L’epilogo che riassume e conclude quanto
detto negli ultimi articoli è quanto mai semplice.
L’emozione straordinaria e decisiva, palpitante, che lascia attonito colui che la
vive, è scoprire la limpida e sconfinata leggerezza dell’essere e del vivere:
la “beata semplicità” come la chiama Raimon Panikkar (1918-2010). Non
è facile incontrarla, e occorre prima comprendere come la pesantezza che ci
zavorra non esista nella realtà, perché è solo una manifestazione della nostra
errata visione, a sua volta originata da una ignoranza di fondo talmente
onnipervadente che molti nemmeno si accorgono della fatica gravosa che li
opprime. Ma inseguendo un cammino di purificazione a poco a poco la verità si
svela, come un’acqua torbida che calmandosi deposita le impurità e così se ne
libera diventando limpida e trasparente: così diventa possibile vedere il
fondo.
Come si è visto, davanti ai grandi quesiti
dell’umanità e dell’universo, l’uomo è solo e non ha risposte innate
soddisfacenti. Egli viene al mondo nella solitudine e lascia questo mondo nella solitudine dopo aver assai tribolato nelle vicende che
hanno accompagnato la sua vita, o meglio, questo segmento della sua esistenza.
Ma non è detto che la realtà umana si esaurisca in questa routine. Non possiamo
dimenticare che l’uomo è dotato di una coscienza e che questa coscienza gli permette di
osservare sé stesso e la propria natura in tutti i suoi aspetti, comprese
quelle realtà che i sensi fisici non possono cogliere. Questo
vale per tutti e appartiene a tutti gli esseri, umani e, si tramanda, non solo
umani.
Ora, c’è qualcuno, che io chiamo fortunato —
anche
se non si può parlare di mera “fortuna” nel senso comune di alea — che
nella sua ricerca alle
radici del sé percepisce qualcos’altro di reale nelle profondità del
suo essere, avvertito magari solo per un
attimo, qualcosa che attraversa il suo
cielo come un lampo, qualcosa che spesso somiglia a un indicibile anelito, a una voce a volte
irresistibile che chiama e che fa intravvedere
tra le nuvole e le nebbie della nostra limitata conoscenza una dimensione che
travalica ogni aspetto del suo essere uomo, al di là della stessa sua comparsa
sul pianeta terra. È come, per un cieco che vive da sempre nell’oscurità,
arrivare a vedere per la prima volta il sole che squarcia le nuvole:
un’esperienza emozionante, un rapimento intimo che porta uno turbamento particolare e unico nell’animo di
chi ha la sorte di viverla. Quello che egli sembra percepire, e che in realtà
davvero sperimenta, è qualcosa di incommensurabile, senza limiti, e, per ciò
stesso, inspiegabile e indescrivibile.
È possibile che la sua brama naturale di
“sapere” lo induca ad approfondire tale esperienza extrasensoriale, a
ricercarne l’origine e la reale consistenza, e così egli arriva a scoprire l’esistenza, dentro sé, del “mistero”, di un
“mistero” che vive sigillato in una stanza segreta del suo cuore. e nello
stesso istante egli comprende quanto gli enigmi che giacciono insoluti dentro
di sé, siano, come detto, molto più grandi delle sue capacità intellettive. E
si trova – così gli pare ‒
ad un bivio: o forzare la porta di quella stanza segreta del cuore e andare oltre la sua finitezza congenita,
per trovare così, attraverso
un’esperienza diretta, la sconfinata e indicibile realtà delle cose, di sé
stesso e dell’universo; oppure rimanere al di qua di quella stessa porta
affondando in un dubbio esistenziale tremendo (il quadro dell’uomo che vorrebbe
aprire la porta della conoscenza non può non far pensare al famoso racconto di
Kafka “Davanti alla legge”, ma ricorda anche la mela che Adamo invano
mangiò insieme ad Eva nel giardino dell’Eden e che tanto gli costò).
V’è da domandarsi perché l’uomo sia così
terribilmente attratto dal mistero che lo avvolge, dall’ignoto, dalla mela
della conoscenza dell’Eden, da ciò che non sa e che potrebbe trovare al di là
delle Colonne d’Ercole. Azzardo un’ipotesi: forse perché una “stilla di
incommensurabile” dentro di lui lo rende insoddisfatto e insofferente della
propria condizione umana? E non è proprio questa stilla di insoddisfazione per
la sua condizione, questa brama di conoscenza che giustifica la sua aspirazione
al divino?
Forse v’è da chiedersi se questa
aspirazione al divino per il fatto stesso di essere avvertita, già non renda di
per sé, l’uomo divino, pur con tutto il suo fardello di umanità che si porta
sulle spalle e nel cuore.
Ma che senso può avere il cercare di
uscire dalla nostra finitezza congenita per approdare all’oceano infinito della
dimensione spirituale, ammesso che ci si possa riuscire in questa vita? E
questo non vuole forse nascondere la pretesa di sconvolgere l’ordine naturale
delle cose? Ciò sarebbe estremamente arduo se non impossibile finché abbiamo un
corpo che si lamenta ad ogni pizzicotto. Se siamo nati uomini, perché aneliamo
ad un superamento di tale condizione supponendo che l’unica ed efficace via sia
abbandonare, per poi superarla, la dimensione umana? Forse perché vogliamo
allontanarci dalla sofferenza che accompagna le nostre vicende esistenziali per
attingere la fine del dolore e la beatitudine eterna?
In
realtà tutto sembra molto più semplice. È qui infatti che ci viene in aiuto il
supremo Dharma del Buddha, il suo insegnamento, la via da lui indicata.
Non esiste alcun bivio. Che si vada in una
direzione o in un’altra nulla cambia.
Tutto è chiaro fin dal primo momento. L’illuminazione, la conoscenza, il “senza
limite”, la cosiddetta salvezza sono già nell’uomo fin dall’origine,
indipendentemente dal fatto che egli se ne renda conto. Ciò costituisce la base
della comprensione del mistero dell’uomo. È questo suo stato primordiale il suo fondamento, quello che a volte si
mostra, si fa sentire e qualche volta prorompe dal silenzio delle profondità.
Non v’è nulla da cercare, dice il Buddha, nulla da accettare e nulla da
rifiutare, nessuna direzione da seguire. Tutto, fin dall’origine, è già fatto,
è già qui, è completo ed è perfetto. Occorre solo che l’uomo lo realizzi.
“Finito” e “Infinito” sono una dicotomia creata dalla nostra mente concettuale.
La realtà si trova al di là dei concetti, al di là della mente discorsiva che
cataloga e ragiona. La realtà non è dualistica, come invece appare alla nostra
visione limitata. Il praticante si rilassi e impari a dimorare al di là di ciò
che appare ai suoi sensi, tagli alle radici l’attaccamento per sé stesso e per
i fenomeni belli o brutti che appaiono sulla sua strada e che lo trattengono
legandolo, faccia l’esperienza della realtà pura della mente, della sua essenza
e della sua natura, e comprenderà profondamente,
in un istante improvviso cosa sia la
liberazione e da quel momento non perderà più il suo tempo a distrarsi col
dibattere su questo e su quello.
È nell’integrazione delle due dimensioni,
pura e impura, che le si supera entrambe. Si saprà allora che “puro” e “impuro”
sono la stessa cosa. Sacro, profano, samsara e nirvana sono solo concetti
creati dalla nostra mente: al di là di essi c’è il non-duale: incomparabile
levità dell’essere, nel cui grembo si può contemplare l’eterea e luminosa
leggerezza creativa del vivere.
“Tutta l’esistenza
è nettare: per purezza e impurità non c’è posto dall’origine” diceva la
prostituta Metsongma Parani, una grande realizzata del II° secolo a.C.
Hui Neng (638-713 dell’era moderna),
analfabeta, sesto Patriarca dello zen cinese, il cui insegnamento costituisce
un caposaldo basilare per tutto il
Buddhismo, così espresse la sua realizzazione:
“Quando
il praticante sarà libero da tutti i dubbi
Vorrà dire che ha
trovato la sua Essenza della Mente.
Il Regno di Buddha
è in questo mondo
Cercare
l’illuminazione separandosi da questo mondo
È assurdo come cercare le corna di un coniglio.
Le idee giuste
sono dette ‘trascendenti’;
Le idee sbagliate
sono dette ‘mondane’.
Quando tutte le
idee, giuste o sbagliate, sono lasciate da parte
Appare l’essenza
della Bodhi”
Ma è bene smettere con i ragionamenti che
non creano nulla e sperimentare la realtà in modo diretto e personale.
Andarsene con
passo leggero,
come un uccello
nella notte,
andarsene nella
leggerezza dell’essere.
Questa è vita.
Questa è “la” vita.
Per non esservi,
per non essere mai stati.
La semplicità se
la conquisti diventa assoluta.
Guardi e non c’è
nessuno. Non c’è nulla da vedere.
Ma in questo nulla
da vedere c’è tutto.
Come dirtelo? Con
quali parole?
Riposa nel
silenzio che crea,
grande come la
coscienza universale.
Saltare dalla
torre più alta
e trovare
il mare.