Abbiamo considerato come l’uomo sia
sostanzialmente solo davanti al mistero dell’universo e della propria vita,
davanti all’ineluttabilità della fine della sua manifestazione materiale, cioè
del corpo, che, attraverso un progressivo declino del proprio stato fino al
sorgere della malattia terminale, giunge all’ultima scena in cui si rappresenta
lo stato d’agonia e si assiste all’esalazione dell’ultimo respiro.
Come scriveva Leopardi nel Canto
notturno di un pastore errante dell’Asia, l’uomo nasce nel dolore,
trascorre tutta la sua vita nel dolore e infine arriva
“Colà dove la via
E dove il tanto
affaticar fu volto:
Abisso orrido,
immenso,
Ov'ei
precipitando, il tutto obblia.”
E il Poeta
si chiede:
“Se
la vita è sventura
Perché da noi si
dura?”
Anche questa è domanda fondamentale ai
fini della comprensione del mistero dell’uomo,
Leopardi non è il solo a prendere
dichiarata posizione sullo stato di sofferenza che accompagna la vita umana.
Abbiamo detto come il Buddha storico Sakyamuni
abbia concentrato la propria attenzione, anche se da un punto di vista prospettico diverso da
quello del grande poeta di Recanati,
sulla sofferenza che permea l’intera esistenza dell’uomo, preoccupandosi
di scoprire una via che lo liberi dal dolore una volta per sempre, prima ancora
di trovare delle risposte ai suoi quesiti fondamentali. L’uomo è chiamato dal
Buddha a imboccare una strada anche senza sapere quale sia la meta finale.
Esiste, egli dice, una strada che conduce alla cessazione del dolore, alla
cessazione della sofferenza delle rinascite e della morte, alla liberazione
totale, ma non sappiamo cosa troveremo sugli ultimi tornanti di quella strada
e, soprattutto, non sappiamo cosa vedremo mentre riposiamo sulla vetta della
montagna. Non si preoccupi l’uomo di cercare un sostegno (quale
sarebbe appunto un essere divino al di sopra di tutto) alle sue difficili
condizioni di vita in questa dimensione umana, finita, limitata, senza scampo
apparente, intrisa di dolore e continua sofferenza. Perché è inevitabile che
nel “finito” non possa esservi felicità. É sufficiente ‒ continua ‒
che l’uomo ritrovi in sé stesso quello stato primordiale che gli è di
fondamento, quella condizione infinita ed eterna che sempre è stata pura e che
sempre sarà pura. Ma per ritrovare sé stesso l’uomo deve necessariamente
allontanarsi da quella parte di sé che cerca sollievo dalla sua angoscia
congenita nel perseguire illusioni, nel procurarsi distrazioni che sul
principio crede amene ed efficaci, ma che poi lo lasciano in uno stato di
prostrazione disperata, che vi cerca rimedio col dedicare la propria attenzione
e le proprie energie ai tanti idoli che ciascuno crea da sé e per sé, per avere
la forza di arrivare al giorno dopo.
Ma ogni giorno è lo stesso del precedente,
come le vite, che continuano a
succedersi una dopo l’altra da miliardi e miliardi di kalpa.
Secondo il Dharma, per riuscire a
ritrovare sé stesso l’uomo deve compiere una vera e propria rivoluzione
interiore, deve perdere ogni attaccamento a sé stesso, deve far tacere i
richiami delle peculiarità che
concorrono a formare la sua individualità, in ogni campo e in ogni contesto:
storico-personale, sociale, affettivo,
familiare eccetera. In altri termini l’uomo deve conseguire il silenzio
interiore in un cammino che si rivela essere di ascesi, intimo e raccolto.
Occorre sapersi avventurare a entrare nel silenzio profondo del proprio essere,
facendo tacere tutti i suoni interni della nostre facoltà pensanti. A dir
meglio, poiché caratteristica assoluta della natura della mente è quella di
manifestarsi senza soluzione di continuità in mille forme differenti, non è in
verità il silenzio-vuoto che occorre cercare, quanto piuttosto il
silenzio che è proprio della concentrazione meditativa e che permette al praticante
di non farsi distrarre dai fenomeni che gli appaiono in continuazione e che
egli percepisce esterni, cioè “altro”.
Tutto l’insegnamento del Buddha mira al
conseguimento di tale silenzio e per potervi entrare, il Dharma ha posto in
primo piano non la speculazione o una dottrina, ma la pratica della contemplazione, l’esperienza
diretta, la quiete della mente, il silenzio interiore. Il Buddhismo allora ‒
é stato detto tante volte ‒ non è che una
pratica meditativa, intesa come contemplazione interiore. Tutto l’insegnamento
del Buddha acquista significato e bellezza se compreso e vissuto a partire
dalla contemplazione. Se si tralascia questo fondamento o se si prescinde dalla
contemplazione meditativa, si cade nella mera dialettica, nelle sottili elucubrazioni e così ci
sfugge il sublime messaggio del Buddha. Così sublime che un praticante
buddhista del Buddhismo non parla proprio, non disquisisce. Entra nel silenzio
della soggettività e ciò basta.
Mag-Chig-Lag,
una grande Maestra vissuta in Tibet nel XII Secolo, in un insegnamento dato ad
un proprio discepolo (di nome Gon-pa Mug-song) spiega quale Demone deve temere
di più un praticante:
“Le radici di tutti
i Demoni si incontrano nella Soggettività, sicché è sommamente importante
tagliare questa proprio alle radici. Questa Soggettività è chiamata ‘credere in sé’.
Credere in sé è la radice di tutto il male
e di tutta la sofferenza. Soggettività significa prendere ciò che sorge, sia
buono che cattivo, e attaccarsi ad esso come definitivamente reale. Ma sia
questo ‘oggetto’ che questo ‘soggetto’ e tutte le entità di questo mondo
fenomenico dentro e fuori, che noi prendiamo come ‘me’ e ‘mio’, sono
riconosciuti come niente del tutto, da coloro che hanno una più ampia
comprensione. Sbaràzzati di tutti questi Demoni che ti impediscono di acquisire
la liberazione, sbaràzzati di tutto questo afferrarsi alle manifestazioni come
se fossero la Verità! Quando non c’è più un soggetto che corre dietro ad
un’esperienza, sia essa buona o cattiva, e quando tutti gli artificiali giudizi
mentali del percepire e del desiderare si dissolvono, niente che abbia a che
vedere con postulati mentali può ancora sussistere. Se tale Sé, tale
Soggettività non esiste, anche i ‘Demoni’ non esistono e così potrai espandere
la tua consapevolezza a tutto ciò che può essere conosciuto, assaporerai il
frutto della liberazione da tutti i tipi di Demoni.”
Riporto ora una pagina che mi è capitata
tra le mani anni fa, e che, facendo parte del diario di un anonimo praticante, racconta di una soggettività
personale in via di dissolvimento:
“Ho abitato per
tantissimi anni, per secoli, in una casa che poggiava su una nuvola.
Ora la pioggia comincia a cadere, la
nuvola si scioglie in pioggia e la casa svanisce.
Non resta più nulla.
Ma ecco, ora la pioggia a contatto con il sole diventa vapore. Posso
dire che anche la mia casa è evaporata.
È un mutamento continuo di tutto.
Anch'io, che di quella casa ero parte
tanto attiva, che ammiravo dalla finestra il cielo sempre più azzurro, anch'io
mi sono dissolto nella pioggia che lava.
Anche
di me non resta più nulla.
La casa è svanita in luce e la luce è la
condizione dello spazio infinito. È una chiarezza che tutto trasforma, che si
trasforma essa stessa, eppure che non muta, che non è mai mutata e che mai
muterà. È una sintesi suprema di silenzio e movimento, in una quiete che poi
supera quella stessa sintesi e somiglia alla vetta di un picco solitario che
pareva irraggiungibile. Che meravigliosa visione da quassù.
Il bosco è tutto fiorito e riempie lo spazio
di infiniti colori.
Non ho più una casa, e nemmeno una nuvola.
Anch'essi erano i miei limiti. Il capo abbandonato, gli occhi chiusi e aperti
nello stesso tempo, eppure la visione tutto comprende. Lo specchio è puro,
senza macchia, e non c'è polvere che lo possa velare: è inconcepibile che possa
essere condizionato da ciò che riflette, e per piccolo che sia, riflette
l'intero universo.
È un espandersi del cuore, non solo della
mente: lo spazio interno, prima limitato dai ‘punti fermi dell'io’ e ancorato ad
essi, ora è libero di unirsi allo spazio esterno, che non ha barriere. Non c’è più un ‘dentro’ e un ‘fuori’
È la danza del cielo”.