Forse per esorcizzare un presente penosamenteoscuro e
tanto pieno di problemi di varia natura, in generale si fa spesso ricorso alla
cosiddetta “speranza”. Si invita da più parti il cittadino, le famiglie e
soprattutto i giovani a “non perdere la speranza” (Immagino nel futuro di
questa società).
Più di qualcuno, in altri termini, ci invoglia a
nuotare nell’illusione della speranza che presto o tardi arriverà una nuova età
dell’oro e con essa la spensieratezza, l’allegria, l’ottimismo a prescindere, i
brindisi con coppe ricolme.
Ma se non è un’illusione, cos’è in realtà la speranza?
Se vogliamo riferirci alla sua accezione più elevata scopriamo che i cristiani
cattolici la annoverano tra le virtù teologali insieme alla fede e alla carità.
Ma è mia personalissima e modesta opinione che tale catalogazione sia pensata
al solo scopo di spiegare, chiarire e descrivere tre aspetti diversi di un’unica
virtù, quella che trae diretta origine dalla grazia e che genera uno stato
indicibile e inspiegabile: come infatti si può pensare ad una speranza senza
fede e ad una carità senza che vi sia fede e speranza? In riguardo alla
speranza, si specifica che si tratta di una virtù teologale (cioè infusa
nell’uomo da Dio) per la quale desideriamo il regno dei cieli e la vita eterna
come nostra felicità (consisterebbe proprio in questo l’età.
Tutto ciò si evince dalla lettura del catechismo di
Santa Romana Chiesa e dallo studio delle opere dei suoi teologi. Ma il mistico
“sa” che possedere una virtù che per essere tangibile sottintende in modo imprescindibile
la presenza pervadente e concreta dello stato di grazia, è già “regno dei
cieli”, è già incomparabile felicità. È uno stato dell’essere in cui ciò che
sorge viene assaporato come nettare che fluisce spontaneamente dal profondo e
che pervade ogni piega della nostra dimensione, anche nel suo aspetto fisico e
materiale.
Lo stato di grazia è la grazia detta “abituale” (Tommaso
d’Aquino), cioè quello stato consistente nella partecipazione alla natura
divina e, quindi, dono essenzialmente soprannaturale, e che, proprio perché soprannaturale,
lo si direbbe incompatibile con la nostra natura umana, terrena e materiale, in
particolare con il nostro corpo fisico. Ciò farebbe supporre che il ricevere un
simile dono, la grazia, presupponga una raggiunta capacità di saper andare oltre
la propria fisicità, oltre la pesantezza della nostra materialità, in altre parole
(e più esattamente), oltre l’attaccamento al nostro corpo, che molto spesso fa
sì che l’uomo si identifichi soltanto in esso, sorvolando tranquillamente e
senza remore i propri aneliti interiori, le proprie vive e a volte prepotenti
aspirazioni verso l’esperienza dell’Infinito. È commovente constatare come questo
modesto essere appartenente al genere umano per sfuggire all’angoscia e allo smarrimento
in cui lo getterebbe una seria ricerca sulla profondità della sua essenza
interiore, finisca per attaccarsi in modo drammatico, spasmodico e irrazionale
a quell ‘ elemento che lo costituisce e che è il più facile da percepire, data
la sua materialità e la sua limitatezza: il corpo, che in realtà (sembra una disdetta),
è destinato, per sua natura intrinseca, all ‘ inesorabile decadimento, all ‘
inevitabile declino che porta alla malattia e, alla fine, alla sua estinzione, ovvero
a quel processo che comunemente viene
“morte”.
Capire con l’intelletto e ragionare su questi
argomenti sembra cosa abbastanza elementare, ma il cammino, per colui che non
si accontenta delle verità verbali, è ancora molto lungo e pieno di sorprese.
Si può andare “oltre la speranza”.
Vieni, scopri questa strada quasi sempre nascosta e non
importa se le mani sono trafitte, se il cuore giace in una pozza di stanchezza,
se la mente si è perduta nella vuota landa del cosmo, non importa se i piedi sono
scorticati e sanguinanti: questa è la via, questa è la strada che porta a
dimensioni sconosciute e qui non si odono più i moti del mondo: questo è essenziale,
una sorta di “conditio sine qua non”. Si esiste e basta. Ma si vive nella
pienezza dell’essere, senza rifiutare nulla, senza giudicare nulla. E ad un tratto,
improvvisamente, si viene folgorati dall’immensità, e questo capita nella notte
squarciata da lampi lievi e assolati ad un tempo, mentre ormai abbiamo smesso
di cercare l’incanto di strumenti.
Lasciar cadere l’immagine costruita ad arte, per abituarsi
al disfacimento del corpo, senza più un fardello, senza pianto distorto.
Tuffarsi in un deliquio profondo, abbandono completo del corpo. Uscire di casa,
e non far più ritorno.
Nel cielo campi sconfinati, non più solo un orto.