Il progetto di Trump : rendere l’America grande come lo era stata in
passato, le promesse del Regno Unito : un exit hard dall’Europa alla ricerca di
una nuova collocazione internazionale; la Cina di Xi Jinping esibisce forza
politica e volontà di potere, a Davos Xi parla in favore della globalizzazione
come Blair 10 anni fa e Clinton 20 anni
fa. Asia e Africa saranno il terreno di conquista dove si proietterà il futuro dell’economia
del Dragone. La Russia sembra essere ritornata agli anni ’70 del secolo scorso,
ai tempi dell’Unione Sovietica, riesce a dare di sé un’immagine di potenza
militare e il Putinismo fa rivivere un grande passato ideologico. Il Giappone governa
con grande dignità la sua decadenza mantenendo intatta la sua identità, il suo
leader Abe conserva la piena occupazione ed è ricambiato da un grande consenso
politico dai suoi concittadini. L’America Latina sta per abbandonare il suo
consueto populismo a favore di scelte realistiche. Brasile e Argentina registrano
segnali di ripresa mentre il Messico si sta attrezzando per resistere al
trumpismo. L’Africa subsahariana sembra avere superato senza troppi traumi la
fase della diminuzione del prezzo delle materie prime che attualmente stanno
riprendendosi, Canada e Australia continuano a costituire oasi di serenità .
Dove stanno dunque i nuclei di crisi del
mondo? In Europa, ai suoi confini meridionali, sulla riva opposta del
mediterraneo che oggi potrebbe diventare la polveriera del pianeta. Nel Vecchio
Continente è in atto una profonda crisi di identità unita a paralisi politica, alimentate
da numerosi errori compiuti nei tentativi di dare soluzione ai problemi. Emigrazione gestita nel peggiore dei modi con
il risultato dell’aumento dei livelli di xenofobia, stagnazione economica non
ostante la svalutazione dell’euro rispetto al dollaro dall’1.60 del 2008
all’attuale 1.06, disoccupazione specialmente nel settore giovanile che in molti
paesi della fascia meridionale ha raggiunto livelli preoccupanti. Ma è
soprattutto la condizione di isolamento in cui attualmente si trova, mai così
palese dalla fine della seconda guerra mondiale. Sola di fronte a sfide senza
precedenti è chiamata a dar prova delle sue capacità di reagire. L’Europa che
resta la prima potenza economica del mondo non riscuote le simpatie delle altre
grandi potenze. Trump la vede con gli occhi di Farage , rispetta la Merkel se
riuscirà a confermarsi al potere ma non si dichiara certo disposto a favorirla.
Ma nemmeno Putin e Xi hanno interesse per un’Europa unita. Preferirebbero
trattare coi singoli stati in una posizione di forza. Saranno, nei prossimi
mesi, i risultati delle elezioni, olandesi, francesi e tedesche a sancire se
l’Unione resterà in piedi o se non si avvierà mestamente verso la
disgregazione. Per ora, non ostante l’isolamento, non pensa di ricorrere a
riforme strutturali per risolvere la sua condizione ma ai soliti piccoli rimedi:
pannicelli caldi , analgesici e sedativi come il Qe, l’euro svalutato e un’ attenuazione
modesta delle sue politiche fiscali che le permetteranno di tirare avanti e
magari, per le borse europee, di inseguire e forse persino di superare Wall
Street compresa l’Italia se agirà in modo incisivo sul ciclo di ricapitalizzazione
delle banche.
La prima fase del Trump rally, durata un
paio di mesi, da inizio novembre a fine gennaio, e basata esclusivamente su
generiche aspettative si è esaurita. Ha coinvolto i mercati azionari, obbligazionari, dollaro e materie prime. Più
volte il nuovo presidente aveva ammonito i suoi elettori di stare molto accorti
per non rimanere col cerino in mano. Reagan
, Clinton e Obama avevano iniziato il loro mandato dopo una recessione, con
mercati azionari sottovalutati, la ripresa economica aveva fornito loro il
favore popolare e assicurato il secondo mandato. Trump parte in una fase di
ciclo finanziario maturo con prezzi in borsa già triplicati; è noto che sono
essenzialmente le politiche della Fed a condizionare riprese e recessioni, ma
attualmente la Federal Reserve non è disposta a fare favori a Trump ed ha
iniziato ad alzare i tassi che, se non arresteranno la ripresa, certamente
bloccheranno ulteriori rialzi del mercato azionario. Nel frattempo a grandi passi si materializza
il Trumpismo reale che ha già fatto capolino nei primi decreti del Presidente,
di cui in questi giorni si registrano i primi caotici effetti. Le ambizioni di
questo nuovo Congresso sono di vasta portata , si tratta di riconsiderare e
riformare tutto il sistema fiscale ma anche il complesso delle istituzioni
multilaterali uscite dalla seconda guerra mondiale.
La parola d’ordine riguardo alle politiche
economiche di Trump è “protezionismo” e fine delle politiche liberistiche.
E’noto che la pressione verso il libero scambio proviene da chi è più
competitivo, riesce a produrre una quantità di beni materiali superiore alla
sua domanda interna e quindi esporta molto come succede attualmente a Germania
e Cina. Al termine della seconda guerra mondiale Usa e Regno Unito, usciti
vincitori e con un apparato produttivo enormemente potenziato, hanno imposto un
ordine mondiale verso il libero scambio e la globalizzazione.
Trump probabilmente non è un protezionista
convinto, ma ha ricevuto mandato dagli elettori degli stati industrialmente
maturi di fermare l’emorragia di fabbriche e posti di lavoro, e ora mantiene le
promesse fatte. La borsa approva e, mentre il Dow Jones vola oltre i 20 mila
punti, festeggia il protezionismo e un certo ritorno agli anni ’70 del secolo
scorso.
Col rimpatrio della produzione di auto dal
Messico agli Usa aumenterà il costo del lavoro ma molti dipendenti saranno
sostituiti da robot, frutto di solidi investimenti in tecnologia e produttività,
che serviranno a mantenere i prezzi delle auto competitivi. Per tutti gli altri
settori della produzione industriale ci saranno scambi vantaggiosi che
contempleranno deregulation , semplificazioni di iter costosi, taglio di
imposte e quant’altro.
In politica estera verranno messi in
discussione gli attuali rapporti con la Cina. Per ora c’è in vista la
distensione con Russia e Taiwan, la riforma del Nafta con l’allargamento al
Regno Unito e possibili imposizioni di tariffe doganali fino al 45%. La Cina probabilmente
reagirà minacciando la vendita dei titoli del Tesoro americano in suo possesso.
In ogni modo è probabile che i due capi di stato cercheranno di confrontarsi
prima di entrare nel vivo delle trattative.
All’orizzonte comunque non si profilano né
recessioni o fallimenti ma robuste tensioni internazionali, la lotta politica
si farà incandescente in America, e mentre l’Europa ripiegata su sé stessa
ricercherà l’identità perduta, noi piccoli vasi di coccio italioti godiamoci lo
spettacolo mantenendo atteggiamenti prudenti e defilati.