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Economia
La palude
Maria Rita Gelsomino

Già dopo il primo turno elettorale delle elezioni francesi si era capito che i problemi dell’Europa non sarebbero più stati legati alla Frexit, i listini hanno festeggiato e il risultato del ballottaggio ha archiviato definitivamente lo stato di allarme maturato in seno all’Unione.

Secondo il colosso bancario Deutsche bank , a impensierire l’Europa oggi è il Belpaese in pole position,  avvertito come autentico pericolo di destabilizzazione politica ed economica e le  ragioni sarebbero abbastanza  consistenti. A preoccupare, calcoli politici derivanti dalla brusca e impetuosa avanzata dei partiti populisti ed euroscettici , Movimento 5stelle e Lega, notoriamente ostili all’Unione. La vittoria del No al referendum di dicembre è stata per lo più interpretata, nel Vecchio Continente, come una specie di rivolta che ha attivato i riflettori sul populismo presente nel nostro paese. Tra meno di un anno l’Italia andrà alle urne e il risultato potrebbe far emergere la possibilità di un’altra frattura nell’area euro.

Molto consistenti inoltre le ragioni economiche, principalmente la chiusura dei rubinetti della Bce e con essa il timore che il debito pubblico italiano possa uscire fuori dal controllo del Tesoro.

La scorsa settimana Lorenzo Codogno, il ex-capoeconomista del ministero del tesoro, nel discorso tenuto alla Scuola Nazionale di Amministrazione ha dichiarato: “Preoccupa che i fondi esteri stiano investendo sempre di meno nel nostro debito pubblico. Anche le famiglie stanno abbandonando i titoli di Stato - che non rendono più - per scegliere sempre più spesso i fondi comuni d’investimento. I quali - com’è ovvio che sia - diversificano i loro investimenti”. In pratica i risparmi degli italiani si dirigono sempre più all’estero, da cui stanno giungendo in patria sempre meno capitali, situazione per altro ora mascherata dagli acquisti di Francoforte destinati a ridursi tra non molto.

Nel discorso pronunciato a Tel Aviv Mario Draghi ha affermato che in Europa la crisi si trova alle spalle, netta la ripresa, migliorata l’occupazione, situazione finanziaria rafforzata, di conseguenza   la Bce si prepara a discutere nella prossima riunione  dell’8 giugno l’uscita dallo stimolo monetario  ma soprattutto decidere le modalità di comunicazione più opportune ai mercati  per evitare il rischio di brusche cadute dei listini. Per ora il percorso, sul quale si registra il maggiore consenso, sarebbe continuare fino alla fine dell’anno con l’acquisto dei titoli al ritmo di 60 miliardi di euro al mese con riduzione progressiva e aumento dei tassi di interesse. Ciò significa che a breve i paesi, che finora hanno beneficiato del quantitative easing, dovranno presentarsi in futuro con una situazione finanziaria credibile per convincere altri investitori, in sostituzione alla Bce, a comprare i loro titoli sovrani. L’Italia con l’alto debito , in ritardo con le riforme apparirebbe inaffidabile e verrebbe messa sotto monitoraggio, in questa situazione, senza il paracadute Bce, i nostri tassi di interesse inizierebbero a salire e il servizio del debito  diverrebbe molto più oneroso.

Non è questo in ogni caso il solo fattore che crea apprensione intorno al nostro paese: l’Italia è il paese che cresce meno in Europa, lo confermano i risultati del Pil dei 1° trimestre.

Il Pil del primo trimestre è aumentato solo dello 0,2% rispetto al trimestre precedente, l’ultimo del 2016, con crescita annua che si fermerebbe allo 0,8%, troppo poco per sperare di ridurre il macigno del debito, mentre Eurostat ha confermato che la crescita del primo trimestre nell’eurozona si attesta allo 0,5% ,più del doppio, e in termini tendenziali dell’1,7% e 2% per l’Unione europea .  

E’ necessario rimuovere quegli ostacoli che frenano la crescita  come l’elevato costo del lavoro, riforme strutturali che servano a far uscire il mercato dalla situazione di stagnazione comatosa. Per questo sarebbero indispensabili volontà politica e stabilità di governo, elementi che per ora sono molto distanti dal nostro orizzonte politico che si dibatte in una crisi in cui produce il peggio di sé. Tra non molto andremo a votare ma manca ancora una legge elettorale concordata in Parlamento, mentre i partiti hanno perso credibilità di fronte all’opinione pubblica e le forze populiste  ed euroscettiche conquistano ulteriori consensi.

Un fattore di rischio per l’economia italiana e anche europea arriva dagli Usa. Il programma economico lanciato da Trump prevede un ritorno al protezionismo, prospettiva che ha messo in ansia tutti quegli stati la cui economia è basata sulle esportazioni. Tra questi l’Italia tipico paese trasformatore, quarto fornitore del mercato americano, le cui esportazioni hanno raggiunto nel 2016 42 miliardi di dollari, un export che vale più dell’import, con un saldo positivo di 28 miliardi di dollari.

Occhi puntati anche sul nostro settore bancario, il compartimento più strapazzato, divenuto il nodo cruciale del nostro sistema finanziario. Il calvario ha avuto inizio nel 2015 col decreto salva banche e si è chiusa in queste settimane con la cessione di tre good bank, Nuova Banca Etruria, Marche e Carichieti a Ubi Banca per il prezzo simbolico di un euro. Il presidente delle quattro good bank salvate, nominato da Bankitalia, Roberto Nicastro con indubbio senso dell’umorismo ha affermato che l’operazione ha rappresentato un “successo su diversi fronti” e che le banche sono state “la cavia del bail-in, ma ne sono uscite vive”, solo un po’ distrutte se si considera  che circa 130 mila obbligazionisti, hanno completamente  perduto i loro risparmi, per 800 milioni di euro, e che almeno1600 dipendenti da qui al 2020 perderanno il lavoro. Un cumulo di macerie.

 I costi dell’operazione si aggirano sui 3,6 miliardi messi a disposizione dal sistema bancario e dal fondo di risoluzione, che, inutile ricordarlo, verranno recuperati, attraverso i nostri conti correnti, tosandoci un po’ tutti.  L’operazione eseguita sulle banchette dell’Italia centrale, basata sulle nuove norme dell’Unione bancaria europea, è stata la prima e non sarà l’ultima. Anche MPS, Veneto Banca e Popolare di Vicenza si trovano nella stessa situazione, in mezzo al guado con l’acqua alla gola. MPS è in attesa dell’ok dall’Europa per la ricapitalizzazione precauzionale con l’intervento del governo .  Bce e Commissione europea  non hanno ancora trovato la quadra, forse tra giugno e luglio . Incerto ancora il destino di Veneto Banca e Popolare di Vicenza sul quale esiste un silenzio totale, per nulla rassicurante, anche da parte del ministro del tesoro.

Il comparto bancario sta vivendo una crisi di sofferenza e trasformazione a cui istituzioni e classe dirigente non hanno dato per ora risposte adeguate, la responsabilità di questa situazione non può essere ascritta solo all’Europa matrigna crudele. Per anni abbiamo sostenuto che il nostro sistema bancario era tra i più solidi dell’Europa perché non parlava inglese, che tutto andava nel migliore dei modi, abbiamo perso tempo nel sottovalutare alcune criticità del sistema che in seguito  si sono  aggravate ma che potevano essere sistemate prima dell’entrata dei nuovi regolamenti dell’Unione Bancaria, come è stato fatto in diversi paesi europei. Più o meno lo stesso copione viene adottato quando si parla dell’economia italiana. Lo story telling governativo ci parla di ripresa imminente di occupazione aumentata  e di cose che si aggiusteranno ben presto, il solito“tutto bene” che ci trascina nel baratro.   

In realtà Banca Etruria è la metafora dell’Italia e dobbiamo sperare di non fare la stessa  fine.

24/05/2017 22:02:54
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