Euro: cronistoria di un fallimento. Le tappe del declino industriale italiano
«Abbiamo fatto
una moneta senza Stato; noi abbiamo avuto la pretesa faustiana di
riuscire a gestire una moneta senza metterla sotto l’ombrello di un
potere caratterizzato da quei mezzi e modi che sono propri dello
Stato e che avevano fatto ritenere che fossero le ragioni della forza
e poi della credibilità che ciascuna moneta ha».
Giuliano Amato.
«Non
dobbiamo sorprenderci che l’Europa abbia bisogno di crisi, e di
gravi crisi, per fare passi avanti. I passi avanti dell’Europa sono
per definizione cessioni di parti delle sovranità nazionali a un
livello comunitario.…È chiaro che il potere politico, ma anche il
senso di appartenenza dei cittadini a una collettività nazionale,
possono essere pronti a queste cessioni solo quando il costo politico
e psicologico del non farle diventa superiore al costo del farle
perché c’è una crisi in atto, visibile, conclamata. ».
Mario
Monti.
«Abbiamo
gettato via il bambino con l’acqua sporca».
Federico
Caffè.
A ben
vedere sia l’uno che l’altro titolo sono appropriati a descrivere
lo status quo economico, sociale e giuridico, a cui la
costruzione «frankesteiniana» della moneta unica dell’Unione
Europea, denominata Euro, ci ha portati. Il primo titolo
indica che un percorso cronologico a tappe,
dislocate negli anni e nei decenni precedenti, ha contribuito a
determinare la situazione disastrosa economica e sociale a cui
la maggiore parte dei paesi membri dell’Unione europea si
trova soggetta ormai da nove anni, con uno stato prolungato di
agonia.
Il
sottotitolo suggerisce che il processo di deindustrializzazione
e di declino generale dell’economia italiana ha conosciuto un
suo personale cammino che lungo la sua strada ha incrociato le
dinamiche e le logiche economiche e politiche internazionali,
per infine convergere nel calderone o nella «fornace»
dell’edificazione dell’Unione europea e dell’euro, con il
trattato fondativo di Maastricht 1992, poi confermato da quelli di
Amsterdam 1999 e di Lisbona 2007, trattati dalla configurazione
tutt’altro che democratica, una sorta di dittatura
politico-finanziaria, che era destinata ad esasperare una
situazione già di per sé negativa.
Ma quali
sono i dati concreti, le cifre del disastro in atto? Bene, se
prendiamo il caso dell’Italia confrontandolo con gli altri
principali paesi dell’ Eurozona e dell’economia globale
vediamo che tra il 2007 e il 2014 l’Italia ha avuto un perdita
secca di 10 punti percentuali del Pil, mentre nello stesso
periodo il Pil della Cina cresceva del 74,4%, quello degli Stati
Uniti dell’8,7%,il Giappone dello 0,4%, mentre nell’ Eurozona a
fronte della crescita del 5,8% della Germania, ( del cui caso
«eccezionale» disquisiremo più avanti) la Francia è
cresciuta del 2,8%. Tra i paesi Eurozona con segno negativo del Pil
nello stesso periodo, accanto all’Italia vi sono la
Spagna al - 3,8%, e la Grecia pressoché
«defunta». ( caso esemplare di un’ aberrazione giuridica,
uno stato sovrano di cui è stato proclamato lo stato fallimentare,
cioè declassato da soggetto di diritto pubblico a soggetto di
diritto privato) al -25,1%.
Negli
ultimi due anni, 2015 e 2016, il Pil dell’Italia ha
recuperato uno 0,8% annuo, per un totale in due anni del 1,6%. Il
tasso di disoccupazione in Italia nello stesso periodo preso in esame
non corrisponde a quello ufficialmente proclamato del 12%, il quale
non considera le persone sfiduciate che non cercano più
lavoro, ma sale vertiginosamente al 22,8 % della popolazione in età
lavorativa se nel computo vengono appunto comprese le persone
inattive che si suddividono nelle seguenti categorie: gli inattivi
che non cercano più lavori ma sono disponibili a lavorare( un
milione e cinquecentomila) , e gli inattivi che cercano lavoro
non attivamente ma disponibili a lavorare( due milioni e centomila),
per un totale complessivo tra disoccupati «ufficiali» e «ufficiosi»
di sei milioni e seicentomila.
Voragine
al centro della disoccupazione italiana è la disoccupazione
giovanile attestatasi intorno al 40 %. Nel 2016 ( dati
Istat aggiornati a Novembre) la disoccupazione «ufficiale» è
passata dal 11,7 del Novembre 2015 all’11,9, con dati
disomogenei tra le diverse classi d’età( più occupazione degli
over 50, meno occupazione per gli under 40). Sempre nello stesso
periodo di tempo abbiamo perso il 25 % della produzione industriale e
il 33% della produzione manifatturiera, o per cessata attività o per
passaggio nelle mani di multinazionali straniere, da che ne è
seguita, nel migliore dei casi, il mantenimento della produzione e
dei posti di lavoro in Italia e il trasferimento dei profitti
all’estero, nel peggiore la pronta delocalizzazione delle
produzioni.
Il
differenziale di Pil pro capite medio( Pil suddiviso per ogni
persona) tra Germania e Italia dagli anni 90 agli anni
2000 è passato da 1500 euro a oltre 8000( in precedenza era
costante) con una perdita secca di 6.500 euro a testa. Negli anni 90
l’Italia aveva un Pil pro capite medio di 4000 euro superiore alla
media europea. Oggi il Pil pro capite italiano è sotto la
media europea di 4.500 euro.
In una
zona euro costantemente depressa nei suoi ritmi di crescita, sempre
con la cospicua eccezione della Germania( guarda caso), l’Italia
continua a distinguersi, aihmé, in negativo, ponendosi in coda
nella classifica di crescita del Pil annuo degli Stati
membri(+0,8) nel 2016. Eppure, a metà degli anni 90,
l’Italia come sistema paese era «ancora» o «nonostante tutto»(
e vedremo in che senso virgolettiamo tali affermazioni) la
quinta potenza industriale del mondo, il secondo paese manifatturiero
d’Europa dietro la Germania, dunque il suo principale competitore.
Oggi siamo al quarantanovesimo posto nella classifica delle economie
mondiali.
Come è
potuto accadere tutto ciò, come è stato possibile? A moh di
battuta potremmo rispondere che si è verificata una «congiunzione
astrale avversa» che ci ha portati nel giro di vent’anni alla
situazione attuale. Ma non ci troviamo in quella commedia con
protagonista Renato Pozzetto che nel ruolo d’imprenditore di
cantieri navali, in evidente difficoltà nei pagamenti degli stipendi
dei suoi operai, addiviene a un accordo di cessione della sua
attività a un ricco sceicco degli Emirati arabi, non accorgendosi di
una spiacevole postilla inserita nel contratto di compravendita, al
che si vede costretto a darsi alla fuga esclamando : «il c… non è
una postilla».
No, non
si tratta di una commedia ma piuttosto di una tragedia economica,
sociale e politica, per cui più che congiunzione il termine
«congiura » parrebbe essere più indicato. Per capire come ci siamo
cacciati in quella che appare a tutta prima una dannata trappola
bisogna però fare un rapido percorso a ritroso per risalire ai
lontani antefatti di questo fallimentare progetto di Unione Europea,
un edificio costruito alla rovescia, invece che dalle fondamenta e
dalle pareti ( convergenza di fattori politici, giuridici, economici,
fiscali, sociali e culturali) per poi eventualmente giungere al
«tetto » della moneta unica, si è cominciata da questa nell’idea
che per partenogenesi essa avrebbe generato tutto il resto. In questo
percorso a ritroso ci faremo guidare dalle annotazioni su Unione
Europea ed euro di Antonino Galloni, economista, e
Giuseppe Guarino, professore emerito di diritto costituzionale e
pubblico.
Antonino
Galloni, fu consulente economico dell’allora ministero del
bilancio( oggi ministero dell’economia), tra il 1979 e il 1981.
Lasciò l’incarico per i motivi che vedremo fra poco, ma fu
richiamato al ministero nell’estate del 1989
dall’allora presidente del consiglio Giulio Andreotti, ma
dovette dimettersi dopo pochi mesi. Giuseppe Guarino da parte sua fu
ministro dell’industria nel 1987 nel governo De Mita, e poi
ministro delle finanze e delle partecipazioni statali nel governo
Amato nel 1992, anno della ratifica dei trattati europei di
Maastricht da parte dell’Italia. Convinto europeista,
testimone di tutti i principali passaggi che hanno portato alla Ue e
all’euro, si è negli ultimi anni dichiarato pentito perché a suo
avviso lo spirito e gli articoli fondamentali del trattato di
Maastricht sono stati traditi e rovesciati nel loro significato al
momento della ratifica definitiva dell’ingresso della moneta unica
euro, relativamente agli scambi commerciali tra i diversi Stati
membri, il 1 gennaio 1999. In quel momento, osserva Guarino, «un
ladro è entrato in casa». Ma per capire questa affermazione
dobbiamo un attimo risalire ai lontani antefatti.
I
LONTANI ANTEFATTI
Nel 1970
dopo vent’anni di CECA ( Comunità economica del carbone e
dell’acciaio) e di CEE( Comunità economica europea ), istituzioni
costituite sulla situazione esistente in Europa Occidentale,
fu avviato un progetto totalmente nuovo di Unione
Europea, senza precedenti storici. Il progetto perseguiva
l’idea di creare, con il consenso degli Stati membri, un’ unione
politica priva di un potere politico centrale, con una moneta nuova
che per la prima volta nella storia non si appoggiasse a un potere
politico. Nessun confronto al riguardo è possibile con ad es. la
Federal Reserve statunitense, la quale agisce in cooperazione con il
governo statunitense. Diverse furono le fonti d’ispirazione
di un tale progetto, diverse e tra di loro contrastanti.
Vi
era certamente il progetto federalista europeo contenuto nel
Manifesto di Ventotene i cui firmatari furono Altiero
Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni. L’idea del Manifesto
era che di fronte alla catastrofe europea della seconda guerra
mondiale solo un’organizzazione federale avrebbe potuto ridare all
‘Europa un ruolo di protagonista sulla scena internazionale,
ponendo fine a secoli di guerre fratricide. Ma accanto a questa
ispirazione ideale il progetto dell’Unione europea incontrò
anche le ragioni di real politik degli Stati Uniti, che
nel contrasto al blocco comunista dell’Europa dell’est guidato
dall’Unione sovietica, vedeva con favore il rafforzarsi di una
«zona cuscinetto» tra sé e l’Urss già costituita con il sorgere
della Organizzazione del Trattato dell’atlantico del nord
( Nato).
Ogni
riduzione di sovranità nazionale che contenesse l’endemica
conflittualità tra gli Stati europei e favorisse la
costituzione di una tale zona cuscinetto e di un Unione Europea era
di conseguenza ben vista dall’America. Infine un
terzo movente o movimento spinse avanti l’idea di un
unione transnazionale incentrata sull’unione dei mercati economici
e sul suo «mediatore» universale, la moneta unica. Questo movimento
lo potremmo chiamare « la rivincita » o la riscossa del capitalismo
delle corporations o multinazionali. Che cosa intendiamo
dire? Per capirlo dobbiamo tornare all’estate del 1971
quando fu posto fine dall’allora presidente Statunitense
Nixon agli accordi di Bretton Woods in vigore dal 1944, secondo cui
il dollaro era fissato al valore dell’oro( 35 dollari un’oncia
d’oro) e tutti i cambi tra le valute a loro volta erano
fissati al valore del dollaro. Questo per evitare una troppa facile e
abbondante emissione di valuta da parte degli Stati che non
trovasse un corrispondente quantitativo di beni e servizi sui mercati
interni, incentivando così una domanda eccedente l’offerta e di
conseguenza un aumento vertiginoso dei prezzi dei beni al consumo,
ossia un classico caso di scuola d’ inflazione.
Ma tra
gli accordi di Bretton Woods, che riguardavano i Paesi
alleati nella lotta al nazifascismo e al militarismo giapponese, ma
che poi sarebbero stati estesi nel dopo guerra a tutti paesi del
blocco occidentale, non c’era solo l’ancoraggio dei cambi al
dollaro/ oro ma anche una sorta di solidarietà tra Stati per cui,
se la bilancia dei pagamenti ( le cosiddette partite correnti interne
a uno Stato) vedeva un eccessivo sbilanciamento in favore delle
importazioni e a detrimento delle esportazioni, oppure quello Stato
aveva dei deficit strutturali nel suo apparato produttivo, gli era
consentito di attuare una svalutazione competitiva della sua
moneta, per rilanciare la sua bilancia dei pagamenti dal lato
delle esportazioni. Erano anche previsti aiuti finanziari agli
Stati in difficoltà, senza sufficienti infrastrutture produttive,
da parte di istituzioni internazionali create per queste specifiche
finalità quali il Fondo monetario internazionale( che doveva
controllare la stabilità dei cambi tra le valute o, in
alternativa, la concessione di leggere svalutazioni e dei
conseguenti riallineamenti tra le diverse divise) e la Banca
Mondiale( destinata alle operazioni di soccorso finanziario ai
singoli Stati). Pensando al modus operandi di FMI
e BM oggi, tutto ciò sarebbe inconcepibile.
Nixon
nel 1971 pone fine alla convertibilità dollaro/ oro per due ragioni
: 1) per poter a piacere stampare dollari senza più
essere vincolato alle riserve auree della Federal Reserve,in
modo da far fronte alle necessità impellenti e sempre
crescenti di finanziamento dell’impegno bellico nel Vietnam;
2) perché la crescita smisurata di circolante in valuta americana –
i cosiddetti «eurodollari» nelle transazioni commerciali
nella CEE, i «petrodollari» nelle transazioni commerciali tra
i petrolieri – metteva in crisi la stessa possibilità della Fed di
farvi fronte con le sue riserve aurifere.
Dal 1971
in poi i cambi tra le monete cominciano a fluttuare liberamente,
producendo svalutazioni e incontrando però forti attacchi
dalla speculazione finanziaria, finché per quando riguarda l’ area
dei mercati dell’Europa Occidentale viene istituito un nuovo
sistema di cambi «semirigido» ( con un range di svalutazione
oscillante tra il 2% per la maggior parte delle valute europee e il
6% per Italia, Gran Bretagna, Spagna e Portogallo ) in
riferimento ad un ‘unità di conto comune chiamata ECU. Il sistema
è denominato SME( Sistema monetario europeo). Lo SME
entra in vigore nel 1979. Nello stesso 1979 il G7 di Tokio pone fine
agli ultimi accordi previsti dalla conferenza di Bretton Woods,
finisce la solidarietà tra le diverse economie: ogni Stato d’ora
in poi dovrà aggiustare da sé i propri squilibri nella bilancia dei
pagamenti, nei surplus o nei deficit tra importazioni ed esportazioni
di merci o tra importazioni ed esportazioni di capitali, ossia sarà
tenuto a far crescere i tassi d’interesse sui propri titoli di
Stato per finanziare la propria spesa pubblica.
Tramonta
così, a 35 anni dal suo inizio, un modello di «economia mista
» tra il governo pubblico o politico dell’economia e
il libero processo di un ‘economia di mercato, un compromesso tra
il controllo politico dei meccanismi macroeconomici ( moneta,
bilancia dei pagamenti, indirizzi strategici delle industrie
infrastrutturali dell’energia, dei trasporti e delle
telecomunicazioni) e il libero sviluppo dei singoli settori
produttivi.
In
Italia tale processo, che ha portato questo Paese ad essere,
verso la fine degli anni settanta, la quinta potenza
industriale del mondo, ha conosciuto un suo specifico sviluppo.
La sua articolazione presentava grandi imprese infrastrutturali
a partecipazione pubblica ( L’Eni, l’Enel, la Sip,Alitalia,
le Ferrovie dello Stato, la Società delle autostrade e il colosso
dell’IRI, su cui qui non possiamo soffermarci) che
significa che la proprietà e i capitali d’investimento erano dello
Stato e dei suoi rappresentanti politici nei ministeri chiave,
ma il management era affidato a imprenditori privati( il più famoso
dei quali fu il manager dell’Eni, Enrico Mattei). Presentava
inoltre grandi industrie private nel settore automobilistico ( la
FIAT) nei settori siderurgici, metalmeccanici e chimici. Vi era
infine una fitta rete di piccole e medie imprese dislocate in
territori circoscritti e storicamente determinati, specializzate in
una o più fasi di un processo produttivo e integrate mediante una
rete complessa di interrelazioni : i cosiddetti «distretti
industriali».
Come
potremmo definire il modello di capitalismo appena descritto ?
L’economista Galloni lo definisce un modello di capitalismo
«sviluppista» o «sostenibile». in cui l’esito del
processo di accumulazione del capitale, dei suoi elementi e stadi, e
cioè il profitto, vedeva una tripartizione tra gli stipendi dei
lavoratori, in generale in netta crescita, la quota riservata allo
Stato mediante le tasse e il profitto vero e proprio riservato al
proprietario dei mezzi di produzione, e cioè il capitalista. In
questo processo il capitalista aveva un margine di profitto
relativamente ridotto per unità di prodotto venduta, e
sostanzialmente un ruolo abbastanza marginale ad es. rispetto al
manager che era incentivato a portare lo sviluppo della produzione al
suo massimo e a pianificare investimenti finalizzati a
valorizzare l’impresa e ad aumentare vendite e profitti
sul medio e lungo termine. Ma, e questa è la
considerazione di Galloni, il capitalista orientato invece a ottenere
i suoi obiettivi nell’immediato o comunque sul breve termine, non
poteva ritenersi soddisfatto di tale stato di cose e la classe
imprenditoriale internazionale, sopratutto a livello delle
Corporations, stava preparando in quegli anni settanta
la sua rivincita.
Approfittando
anche di eventi di crisi inflazionistica( aumento dei prezzi dei beni
al consumo), causati dalle crisi petrolifere successive alla guerra
del Kippur del 1973 e alla Rivoluzione iraniana del
1979, inflazione attribuita non alla riduzione di approvvigionamento
e all’aumento vertiginoso dei prezzi delle materie prime( petrolio
e derivati) ma a un presunta gestione «allegra » di emissione di
moneta da parte degli Stati sovrani e ai fenomeni di svalutazione nei
rapporti tra le diverse valute, i potentati economici e finanziari
cominciarono ad avocare a sé il diritto di controllo sulla
emissione, regolazione e distribuzione della moneta. Avrebbe dovuto
essere la «libera» legge della domanda e dell’offerta di
titoli o obbligazioni pubbliche sui «sovrani mercati finanziari» a
governare i flussi di moneta e sostituire il monopolio e la
sovranità degli Stati nella creazione di denaro.
In un
più generale quadro di rivincita di modelli liberistici di
mercato, rivincita nei confronti del modello misto di capitalismo dei
trentacinque anni precedenti, che potremmo definire di ispirazione
keynesiana, mentre ora tornavano in auge le teorie neoliberiste della
scuola economica austriaca di Von Hajek, il cui testimone era nel
frattempo stato preso da Milton Friedman e la sua Scuola di Chicago,
il primo ministro inglese appena nominato Margaret Tatcher annunciò
i lineamenti fondamentali di tale dottrina. Sostanzialmente la Banca
centrale d’Inghilterra non doveva più sentirsi obbligata a
stampare moneta né ad acquistare titoli di Stato rimasti invenduti
nelle aste appositamente allestite. Lo Stato Britannico avrebbe
dovuto seguire un altro modello di finanziamento della propria
spesa,non più basato principalmente su un grande quantitativo di
emissione di moneta, ma sostanzialmente basandosi sul taglio della
spesa pubblica ( dello Stato sociale) sull’aumento della
tassazione indiretta sui consumi in corrispondenza della
diminuzione della tassazione diretta sui redditi, sulla vendita ai
privati delle grandi industrie di Stato. Le teorie monetariste di
Milton Friedman, secondo cui il rallentamento della emissione di
moneta avrebbe ridotto i fenomeni inflazionistici, aveva trionfato in
Inghilterra.
Di lì a
poco anche il neoeletto presidente statunitense Reagan avrebbe
seguito la stessa strada percorsa dalla Tatcher e tracciata dalla
teoria monetarista friedmaniana, anche se con alcune cospicue
differenze( da qui le dottrine economiche del Tatcherismo e
della Reaganeconomics ). E l’Italia? Come si poneva in
tale mutato contesto internazionale giungendo proprio in quel
fatidico passaggio tra gli anni settanta e gli anni ottanta al
culmine del suo sviluppo economico, pur non privo delle sue
contraddizioni interne? Dobbiamo ridare la parola ad Antonino
Galloni, il quale all’epoca non solo era un giovane brillante
economista, uno dei principali collaboratori dell’ economista
postkeynesiano Federico Caffè, ma ebbe a svolgere un ruolo
nell’amministrazione pubblica e ad essere testimone, melgrè
lui, di decisioni fatali sul destino futuro dell’economia
italiana.
COME
CI HANNO DEINDUSTRIALIZZATO: ANTONINO GALLONI RACCONTA
Il
modello di sviluppo economico italiano in quegli anni settanta non
era certo privo di contraddizioni, osserva l’economista Galloni. Le
grandi imprese infrastrutturali a partecipazione statale, che avevano
una presenza importante sul mercato internazionale e facevano da
traino all’intera economia italiana, presentavano però
un «difetto strutturale » rilevante: una pervasiva diffusione di
una rete di corruzione basato su un sistema di tangenti di cui
godevano i dirigenti politici delle imprese di Stato, tangenti che
però si ricavavano su gli investimenti e sul profitto degli
investimenti. Dunque, annota Galloni «i dirigenti della
classe politica democristiana e socialista allora al governo
rubavano sugli investimenti ma consentivano investimenti produttivi
delle reti infrastrutturali a medio e lungo termine; rubavano sul
profitto ma allo stesso lo incentivavano». Il sistema delle
partecipazioni statali produceva altresì un rilevante livello
occupazionale e anche il settore industriale privato vero e proprio
presentava caratteristiche analoghe. In quegli anni settanta,
nonostante le due crisi inflattive determinate dagli shock
petrolifici, in Italia stipendi e pensioni erano garantiti nel loro
potere d’acquisto dal meccanismo d’adeguamento automatico
all’inflazione chiamato «scala mobile», e non si manifestavano
fenomeni rilevanti di disoccupazione.
Questo
modello misto di capitalismo pubblico/ privato, osserva Galloni,
proprio per la tripartizione del profitto tra aumenti degli
stipendi dei lavoratori che puntavano ormai a diventare classe
media( grazie anche al supporto di forti organizzazioni sindacali),
la quota destinata ad essere incamerata dal sistema fiscale dello
Stato, e la quota residua di profitto destinata al capitalista vero e
proprio, marginalizzato nel suo ruolo anche dalla preponderanza della
figura del manager, «prefigurava una possibile uscita dal modello
“ puro” del capitalismo non più come “rivoluzione
comunista” ma come evoluzione o auto-superamento del sistema, ma le
sinistre italiane non se ne accorsero».
Certo
il pervasivo sistema di corruzione e clientelismo pesava
sull’economia italiana nel suo complesso ma non impediva il suo
sviluppo. Singolarmente, quella congiuntura
internazionale di fine anni settanta, di fine del sistema Bretton
Woods, di entrata in crisi del modello keynesiano di economia
partecipata dallo Stato, di ritorno del pensiero liberista, di
volontà di rivincita del capitalismo delle multinazionali, di
recepimento di tale «mutamento di vento» da parte di alcuni Stati,
s’incontrò con un’ ondata di volontà di moralizzazione della
classe politica corrotta da parte delle forze progressiste
italiane.
Tanto
la sinistra politica democristiana che una frazione del partito
socialista che l’intero ceto dirigente del partito comunista
dell’epoca concordarono sulla necessità di attuare misure
drastiche per moralizzare la classe dirigente corrotta. Nel 1981
l’allora ministro del tesoro Andreatta concordò tramite un
semplice scambio epistolare con il governatore della Banca Italia
Ciampi, che la Banca Italia non sarebbe più stata obbligata ad
acquistare la quota invenduta di titoli di stato emessi dal
tesoro e messi in vendita alle aste appositamente allestite sui
mercati finanziari.
Fino
ad allora il ministero del tesoro e il governo e lo Stato, per
interposta persona, finanziavano la grossa quota di spesa pubblica in
disavanzo dello Stato che non era coperta dalle entrate fiscali
con l’emissione di titoli pubblici a bassissimo tasso d’interesse(
il 3%); quando alle aste dei titoli o obbligazioni di Stato una quota
non era comprata dagli acquirenti ( i privati ma sopratutto le grandi
banche) la Banca d’Italia era tenuta ad acquistarla immettendo così
moneta nel sistema di spesa pubblica.
Dopo
il divorzio tra tesoro e Banca Italia quote cospicue di
titoli di Stato non venivano più acquistate dalle grandi
banche e dagli investitori istituzionali( fondi d’investimento
pensione, fondi d’investimento comune e compagnie assicurative)
in modo che il tasso d’interesse offerto potesse salire fino al 7/%
in media, con punte anche oltre il 10%, , dopo di ché l’intero
stock di titoli venduti alla singola asta, anche quelli già
venduti al tasso d’interesse iniziale del 3%, veniva portato al
tasso d’interesse superiore di quelli rimasti invenduti, per equità
della vendita.
L’effetto
immediato fu quello di far crescere vertiginosamente il debito
pubblico ( attestatosi fino al 1981 al 58% del Pil annuo, destinato
nel 1992 a raddoppiare al 115% del Pil). Un altro effetto non
immediato ma che si sarebbe rovinosamente manifestato nel giro
di pochi anni, fu che gli investimenti nelle industrie a
partecipazione pubblica non cessarono ma diminuirono
vertiginosamente, mantenendo la quota destinata a tangenti e
mazzette( la corruzione non fu debellata come pensavano alcuni tra i
sostenitori, «anime belle», del divorzio), una buona
quota degli investimenti destinandola allo stesso acquisto dei titoli
di Stato emessi dal tesoro per autofinanziarsi dato gli alti
tassi di rendimento che offrivano, e allocando solo
una quota marginale agli investimenti allo sviluppo ormai non
più a medio e lungo termine ma di corto e limitato raggio.
Da
parte loro le imprese private di grandi dimensioni stornarono
buona parte dei loro profitti da nuovi investimenti produttivi, anche
perché private del traino delle industrie di Stato, ma sopratutto
perché ormai risultava a loro molto più redditizio
reinvestire i profitti nell’acquisto di titoli di Stato che
davano un rendimento medio del 7%. Il 7% delle obbligazioni
italiane degli anni 80 costituiva il benchmark di
riferimento dell’economia internazionale, ossia il paradigma di
massimizzazione del profitto assunto dalle imprese dei diversi
settori, sia dell’economia finanziaria che dell’economia reale.
Da allora in poi i capitalisti, proprietari delle imprese, davano
mandato ai loro manager di raggiungere, in qualsiasi modo un profitto
annuo prefissato del 7%, visto che questo era il rendimento
speculativo delle obbligazioni italiane. Il rischio d’impresa
veniva così scaricato all’esterno della impresa stessa, sui
lavoratori, sugli Stati, sulla società. Terminava così qualsiasi
vestigia di «etica calvinista del capitalismo», cominciarono ad
essere praticati licenziamenti in misura cospicua e la stagnazione o
riduzione degli stipendi dei dipendenti.
Antonino
Galloni chiese spiegazioni della decisione del divorzio da Banca
Italia al ministro del tesoro Andreatta,
facendogli notare gli effetti disastrosi assolutamente prevedibili
che tale manovra avrebbe comportato: crescita vertiginosa del debito
pubblico tale da superare il Pil annuale, un aumento della
disoccupazione giovanile oltre il 50%, la previsione che
le piccole e medie imprese, esautorate dell’appoggio delle
industrie di Stato di cui avevano goduto come una sorta di filiera
dell’indotto industriale, e non in grado di finanziarsi sui
mercati, sarebbero anch’esse entrate in crisi.
Andreatta
gli rispose: «non ha capito, Galloni, noi vogliamo che le piccole e
medie imprese spariscano da questo Paese, dobbiamo sostituirle con
imprese di grandi dimensioni che competano sui mercati
internazionali. Se la disoccupazione giovanile crescerà questa sarà
un ‘opportunità per creare misure di contratti flessibili di
lavoro per consentire ai giovani di trovare occupazione».
Galloni
se ne andò dal ministero del Bilancio e dopo aver svolto brevemente
un incarico al ministero del lavoro, lasciò l’amministrazione
pubblica tornando a studiare economia presso le università
americane. Nel 1989, puntualmente, come effetti di lungo
corso, si verificarono le previsioni sulla crescita della
disoccupazione giovanile in Italia ( record mondiale al 56%) e
sull’inizio di una fase di crisi economica del sistema Paese.
Venuta a conoscenza di ciò che era accaduto sia
dagli articoli pubblicati sulla rivista Terza fase
diretta dall’Onorevole Donat Cattin, che dai seminari di
economia che Galloni teneva per conto della stessa
rivista, la giornalista Norma Rangeri fece un ‘intervista a
Galloni sul Manifesto, in cui emerse che un giovane
oscuro funzionario del ministero del Bilancio aveva previsto ciò che
sarebbe successo in seguito al divorzio tra Tesoro e Banca Italia, e
questo fece scalpore e suscitò un tafferuglio sui mass media.
In
seguito a queste vicende Galloni fu contattato dall’allora
presidente del consiglio Giulio Andreotti che gli chiese se era
disponibile a collaborare per modificare le linee guida
dell’economia italiana. Eravamo nei primi mesi del 1989 e Andreotti
si mostrava ancora euroscettico, non entusiasta del progetto di
Unione Europea e di costruzione di una moneta unica per tutti i Paesi
membri che si stava delineando in quel periodo. Da lì a poco,
con il crollo progressivo del blocco dei paesi dell’Europa
comunista tra l’estate e l’autunno di quell’anno, si delineava
la prospettiva concreta che potesse finalmente avvenire la
riunificazione tra le due Germanie.
In
questa ottica il presidente francese Mitterand pianificò
un’alleanza o intesa con il presidente della Germania federale
Helmut Khol, affinché la riunificazione dello «scomodo
vicino» non potesse risultare una minaccia sotto più punti di vista
per la Francia: il partenariato doveva prevedere l’ingresso della
Germania sotto una Europa comune e una moneta
unica, nella previsione che la collaborazione tra i due colossi
europei, come asse privilegiato dell’intera Europa occidentale,
avrebbe guidato e trainato l’intero mercato europeo e fatto da
premessa a un futura costituzione politica e sociale comunitaria.
Ma
perché la Germania potesse accettare un tale accordo, e perché esso
facilitasse la sua riunificazione all’ex Germania Democratica, i
trattati costitutivi dell’Unione europea e l’euro dovevano avere
caratteristiche peculiari, assai confacenti alla fisionomia economica
e giuridica dello Stato tedesco, e non necessariamente compatibili
con le economie e costituzioni giuridiche degli altri Stati europei.
L’euroscettico
Andreotti, alla fine dell’estate del 1989, mise dunque
Galloni alla direzione generale del ministero del bilancio supportato
da una squadra di economisti e giuristi, con lo scopo di
trovare il modo di rovesciare la politica monetaria ed industriale
inaugurata con il divorzio Tesoro/ Banca Italia del 1981,
e di ritardare l’entrata dell’Italia nell’Unione europea e
nella moneta unica in modo da non dover sottostare a condizioni
capestro per gli interessi del nostro paese. Ma il progetto ebbe vita
brevissima, solo pochi mesi. Dopo una conferenza tempestosa tenutasi
presso l’Università Bocconi di Milano nel mese di ottobre di
quell’anno, conferenza in cui, accompagnando il ministro del
Bilancio Pomicino, Galloni si scontrò con il professore Mario Monti
proprio in merito a quel progetto di riforma economica, si scatenò
una campagna di stampa avversa e una sollevazione di
istituzioni influenti quali la Fondazione Agnelli e Confindustria nei
confronti del neo-direttore del ministero del Bilancio. Infine si
mobilitò addirittura il cancelliere tedesco Helmut Khol, che in una
telefonata al ministro del tesoro Carli segnalò che: «qualcuno
al ministero del bilancio stà intralciando i nostri piani
europeisti».
Non
passò molto tempo che Galloni fu costretto a dimettersi, lo stesso
presidente del consiglio Andreotti fino ad allora euroscettico,
«ricevette pressioni in tal senso»: il tentativo di rovesciare il
processo in corso era fallito. Ad anni di distanza riflettendo sugli
anni ottanta e su come l’economia italiana subì in quel periodo un
contraccolpo decisivo, Galloni ricordò come il suo maestro di
studi economici Federico Caffè, poco prima di sparire in circostanze
misteriose, commentò quelle vicende: «hanno buttato via il
bambino con l’acqua sporca». Di più, osservò Galloni, «
il bambino, cioè lo sviluppo, fu buttato, e ci siamo tenuti l’acqua
sporca, cioè la corruzione e il clientelismo». Perché un progetto
europeo con quelle caratteristiche di moneta unica, di
istituzioni giuridiche ed economiche configurate in modo da favorire
nettamente la Germania e ( illusoriamente ) la Francia, potesse
andare in porto, dovevano essere messi da parte gli interessi
dell’Italia principale concorrente economica in Europa dei due
colossi, «si doveva deindustrializzare l’Italia» commenta
Galloni.
IL
92’
Il
grande scrittore e romanziere francese Victor Hugò nell’ottocento
intitolò il suo romanzo che doveva dare l’affresco della
Rivoluzione francese Il 93’, prendendo il 1793 a simbolo
della fase decisiva di quelle vicende. Lo stesso potremmo fare noi
prendendo a simbolo il 1992 come l’anno decisivo in cui i destini
dell’economia italiana si incrociarono in maniera definitiva e
fatale con la nascita dell’Unione europea e la pianificazione
dell’euro. L’ultimo governo Andreotti, mentre a Milano scoppiava
il caso Tangentopoli, una vasta ramificazione di sistema di
corruzione tra il pubblico e privato che incominciava a
destabilizzare i partiti di maggioranza, a cominciare dal Psi di
Craxi, il 17 febbraio 1992 ratificò i Trattati di Maastricht
che sancivano il progetto Unione europea. Viene da chiedersi
se i ministri competenti dell’ultimo ministero Andreotti
fossero pienamente consapevoli di quello che andavano a
sottoscrivere, se avessero esaminato dettagliatamente gli articoli
dei Trattati che definivano le istituzioni politiche, le
istituzioni finanziarie e le politiche economiche della UE nel loro
complesso.
L’istituto
della Commissione Europea andava a riempire il
vuoto di potere della mancanza di un governo europeo
centrale, diventando di fatto il potere esecutivo che
accentrava a sè anche il potere legislativo, configurandosi come un
‘istituzione totalmente autonoma nella sua produzione e imposizione
di leggi e dagli Stati membri e dal Parlamento europeo,
l’unica istituzione elettiva della Ue, totalmente svuotata di
qualsiasi prerogativa se non quella di fare da «notaio che
registra in differita» le leggi promulgate dalla Commissione.
I singoli commissari inoltre,ognuno dei quali designato alla
sovraintendenza di una materia specifica, essendo nominati ciascuno
dal governo del proprio Stato, rimaneva fin dall’inizio dubbio che
nel promulgare nuove leggi lo avrebbero fatto nell’interesse
generale dell’Unione Europea e non guardando esclusivamente
ai propri interessi nazionali a discapito di quelli di un altro
Stato.
Il
quadro delle Istituzioni europee determinanti veniva completato dalla
costituzione della Banca Centrale Europea ( Bce) nel cui
statuto, fissato nell’articolo 104, era
riconosciuto a tale istituzione il monopolio di creazione della
moneta unica euro( monopolio in realtà solo nominale, come vedremo)
e gli era fatto obbligo di non farsi prestatore in ultima
istanza di denaro agli Stati, ossia gli era vietato di
finanziare la spesa pubblica in deficit, dallo Stato via via a
scendere agli enti pubblici di grado inferiore. La Bce poteva
solo immettere liquidità sui mercati secondari, ossia acquistare
presso enti finanziari, ( banche ed affini) i titoli privati e
pubblici, quest’ultimi emessi dallo Stato per finanziarsi ai tassi
d’interesse decisi dai mercati finanziari. Era di fatto, e lo si
vedeva benissimo già allora, la degradazione dello Stato da ente
pubblico, sovrano, a un ‘ente qualsiasi di diritto privato tra gli
altri, che va in banca con il cappello in mano a chiedere i prestiti.
L’Italia,
il cui sistema economico, dalla punta di eccellenza in cui si trovava
all’inizio degli anni ottanta, aveva conosciuto quei
contraccolpi che abbiamo raccontato, a partire dal 1992,
attraverso i vari governi che si succedettero, non fece altro che
rincorrere l’adeguamento ai parametri di politica economica
fissati dagli articoli dei Trattati europei( tra cui il limite
di deficit annuo di spesa al 3%, e l’obiettivo del
progressivo risanamento del debito pubblico fino alla riduzione al
60% del Pil ), per poter essere accettato in un consesso per lei
assai svantaggioso, uno svantaggio di cui andiamo
succintamente a riassumere i punti.
1)
la moneta Euro era equiparata 1 a 1 al valore del marco
tedesco, cioè di una moneta mediamente assai più forte della lira,
il che comportava un notevole svantaggio per un sistema economico
fortemente basato sulle esportazioni quale era quello italiano, per
cui da una parte non sarebbe più stato possibile, in
caso di necessità, una svalutazione competitiva della moneta,
e dall’altra parte la Germania non avrebbe più sofferto di quello
che era il meccanismo di rivalutazione della propria moneta
come conseguenza naturale dei meccanismi di riequilibrio dei
movimenti di importazioni ed esportazioni di merci e capitali
sulla bilancia dei pagamenti. Non a caso da diversi anni in qua il
surplus di esportazioni sulla bilancia dei pagamenti tedesca
viaggia a colpi di 250 miliardi di euro annui, frutto di una
competitività delle imprese tedesche che, oltre a efficienza e
abilità proprie, godono di questa mancata rivalutazione della
moneta e di una contrazione dei salari e in generale della domanda
interna ( una divaricazione della forbice tra mercato estero e
mercato interno che potrebbe essere esplosiva).
2)
Se i parametri del non sforamento del deficit annuo del 3% della
spesa pubblica e il debito pubblico non superiore al 60% del Pil
erano stati inseriti negli articoli dei trattati, era perché di
fatto erano le condizioni dell’economia tedesca al momento
della ratifica dei trattati medesimi, ma evidentemente molto lontani
dalla condizione effettiva dell’economia italiana.
3)
Il divieto della Bce di farsi prestatore di denaro agli Stati anche
in caso di gravi crisi economiche, ossia di shock provenienti
dall’esterno quale fu la crisi delle banche private del 2007/2008,
strangola l’economia di paesi come l’Italia anche perché, non
godendo più di sovranità monetaria, il nostro Paese non si è
dotato neppure di banche a statuto pubblico che possano in qualche
modo supplire al mancato sostegno di una banca centrale di nome e di
fatto. Che cosa intendiamo dire? Semplicemente prendiamo come esempio
il sistema creditizio della Germania, che da questo punto di
vista può senz’altro insegnarci molto: fin dalla sua nascita nella
seconda metà dell’ottocento il capitalismo tedesco era
caratterizzato da un’ibridazione tra banche e industria e da un
forte radicamento territoriale, così come da stretti rapporti con la
politica e con i governi delle regioni( Land) e della nazione
tedesca. Il sistema di banche tedesche è tutt’ora
semi-pubblico.
Le
undici Landesbanken
o
grandi banche regionali sono
soggetti di proprietà pubblica che stanno sulla cima di una piramide
fatta da migliaia di casse di risparmio di proprietà comunale. Se si
considerano anche gli istituti di credito immobiliare di proprietà
pubblica, circa la metà del totale del sistema bancario attivo
tedesco appartiene al settore pubblico. Queste banche sono strumenti
fondamentali della politica industriale tedesca, essendo
specializzate nei prestiti al
Mittelstand,
cioè al sistema di imprese di piccole e medie dimensioni che sono il
motore delle esportazioni del paese. Grazie alle Landesbanken,
le piccole imprese in Germania hanno lo stesso accesso al capitale
delle imprese di grandi dimensioni; non ci sono economie di scala
nella finanza. Questo significa anche che i lavoratori nel settore
delle piccole imprese guadagnano lo stesso salario di quelli
impiegati nelle grandi multinazionali, hanno le stesse competenze e
la stessa formazione e sono altrettanto produttivi.
Le
Landesbanken
svolgono una funzione di "banche universali" che operano in
tutti i settori del mercato dei servizi finanziari. Sono tutte
controllate da governi statali e operano come amministratori centrali
di casse di risparmio di proprietà municipale, chiamate in Germania
“Sparkassen”.
Oggi le casse di risparmio operano con una rete di oltre 15.600
filiali e uffici, impiegano oltre 250.000 persone e si caratterizzano
per la notevole capacità di investire con saggezza nelle imprese
locali. Su questa loro natura si è creata una
situazione di conflitto tra la UE e le Landesbanken.
La UE ha denunciato come la proprietà statale comporti
sovvenzioni pubbliche esplicite e implicite che violano le regole
della politica di concorrenza. Per oltre un decennio, la UE ha
combattuto perché il sistema fosse privatizzato, spinta dagli
interessi delle stesse grandi banche private tedesche.
Questo
è accaduto quando le landesbanken
hanno
assunto una posizione di concorrenza sui mercati internazionali.
Nel frattempo le più importanti banche private tedesche erano
entrate sul palcoscenico del grande casinò internazionale del gioco
delle scommesse speculative dei derivati strutturati, riempiendo i
loro bilanci di titoli tossici accumulandone per diverse centinaia
di miliardi di euro. Le landesbanken
invece,
non essendo società di capitali che dovevano soddisfare la
fame sempre più grande degli azionisti di dividendi, supportavano
meglio l’economia reale.
Il
governo tedesco della Merkel
ha dovuto risanare e salvare, tra il 2009 e il 2010,
le grandi banche tedesche private dai loro giochi di azzardo
speculativi immettendo 600 miliardi di euro di denaro pubblico( fra
l’altro utilizzando la propria Cassa
depositi e prestiti,
il cui bilancio però non era conteggiato nel debito pubblico
tedesco, una sorta di trucco contabile). Nel frattempo l’economia
reale tedesca era supportata finanziariamente dalla
landesbanken,
ma,
e qui sta il punto, ciò è stato possibile perché
queste banche a statuto pubblico non cadevano sotto la tagliola del
regolamento della BCE né di quello del SEBC
( Sistema europeo delle banche centrali) con il suo famoso divieto di
supporto e aiuto finanziario diretto ai governi nazionali. Un
ulteriore carico sul piatto tutto a vantaggio della Germania e
a svantaggio dell’Italia, ormai priva di qualsiasi ente di
credito di statuto pubblico.
Nonostante
fosse evidente che si trattava di una corsa ad handicap, l’Italia e
i suoi governi in rapida sequenza fecero di tutto
per rientrare dentro i parametri europei suddetti tra il 1992 e
il 1996 ( governo Andreotti, governo Amato, governo Ciampi, governo
Berlusconi, governo Dini e infine governo Prodi). In quel
fatidico 1992, però, accade anche che l’euroscetticismo fondato di
Danimarca e Gran Bretagna verso i Trattati di Maastricht
causò attacchi speculativi dei mercati finanziari verso il sistema
di cambi semifissi dello Sme,
in particolare nei confronti della lira e della sterlina,
determinando l’uscita dal sistema d’Italia e Gran Bretagna,
la svalutazione della lira del 25%, la manovra finanziaria
supplettiva «lacrime e sangue » di oltre 100.000 miliardi di lire,
con il famoso «prelievo forzato del 6 per 1.000» dai conti
correnti, da parte del governo Amato.
Ma
non finì lì «l’indimenticabile estate italiana» del 92’: in
quella temperie di fine di prima repubblica sull’onda di
Tangentopoli, dell’attacco della mafia siciliana corleonese allo
Stato nelle figure di Falcone e Borsellino, si consumò anche il
destino finale delle imprese a partecipazione statale e con esse di
un intero modello ed epoca dello sviluppo industriale italiano. Che
tale fine sia stata decisa nel celebre incontro del giugno 1992
sul panfilo reale Britannia
tra un gruppo di banchieri inglesi e alcuni influenti manager e
economisti italiani, oppure no, sta di fatto che a cominciare
da quell’anno fu assegnato all’allora direttore generale del
ministero del Tesoro Mario Draghi ( toh, chi si rivede!) il compito
di vendere a privati l’ingente asset delle imprese a partecipazione
statale,
operazione che nel corso di quell’ anno ebbe il suo avvio e conobbe
un ‘accelerazione negli anni seguenti.
In
quegli anni opportuni decreti legge varati appositamente dai governi
trasformarono la forma societaria delle aziende statali in S.P.A.(
società per azioni) e tra queste: IRI, ENI,
ENEL,INA.
Ferrovie
dello Stato,
l’Azienda
autonoma dei monopoli dello Stato,
le Telecomunicazioni,
ANAS
( Azienda nazionale autostrade), SME,
le quote detenute in alcune banche tra cui Credito
italiano, Banca commerciale italiana, e
poi una serie di enti culturali. La maggior parte di queste erano
aziende di Stato strategiche relative ad infrastrutture che fino
all’inizio degli anni ottanta avevano costituito l ‘asse portante
e trainante dell’economia italiana, asset di dimensione e valore
internazionale, prima dell’inizio del declino le cui tappe abbiamo
descritto.
Di
quel patrimonio oggi resiste unicamente FinMeccanica,azienda
di meccanica di precisione. Le privatizzazioni avvennero
principalmente tra il 1992 e il 1993, ma proseguirono fino agli inizi
degli anni 2000 con la definitiva privatizzazione delle
telecomunicazioni. Nel 2010, a quasi vent’anni dai suoi
inizi,
la
Corte
dei Conti dà
un giudizio consuntivo su tale processo complessivo : essa rileva
un recupero di redditività non dovuto però a investimenti in
innovazioni tecnologiche e maggiore efficienza dei servizi, ma a un
aumento generalizzato delle tariffe ben al di sopra del livello medio
degli altri paesi europei.
La
Corte
dei Conti dà
poi la seguente valutazione sulle procedure di privatizzazione:
«evidenzia una serie di importanti criticità, che vanno
dall'elevato livello dei costi sostenuti e dal loro incerto
monitoraggio, alla scarsa trasparenza connaturata ad alcune delle
procedure utilizzate in una serie di operazioni, dalla scarsa
chiarezza del quadro della ripartizione delle responsabilità fra
amministrazione, contractors ed organismi di consulenza al non sempre
immediato impiego dei proventi nella riduzione del debito». Ancora
più lapidario il giudizio sulle responsabilità dell’allora
direttore generale del Tesoro Mario Draghi da parte di Galloni:
«Draghi fece da curatore fallimentare della svendita all’ingrosso,
a prezzi di magazzino, delle industrie a partecipazione statale».
1
GENNAIO 1999: «UN LADRO E’ ENTRATO IN CASA».
L’attacco
speculativo alla lira che aveva determinato la sua uscita dallo
SME in quel 1992 aveva però paradossalmente prodotto un effetto
benefico, l’ultimo «bagliore » per l’economia italiana:
l’immediata svalutazione della lira del 25 % rispetto alle monete
più forti aveva causato un rilancio della competitività delle
nostre piccole e medie imprese ( nasceva in quegli anni il «miracolo
del nord est») nelle esportazioni producendo un risultato
positivo sia sul Pil che sulla bilancia dei pagamenti. Ma si
trattò di un fuoco fatuo: il 1° gennaio 1997 fu fissato il
nuovo regime di cambi fissi tra le monete dei paesi della neonata
Unione Europea denominato ECU, premessa all’ingresso dell’Euro.
Dopo di ché la produttività del nostro sistema si bloccò, iniziò
una lunga fase di stagnazione nella crescita economica dell’Italia
che sarebbe arrivata fino al 2007, preludio all’inferno sociale ed
economico dei successivi 10 anni che abbiamo evocato in introduzione
di discorso.
Ma
ancora un passaggio era necessario perché la «gabbia» europea a
trazione tedesca e cervello tecno-finanziario ( leggesi Troika:
Commissione Europea,
BCE e Fondo monetario internazionale) si perfezionasse, ed è il
passaggio di cui ci narra Giuseppe Guarino. Come già ricordato
Guarino era professore emerito di diritto costituzionale di diritto
pubblico e come ministro delle finanze e delle partecipazioni statali
nel governo Amato nel 1992 seguì il processo di adesione ai trattati
europei di Maastricht passo dopo passo. Guarino in questi ultimi anni
ha portato avanti la tesi che i famigerati parametri di politica
economica dell’Unione Europea nel loro assunto originario non
avessero il carattere di un vincolo o un imperativo assoluto
per i diversi governi nazionali sotto forma di regole e imposizioni
di natura universale decise da organismi esterni non eletti e tali da
non tenere conto delle esigenze specifiche di economie dalla natura e
fisionomia assai diversa l’una dall’altra, ma solo il valore di
uno stimolo nei confronti delle classi politiche nazionali per poter
compiere quello che in modo autonomo difficilmente avrebbero
realizzato.
Lo
spirito originario avrebbe dovuto essere dunque la ricerca di
convergenze macroeconomiche verso obbiettivi comuni,
lasciando però margini di autonomia nelle scelte di politica
economica in base alle differenti configurazioni politiche,
economiche e sociali degli Stati. Ma questo spirito originario, è
ciò che argomenta Guarino, sarebbe stato subdolamente
rovesciato e stravolto attraverso l’attivazione di meccanismi
automatici voluti da un ‘oligarchia autoreferenziale che riuscì a
sottrarre alla gestione delle politiche dei diversi Stati, e pertanto
al consenso democratico dei cittadini, qualsiasi spazio di autonomia
nella determinazione delle politiche economiche per il raggiungimento
degli obiettivi di crescita.
L’autore
di questo vero e proprio colpo di mano è stato individuato da
Guarino nella disciplina introdotta dal Regolamento 1466/97 approvato
il 7 luglio 1997 ed entrato in vigore il 1 gennaio 1999 in
occasione dell’introduzione dei cambi irrevocabili, una disciplina
totalmente opposta rispetto a quella contemplata dal TUE e nello
spirito iniziale degli stessi firmatari di Maastricht. Il
Regolamento in questione, che non ha certo valore vincolante di
un Trattato, rovescia proprio quell’obiettivo, fissato
dall’Articolo 2 del Trattato costitutivo, del
conseguimento delle politiche economiche secondo un percorso autonomo
di ogni Paese membro in base alla specificità delle reali condizioni
dell’economia del proprio Paese. Tra gli strumenti
utilizzabili in caso di necessità allo scopo era contemplata
la possibilità dell’indebitamento dei Singoli Stati nei
limiti consentiti dall’art. 104 c, da interpretare ed applicare in
conformità ai criteri fissati nei commi 2 e 3 del punto 2.
Il
regolamento 1466/97 abroga tutto questo e cancella il ruolo che i
Trattati
di Maastricht
assegnano agli Stati, nell’Articolo 2, per
l’obiettivo dello sviluppo economico previsto dagli Articoli
102 A, 103 e 104 c.
Il punto dirimente è dunque : secondo quanto è previsto dal TUE(
Trattato dell’Unione Europea) se vi è contrasto, è la gestione
dell’euro a doversi adeguare alla realtà economica, mentre secondo
quanto previsto dal Regolamento in questione, invece è la realtà
economica a doversi adeguare all’euro e ai suoi rigidi dogmi. In
questo modo il Regolamento 1466/97 ha cancellato i poteri ed i
mezzi con cui gli Stati avrebbero potuto e dovuto avvalersi per
produrre sviluppo.
Se
l’originario Trattato istitutivo della UE, agli articoli
ricordati, lasciava spazi di autonomia nelle scelte di politica
economica agli Stati membri, dall’altra parte successivamente
il Regolamento avocava questa prerogativa a se, consegnando nelle
mani e volontà della Commissione e degli organi tecnici ogni potere
decisionale.
Giuseppe
Guarino sottolinea che tra i tre firmatari del Regolamento
suddetto, membri della Commissione
Santer, vi
è anche il professore Mario Monti. Il regolamento medesimo,
introdotto il 1 gennaio 1999,
è,
nelle parole di Guarino, «il ladro che è entrato furtivamente
nella casa dell’Unione Europea ». Si potrebbe commentare che se un
tale colpo di mano giuridico è stato possibile è però perché già
nella configurazione originaria dei suoi articoli fondamentali tanto
in materia di istituzioni dell’Unione Europea ( la Commissione
europea,
la BCE,
il Parlamento Europeo ), della natura vaga, indeterminata
e contraddittoria dei suoi indirizzi generali( solidarietà +
competività+stabilità dei prezzi) e nella costruzione della moneta
unica euro, vi erano ampi spazi per una manovra di tal fatta.
Il difetto era nel manico.
ULTIMO
ATTO ( PROVVISORIO) : DALLO SPREAD
AL
FISCAL
COMPACT
AL
BAILIN
Nel
2011, anno III° dall’inizio della grande recessione economica che
passerà alla storia come la crisi delle banche private «universali»
( banche di deposito e credito +investimenti) e del loro gigantesco
casinò speculativo dei derivati strutturati, sotto l’egida dei
«crediti subprime» e l’innesco della valanga nel default
della Banking Holding Company Lehman Brothers, all’interno
dell’Eurozona la destabilizzazione era ormai stata scaricata
dai debiti privati ai debiti pubblici degli Stati ex
sovrani, a cominciare dalla Grecia. In quell’anno entrò nel mirino
l’Italia, già fortemente minata nella stabilità del suo sistema
economico: nell’estate del 2011 la Commissione Europea inviò al
Governo Berlusconi IV ° la famosa «letterina privata» dei compiti
da fare a casa,lettera a firma congiunta dell’uscente presidente
della Bce Trichet e del neo-presidente in pectore Mario Draghi, in
cui si elencavano in più punti le manovre correttive che il governo
Berlusconi avrebbe dovuto compiere per «mettere i conti a posto»,
ossia ridurre il peso del debito pubblico italiano.
Tra
i punti salienti vi erano: 1) privatizzare i servizi pubblici per
migliorarne l’efficienza e attraverso la competitività e la
flessibilità del mercato del lavoro mettere le premesse per la
crescita; 2) tagliare la spesa pubblica, riducendo i costi per
pensioni e stipendi del pubblico impiego; 3) inserire una clausola
automatica di riduzione del deficit; 4) controllo sull’indebitamento
e le spese delle autorità regionali e locali; 5) «parametrare» le
perfomance dei servizi pubblici sanitario, giudiziario e scolastico
ad indicatori prefissati; 6)misure per abolire o fondere enti
pubblici intermedi quali le provincie( toh, assomiglia alla riforma
Renzi sulle provincie).
Stante
la gravità della situazione, la lettera richiedeva che le misure
fossero intraprese quanto prima con decreto-legge, ratificato in
Parlamento entro fine settembre. La lettera proseguiva ritenendo
appropriata una riforma costituzionale che rendesse più stringenti
le regole di bilancio.
Motivazione
immediata del sollecito da parte della Bce era che il cosiddetto
Spread ( differenziale) tra i Btp( titoli di stato
italiani a scadenza decennale) e i Bund ( titoli di
Stato tedeschi) era salito vertiginosamente fino a oltre 500
punti. Che cosa era successo? Semplicemente il colosso finanziario
tedesco Deutsche Bank, proprietario di molti titoli
pubblici italiani, li aveva messi in vendita sui mercati finanziari
sottoponendoli al libero gioco della domanda e dell’offerta e
dunque al gioco speculativo della crescita dei tassi d’interesse.
La Bce, che nel suo avaro statuto era tenuta ad acquistare sui
mercati secondari i titoli di stato per evitare tale speculazione,
non era intervenuta.
Fu
prontamente attuata una manovra economica straordinaria da parte del
governo Berlusconi in pieno agosto, ma due mesi dopo la manovra fu
ugualmente giudicata insufficiente allo scopo della la riduzione del
debito pubblico italiano da Germania e Francia. Seguì un
ulteriore lettera in 39 punti del commissario europeo agli
affari economici Oli Rhen che rincarava la dose e apriva alla crisi
di maggioranza del governo Berlusconi. Nel novembre di quell’ anno
cadeva il governo Berlusconi sostituito da un governo tecnico
guidato da Mario Monti. Il professore Mario Monti è
uomo poliedrico dalla multipla carriera :
accademico di economia( professore prima e rettore poi della
Bocconi), consulente in politica prima in Italia(
consulente sui temi del debito pubblico e dell’inflazione in varie
commissioni parlamentari e ministeri ) e poi commissario
nell’Unione Europea nella già citata commissione Santer con
deleghe a Mercato interno, servizi finanziari e integrazione
finanziaria, fiscalità e unione doganale e più tardi
commissario alla Concorrenza; infine è stato consulente per
la banca d’affari Goldmann Sachs, membro del direttivo del
gruppo Bidelberg e presidente della Trilaterale( influenti
associazioni di alta finanza), incarichi da cui si è dimesso
per potere essere nominato prima senatore a vita e poi presidente del
consiglio dal presidente Napolitano.
Rapidamente
Monti in qualità di presidente del consiglio metteva in
pratica i «suggerimenti» della lettera Trichet-Draghi e attuava una
manovra fiscale anticrisi con revisioni
strutturali, cioè tagli strutturali, su bilancio
pubblico, pensioni e sviluppo, portava avanti la riforma del sistema
pensionistico a totale carattere contributivo e con innalzamento
dell’età pensionabile, ( la cosiddetta Riforma Fornero con gli
«effetti collaterali» degli esodati). Seguiva la riforma del lavoro
introdotta dalla Fornero nel marzo 2012 che si poneva i seguenti
obiettivi: combattere la suddivisone del mercato del lavoro tra
lavoratori a tempo indeterminato altamente protetti e lavoratori
precari ma non nel senso di regolarizzare quest’ultimi; una riforma
degli ammortizzatori sociali; una modernizzazione della pubblica
amministrazione con la riduzione del personale attraverso le misure
della mobilità obbligatoria, il part time e la revisione
dell’organico.
Lo
spread scendeva ma la «cura» Monti non otteneva l’effetto
annunciato di rilancio della crescita, dato che il Pil del 2012
scenderà ancora di 2 punti percentuali.
Nel
frattempo la Commissione Europea, governo de facto
della UE, varava un nuovo corso di meccanismi giuridici
automatici in materia di politiche economiche europee che si chiamano
FESF, MES, Il Trattato sulla stabilità, il
coordinamento e la governance nell’Unione Economica e monetaria,
più noto per il suo Titolo terzo, Il Fiscal Compact.
In
sintesi il complesso di questi documenti aventi valore di norma
comportava una severa e punitiva ( con sanzioni economiche
automatiche in caso di violazione) regolazione volta ad agevolare la
competitività, la riduzione dei debiti pubblici sovrani fino
al limite del 60% rispetto al Pil, alla rigida osservanza del limite
del deficit, al taglio delle spese sociali interne ai singoli Stati.
IL MES ( Meccanismo europeo di stabilità) da parte sua
istituiva una banca specificatamente finalizzata all’assistenza
degli Stati membri in difficoltà di bilancio, previo naturalmente il
rispetto assoluto di condizioni durissime. Il MES si poteva
costituire solo previo il suo finanziamento da parte degli Stati
membri in capitale di azioni per un valore complessivo di 700
miliardi di euro di cui 500 immediatamente nella prima fase.
Il
Governo Monti mentre tagliava migliaia di posti letto negli ospedali
e aumentava l’età pensionabile a sessantasei anni, perché in caso
contrario la spesa sociale sarebbe stata insostenibile, faceva
approvare immediatamente dal nostro parlamento questo Trattato
e metteva in previsione la sua contribuzione al Mes con 125,4
miliardi di euro da versare in cinque rati annuali ( almeno 60
miliardi sono già stati versati). L’organismo «biogiuridico»
della Commissione Europea, una sorta di organismo vivente
continuamente autorigenerantesi, ha, da allora,
proseguito imperturbabilmente la sua produzione di nuove leggi e tre
queste l’Unione Bancaria Europea e il Bailin.
La
UBE é nata come sistema di vigilanza bancaria unica e diretta
della BCE sull’intero sistema delle banche dell’Unione Europea.
La vigilanza bancaria viene esercitata dalla Bce attraverso le
autorità nazionali dei vari paesi membri e si configura come
supervisione diretta su 123 banche della UE. Ciò che caratterizza in
maniera «peculiare» questo nuovo sistema di vigilanza è il nuovo
meccanismo di salvataggio previsto in caso di crisi o fallimento
degli istituti bancari europei: non più il bail
out, ossia
un meccanismo di risanamento esterno alle banche che prevedeva un
intervento
diretto da parte dello Stato
nel piano di salvataggio delle banche attraverso i soldi di tutti i
contribuenti, ma uno
strumento interno (bail
in
o «cauzione interna»), che
vede gli investitori delle banche stesse pagare di propria tasca
per il fallimento dell’istituto. Ossia dovrebbero essere
nell’ordine gli azionisti, gli obbligazionisti e i correntisti
della banca stessa a contribuire al salvataggio della società in
crisi.
Eccezione
solo per quei clienti delle banche che detengono un deposito
inferiore a 100 mila euro, che viene protetto dal Fondo di Garanzia
dei Depositi. Il principio ispiratore è che non debbano essere più
i contribuenti degli Stati ad essere coinvolti nel risanamento e lo
Stato dovrebbe intervenire solo come
estrema ratio
e nel caso in cui venga messo in pericolo il pubblico
interesse, ma mai
più con finanziamenti a fondo perduto.
All’apparenza potrebbe sembrare un criterio di equità perché
dovrebbe evitare ( almeno in linea di massima) il
coinvolgimento diretto degli Stati nel salvataggio di «banche troppo
grandi per potere fallire» come è avvenuto nella crisi bancaria
2008/2009. Ma è solo l’apparenza perché a ben vedere questo nuovo
modello rende responsabili della affidabilità degli istituti
creditizi i loro clienti e non i banchieri, i loro funzionari più
elevati di grado o gli apparati di controllo( sul territorio italiano
Banca
Italia e
la Consob).
Forse
sarebbe più auspicabile quale autentico criterio di equità
quello di una profonda riforma del sistema degli istituti finanziari
che contemplasse: 1) il ripristino della precedente separazione tra
banche di deposito e credito( banche commerciali) e banche d’affari
o d’investimento; 2) la limitazione degli attivi finanziari
di un ente finanziario a una quota da non superare per non
assumere le dimensioni gigantesche superiori al Pil di uno Stato
sovrano; 3) il divieto alle banking holding companies di
produrre il gigantesco sistema di derivati strutturati che ha causato
il patatrac del 2007/2008; 4) cancellare la regola della «riserva
frazionaria» dalle Banche per cui esse per ogni credito concesso
deve detenere in bilancio una quota minima pari a 1 euro ogni 12
prestati, e riportare tutto il denaro, cartaceo o telematico
che sia poco importa, sotto la sovranità di una Banca centrale
che sia però di statuto pubblico, ossia sotto il diretto
controllo di un governo e di uno Stato, banca avente l’esclusivo
monopolio della creazione del denaro dal nulla.
E
questo ci riporta, al termine della nostra lunga
peregrinazione, al punto da cui eravamo partiti e cioè alla domanda
iniziale: come ha fatto l’Italia, da quinta potenza industriale nel
mondo nel 1980 a ridursi allo stato attuale? A ben vedere una
risposta di sintesi sta nel fatto che progressivamente il nostro
Stato ha perduto pezzi della sua sovranità,a cominciare da quella
monetaria, e poi si è ridotta in stato di vassallaggio nell’ordine
di poteri finanziari internazionali, di istituzioni europee dalla
natura a noi ostile, del predominio di una potenza economica e
politica quale la Germania perfettamente integrata, almeno nelle sue
classi dirigenti, a quei poteri.
Abbiamo
visto che responsabilità diffuse, dirette e indirette, in
parte in buona fede e in parte no, delle nostre classi
dirigenti, hanno contribuito fortemente a questo nostro destino, per
cui esse consapevolmente o meno «hanno lavorato per il re di
Prussia». Probabilmente in futuro i libri di storia definiranno
questi ultimi trentacinque anni quali quelli di una nuova guerra
europea innescata dalla rivincita del capitalismo internazionale, una
guerra combattuta con mezzi non bellici bensì economici e
politici,una guerra basata sulla rivalutazione del profitto
capitalistico per via finanziaria, prima attraverso il mercato delle
obbligazioni, poi quello delle azioni di borsa, e infine quello
dei titoli tossici o derivati strutturati.
A
queste tre fasi della guerra finanzcapitalistica l’Austerity
dell’Unione europea vi ha aggiunto un suo capitolo proprio:
l’aggressione dei poteri finanziari, mediante le leggi
europee, ai debiti sovrani degli Stati dell’ Eurozona allo
scopo d’indurre lo smantellamento dei sistemi di Stato sociale e la
privatizzazione dei loro rispettivi settori, settori potenzialmente
di grande lucro per le istituzioni finanziarie. Potremmo definirlo il
capitolo dell’avanzata dell’«ordoliberismo». In questi
trentacinque anni la guerra economica-politica è
stata combattuta dapprima a bassa intensità e poi via via sempre più
distruttiva dei tessuti sociali e politici costituiti nei primi
trenta / quaranta anni del dopo guerra. L’assunzione piena di
consapevolezza di tale processo, consapevolezza che per
svariate ragioni ancora manca, è il primo passo per poter voltare
pagina.