Da
molti secoli ormai l’uomo ha destato la sua coscienza e si interroga su Dio,
sul Mondo e sull’Uomo provando a dare delle risposte che via via trovano
origine nel contesto culturale di ciascuno.
In
Oriente l’atteggiamento più diffuso dell’uomo davanti a questi problemi può
essere accostato a una specie di consapevolezza passiva: Dio e il Mondo possono
benissimo avere un senso, anche se io non lo so; forse la conoscenza della
realtà ultima di tutte le cose sta ben oltre la portata del mio intelletto. Da
qui il famoso adagio “Chi parla non sa e
chi sa tace”.
In
Occidente la correlazione molto stretta ‒
per non dire totale ‒ tra pensare e l’essere giustifica il
seguente atteggiamento: “Se Dio e il Mondo hanno un senso deve essere possibile
conoscerlo, altrimenti come si può sostenere che hanno un senso? Se con il mio
pensare non arrivo all’Essere, o il mio pensare è molto debole o l’Essere non
esiste”. Vediamo che qui tutto ruota intorno alla conoscenza intellettiva.
Ma
v’è un terzo approccio a queste domande supreme ed è quello per cui si risponde
che il solo senso che hanno Dio e il Mondo è quello che gli viene attribuito
dall’Uomo. Nulla esiste indipendentemente dall’Uomo e Dio esiste, è efficace e
reale solo per chi crede in lui, mentre non esiste affatto ed è completamente
morto per chi non lo riconosce. Questo è l’atteggiamento dell’Uomo
contemporaneo, che si pone in tal modo come il centro di gravità universale.
Sembra
necessario, a questo punto, fare alcune riflessioni.
Secondo
pressoché tutte le grandi tradizioni religiose che si sono diffuse sul pianeta
”Dio è silenzioso”, Dio è silenzio, è un Dio nascosto che non si fa vedere, che
non parla, che ama il “mistero”, che ama circondarsi di tenebre, che nessuno ha
mai visto. Dio dunque è mistero e lo è a tal punto che un “Dio non misterioso”
cesserebbe di essere Dio. Coloro che gli sono andati vicini e che forse ne
hanno fatto l’esperienza sia pure di tipo mistico, dicono che solo il silenzio
può “parlare” di lui, perché qualunque espressione umana è inadeguata a
esprimerlo. Secondo i Veda “il silenzio non ha essere né non-essere”, ma fu da
questo silenzio che proruppe la Parola, il Verbo, il Logos. Nella tradizione
cristiana il mistero della Trinità esprime un concetto molto prossimo: la
realtà che si può percepire e “conoscere” è il Logos, non il Padre, che è
silenzio e mistero. Il Cristo è il Logos che si manifesta dal Silenzio, è la
Seconda Persona, che è venuto a dar voce e forma visibile al “Mistero silente dell’eternità”.
Ma
all’uomo moderno, che ritiene e accetta come vero soltanto quello che si può
verificare attraverso prove e metodi scientifici, un Dio che sia mistero e silenzio non dice
più nulla. L’uomo non accetta più la presenza del mistero e ha cancellato
questo termine dal proprio mondo. Ma forse lo ha fatto soltanto per sfuggire al
vuoto incolmabile che è venuto a crearsi nel momento in cui ha rifiutato
l’ipotesi che un Mistero senza dimensioni è dentro di lui, che lui stesso è un
mistero e che, alla fine ‒ per quanto si prodighi ‒
da questo mistero non può dissociarsi. L’Uomo moderno vorrebbe udire una Parola
comprensibile, comunicabile e chiarificatrice che sappia spiegare misteri e
silenzi. In assenza di tale parola egli si tranquillizza dicendosi che nulla
esiste, tanto meno una realtà cosiddetta spirituale fatta di silenzio e
mistero; sembra che gli sorga la necessità di credere che non vi sia nulla da
aspettarsi e nulla su cui indagare.
Ma
il cammino della scienza sta a poco a poco cambiando le cose, perché nel mondo
scientifico si sta prendendo atto dei limiti della stessa scienza che ad ogni
passo si scontra con il mistero.
L’uomo
tenta di fuggire davanti al Silenzio, perché il silenzio lo atterrisce e lo
getta nell’angoscia del mistero del proprio destino, in una solitudine
abissale, indicibile. Per questo l’Uomo moderno non sa più stare solo né
sopporta più il silenzio. E si inventa, quindi, tecnologie che gli permettono
di stare in contatto con tutti in ogni
istante e si accontenta di una macchina che gli permetta tutto questo. Ma tutto
questo non basta a lenire l’angoscia della sua solitudine cosmica, anzi, semmai
la sottolinea e la indica a caratteri cubitali.
Ma
non è il Mistero in quanto tale da esorcizzare, quanto piuttosto la paura, o il
terrore, che incute. Il mistero può essere invece fonte di felicità, di gioia,
di beatitudine, affermano i maestri buddhisti.
Chiunque
sappia prendere atto con coraggio che un grande Mistero si annida nelle
profondità dell’animo umano; chiunque voglia prendere contatto con questo
Mistero che è nascosto dentro di lui e in cui egli si dibatte e vive; chiunque
infine voglia venirne a capo cercando di comprenderne la natura e le
dimensioni, penetrarne l’essenza; chiunque, più dichiaratamente, volesse farne un esperienza diretta che lo porti alla
conoscenza della realtà ultima di tutte le cose, dovrebbe per forza fare i
conti con la propria finitezza di uomo, con i propri limiti, con la propria
angusta capacità fisica, si direbbe, di contenere la percezione di una
verità che avverte infinitamente più
grande di lui.
Questa finitezza, che fa del suo essere
un appartenente al genere umano, gli è propria e gli impone dei limiti ben
precisi oltre i quali non c’è luce che illumini il cammino. Quindi, se in lui
vive un nucleo fatto di mistero ed esprimibile solo attraverso il “silenzio”,
egli necessariamente deve farsi
“silenzio”, se quel silenzio vuole conoscere. Ciò non vuol dire che l’essere
del Mistero sia soltanto mero silenzio, ma piuttosto che il silenzio del
Mistero è un silenzio di essere o, più semplicemente che il suo silenzio è il
“luogo” del Mistero, è vuoto, è abisso.
Ma farsi “silenzio” significa svanire come essere “uomo”. Abbandonare la
propria finitezza significa qui svuotamento di sé, abbandono di sé, kenosi al
di là di trascendenza e immanenza, Entrare nel silenzio implica il cessare di
esistere come uomo per espandersi in una dimensione ultracosmica. E come si
ottiene il silenzio? Semplicemente tacendo, con la mente e con il cuore.
Sarà
interessante, a questo punto, approfondire e riflettere sulla peculiare
posizione che assunse il Buddha storico Sakyamuni davanti a questi
interrogativi e a queste problematiche.