinata dottrina della
storia e dell’uomo; tale dottrina si può caratterizzare al meglio come materialismo etico; con ciò non si intende
però la richiesta del piacere dei sensi e del pieno godimento come suprema
legge dell’esserci; certamente no. La caratterizzazione valga come consapevole
presa di distanza dal marxismo e dalla sua concezione della storia economica materialistica.”
“Materialismo, nell’espressione sopra
citata, significa che il cosiddetto ‘carattere’, il quale di certo non
corrisponde a brutalità e fanatismo, e il quale però vale come l’alfa e
l’omega, viene appunto posto come una cosa attorno alla quale ruota tutto il
resto. ‘Carattere’ può infatti significare
mentalità da borghesucci; o anche capacità di intervento pronta
all’impegno, risoluta e sobriamente concentrata sul suo lavoro e su una
conoscenza concreta; può anche voler dire: abilità in tutte le macchinazioni
che prendono di mira qualcosa e che nascondono il difetto di capacità e la
gravità e radicatezza – a tal punto sono manchevoli – del modo di pensare (…).
Con tutto questo affaccendarsi ampiamente
borghese intorno al carattere, che un giorno potrebbe naufragare per via della
sua stessa incapacità, si connette ora un torbido
biologismo che al materialismo etico fornisce la giusta ‘ideologia’. “
“9. Dove un popolo pone se
stesso come scopo, l’egoismo si diffonde nel colossale, ma non si guadagna
nulla quanto ad ambito e a verità – la cecità dell’Essere si salva in un
‘biologismo’ grossolano e desolato, che porta alle maniere forti in parole.
10. Tutto questo è, nel
fondamento, non tedesco.”
(A proposito del 9 va notato
che il motto “Deutscheland über alles”
- la Germania sopra tutto - tipicamente pangermanista e ovviamente nazista, è
il riferimento del passaggio sul “popolo” che “pone se stesso come scopo”:
approccio che dilata massimamente - in misura “colossale” - “l’egoismo”, qui
nazionale, che vede l’interesse “proprio” come valore a scapito di tutti gli
altri. Con ciò “la cecità dell’essere”, ossia l’opposto della visione
dell’essere - onnicomprensiva, multilaterale, eccetera - si afferma, ossia “si
salva”, in un “biologismo grossolano”, vale a dire tramite la pretesa
superiorità etnica dei tedeschi o ariani in quanto tali. Ciò è detto
“grossolano e desolato”, e prepotente, alias dalle “maniere forti”. Si dice
pure che tale orientamento è non tedesco “nel fondamento”: direi secondo moduli
nietzscheani dei frammenti postumi del 1888 in cui si diceva che il motto “Germania
sopra tutto” sarebbe stato “la rovina della Germania”).
“Non si cada nell’inganno
fondamentale secondo cui con l’intuizione facilmente possibile per chiunque
delle condizioni di allevamento biologico del ‘popolo’, si sia colto
l’essenziale – laddove è proprio questa maniera di pensare biologica, per sua
natura ordinaria e rozza, a impedire la meditazione sulle condizioni
fondamentali dell’essere di un popolo. - Il conoscere, per non dire il creare
queste condizioni richiede un eccesso
del superamento del popolo da parte
di se stesso, la liberazione da tutto ciò che è calcolo dell’utile – sia esso
valutato in base all’interesse comune o a quello personale. (…) Quanto è falso
quel calcolo che anzitutto vuole assicurare la stabilità esteriore per
raggiungere l’altro – forse – solo dopo.”
“Si sente dire che i
tedeschi, da ‘popolo di poeti e pensatori’, siano diventati una ‘nazione di
poeti e soldati’. Lo stesso oratore, alcuni anni fa, ha anche abrogato il ‘buon
Dio’ dei cristiani in favore di Wotan. Con l’annessione dell’Austria cattolica,
però, nei discorsi di questo retore è prontamente riapparso ‘il buon Dio’. (…)
Ma perché con tutte queste dichiarazioni non dovrebbe crearsi continuamente
della confusone tra i giovani?
Ma forse discorsi simili, a seconda delle
circostanze, non si prendono nemmeno più sul serio.”
Nei “Quaderni
neri 1931/1938” si polemizza in più punti con tre intellettuali politici
molto ascoltati dal regime: Ernst Krieck, Alfred Bäumler e il citato Baldur von
Schirach. Ma “loro”, i nazisti
intellettualmente più impegnati, che cosa pensavano di Heidegger? E quale sarà
l’ultima parola (o quasi) del filosofo sul nazismo? Qui sposto l’attenzione su
testi che sono citati tra virgolette nell’importante citata biografia di Safranski “Heidegger
e il suo tempo”.
Cominciamo da Ernst Krieck, Rettore
dell’Università di Francoforte, autore di “Nationalsozialistiche
Erzehung” (“L’educazione nazionalsocialista”, 1935), pedagogista principale
del regime e nazista di vecchia data, che diede un contributo fondamentale nel
contrastare l’accettazione di Heidegger da parte del nazismo e la sua nomina a
direttore dell’Accademia di Berlino che avrebbe dovuto dare la linea a tutti i
professori universitari tedeschi, consentendo allo stesso Heidegger di
assolvere al ruolo di filosofo dello Stato che specie intorno al 1821 in Prussia era stato
del grande Hegel. Heidegger fu in
contrasto anche con Alfred Bäumler, filosofo e storico della filosofia, cui si
deve l’interpretazione di Nietzsche come filosofo dell’imperialismo e del
fascismo, che avrebbe affermato l’idea della volontà di potenza in chiave
iperpoliticistica ed enfatizzato il ruolo dei duci nella storia in quanto
superuomini. Questo Bäumler fu un autore così importante per i “nazi” che i
loro epigoni italiani del tempo presente hanno tradotto ben tre libri in
proposito, specie su Nietzsche e il nietzscheanesimo. Va
però notato che tale interpretazione in verità è stata “condivisa”, e certo
anche di lì mutuata, dal grande marxista Gyorgy Lukàcs in “Distruzione della ragione”, del 1954, e ancora dall’importante e
serio filosofo neocomunista Domenico Losurdo in anni recenti.
Tali autori semplicemente detestavano e detestano quello che a Bäumler e ai
nazisti piaceva. Quest’interpretazione di Nietzsche è però stata ben
contraddetta da altri grandi studiosi come Eugen Fink, Gilles Deleuze, Massimo
Cacciari e soprattutto Gianni Vattimo (con cui su Nietzsche, visto come
filosofo libertario e di ogni spirito che tenda all’infinita liberazione di sé
- pur con taluni miasmi, che non mancano mai in nessuno - io concordo
totalmente).. Va però notato che la
lettura nazifascista di Nietzsche risulta essere stata totalmente respinta da
Heidegger, anche nei suoi corsi pubblici su Nietzsche. Su
ciò, secondo Safranski, la polemica di Heidegger col nazismo fu esplicita, ex
cathedra nonostante il totalitarismo. Del
resto questo da quei corsi risulta chiaramente.
Veniamo, a questo punto, alle valutazioni dei
nazisti leader culturali su Heidegger e la sua filosofia. Scrive il citato
Krieck nel ’34, nella rivista “Volk im Werden”:
“Il tono ideologico di fondo
della dottrina di Heidegger è determinato dal concetto di cura e di angoscia,
entrambe finalizzate al nulla. Il senso di questa filosofia è un esplicito
ateismo e nichilismo metafisico, altrimenti sostenuto nel nostro ambiente da
parte dei letterati ebrei, e quindi è un fermento di disgregazione e
dissoluzione per il popolo tedesco. In ‘Essere
e tempo’ Heidegger fa consapevolmente e intenzionalmente una filosofia del
‘quotidiano’, dove non c’è niente che riguardi il popolo, lo Stato, la razza e
tutti i valori della nostra immagine nazionalsocialista del mondo. Se nel
discorso di rettorato (…)
risuona improvvisamente il tono eroico, questa non è che una forma di
adattamento al 1933, in
totale contraddizione con l’atteggiamento di fondo di ‘Essere e tempo’ (1927) e di ‘Che
cos’è metafisica?’ (1929) e con le dottrine della cura, dell’angoscia e del
niente”
Il fuoco di fila fu tale che in occasione della
questione della possibile nomina di Heidegger alla testa dell’Accademia di
Berlino, nel 1934, il ministero di Alfred Rosenberg, il famigerato autore de “Il mito del XX secolo”, del 1930”
(mito che sarebbe stato quello della razza ariana pura risorgente), sentì il
bisogno di incaricare un filosofo di fiducia, Erich Jaensch, di approfondire la
cosa con specifico rapporto. In tale occasione questo Jaensch scrisse:
“Sarebbe in contrasto con la
sana ragione se l’istituzione forse più importante per la vita spirituale del
prossimo futuro venisse assegnata a uno dei più grandi squinternati e
stravaganti solipsisti che abbiamo in tutta la vita universitaria (…). Nominare
come massimo educatore delle nostre nuove leve accademiche un uomo il cui
pensiero tanto solipsistico quanto confuso, schizoide, e già in parte
schizofrenico (noto a tutti), è stato osservato chiaramente sia fra gli
studenti, sia qui a Marburgo, eserciterebbe un’influenza devastante sul piano
educativo.” .
Heidegger era allora nazista, ma i nazisti,
guarda caso, non erano heideggeriani. Questo dovrebbe rendere quantomeno più
problematiche le valutazioni demolitrici. L’ultimo testo che propongo è una
lettera di Heidegger allo studente Hans-Peter Hempel, del 19 settembre 1960. Il
giovane l’aveva interrogato a proposito dell’adesione al nazismo:
“Questo conflitto rimane
insolubile fintanto che Lei, ad esempio, un giorno legge al mattino ‘Il principio di ragione’ e alla sera
vede servizi e documentari sugli ultimi anni del regime di Hitler, fintantoché
Lei giudica il nazionalsocialismo solo
dal punto di vista di oggi e guardando a quanto è venuto chiaramente alla luce
un poco alla volta dopo il 1934. All’inizio degli anni ’30 le differenze di
classe nel nostro popolo erano diventate insopportabili per tutti i tedeschi
che vivevano con senso di responsabilità sociale, e così anche il pesante
ostruzionismo economico nei confronti della Germania dovuto al trattato di
Versailles. Nel 1932 c’erano sette milioni di disoccupati che vedevano davanti
a sé e per le proprie famiglie solo miseria e povertà. Il turbamento dovuto a
queste condizioni, che le odierne generazioni non riescono nemmeno a
immaginare, arrivò a coinvolgere anche le università.”
Riconosceva totalmente di
essersi sbagliato, ma aggiungeva:
“Simili errori sono già
accaduti a figure più grandi: Hegel vide in Napoleone lo spirito del mondo e Hölderlin
scorse in lui il principe della festa, cui erano invitati gli dèi e Cristo.”
Come filosofo sapeva di essere stato -
anche nella confusione tra dittatori e riformatori - in buona compagnia. Ma si
sa che “non è tutto qui”. Il resto ce lo diranno via via tutti i “Quaderni
neri” successivi: non solo quello già edito in Germania relativo al 1939/1942,
ma quelli sino al 1969.
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