UIKI. Segreteria Nazionale
Il crollo dei vecchi equilibri in Medio Oriente
La drammatica espansione dell’auto-proclamatosi Stato Islamico in Siria e in
Iraq nel 2013, ha rappresentato un ulteriore passo verso l’accelerazione del
collasso dell’accordo franco-britannico Sykes-Picot, che -circa un secolo fa-
divise le province dell’impero ottomano e causò, per i curdi e per altri gruppi
etnici, la perdita dello status di semi-autonomia di cui avevano goduto sino a
quel momento.
L’accordo Sykes-Picot (1916) fu ideato dalla Gran Bretagna e dalla Francia
per attuare i loro interessi politici e strategici in Medio Oriente nel secolo
successivo. Il modello coloniale e imperiale di governo fu quindi sostituito
tout-cort dagli stati-nazione. Come diretta conseguenza della imposizione di
tale modello europeo, la maggior parte dei regimi in Medio Oriente finirono per
corrispondere con un unico gruppo etnico e religioso. La maggior parte dei
gruppi etnici e religiosi della regione, però, hanno resistito alle linee di
confine degli stati-nazione creati artificialmente “a tavolino”.
Col passare del tempo, il controllo di questi stati passò, di mano in mano,
sempre per via di colpi di stato militari piuttosto che tramite evoluzioni
politiche ed elezioni democratiche: basti pensare che, nella sola Turchia, si
sono verificati almeno sei tra interventi e colpi di stato militari reali o
presunti tali (colpo di stato del 1960, Memorandum militare 1971, colpo di
stato del 1980, presunto colpo di stato del 1993, Memorandum militare 1997,
presunto Colpo di Stato del 2016).
Fino a quando questi stati-nazione mantennero una stretta e proficua
relazione con il mondo occidentale, gli interventi esterni in quei Paesi furono
limitati. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti sono emersi come la
potenza occidentale sempre più attiva nella regione.
Origini della “questione curda”
Il variegato tessuto etnico e religioso del Kurdistan si era formato in
migliaia di anni di convivenza tra popoli diversi. Questa rispettosa
coesistenza venne gravemente minacciata. Nonostante le loro differenze,
infatti, tali gruppi condividevano affinità e somiglianze culturali,
economiche, politiche, psicologiche e sociali e consideravano le loro
differenze come una fonte di ricchezza. Senza interferenze esterne, esse
avevano generalmente vissuto in pace. Tuttavia, all’inizio del XX secolo, il
modello dello stato nazionale forzatamente imposto dall’accordo Sykes-Picot del
1916 ebbe l’effetto di una pugnalata inferta al cuore del Medio Oriente e
contribuì fortemente a seminare odio e ostilità tra i popoli, spingendo curdi,
arabi, armeni, assiri, turcomanni e altri gruppi etnici al reciproco genocidio
fisico e culturale. Risulta dunque evidente che i confini e i progetti politici
“immaginati” e imposti dall’esterno non soddisfano i bisogni reali delle
persone e non portano a risultati soddisfacenti. Le politiche imperialiste
hanno portato in Medio Oriente la guerra, le cui vittime sono state e sono
tuttora le diverse popolazioni e gruppi religiosi.
Ciascuno dei regimi a capo degli Stati nazionali appena creati, per timore
di qualsiasi potenziale frammentazione, tentò di unificare lo Stato attraverso
la diffusione del nazionalismo e la imposizione di “progetti di
nazionalizzazione”, allo scopo di assimilare diversi gruppi etnici
arabizzandoli, persianizzandoli o turchizzandoli. In realtà ciò portò alla
negazione della stessa esistenza di molti gruppi etnici e religiosi (alawiti,
albanesi, arabi, armeni, assiri, azeri, bosniaci, ceceni, circassi, cristiani,
curdi, greci, laziti, tartari, yazidi) che vivevano specificamente in Turchia.
Quando il Trattato di Losanna nel 1923 entrò in vigore, la divisione del
Kurdistan “immaginata” dall’accordo franco-britannico divenne una triste realtà
ed esso venne smembrato tra i quattro diversi paesi di Iraq, Iran, Turchia e
Siria, ma -a dispetto di questa nuova situazione di “area transfrontaliera” e
nonostante il gran numero di lingue e religioni diverse- i curdi hanno
continuato a condividere un forte senso di identità globale.
Le terre che formano il Kurdistan includono parti della Turchia orientale,
dell’Iraq settentrionale, dell’Iran nord-occidentale e della Siria
settentrionale, tutte abitate principalmente da curdi: in tutto, almeno 45
milioni di curdi che vivevano da molte migliaia di anni nella loro terra
ancestrale. La divisione in quattro parti del Kurdistan permane tutt’oggi,
sotto il controllo di Turchia, Iran, Iraq e Siria. Dal 2003, il Kurdistan
iracheno gode dello status federale all’interno dell’Iraq, ma ancora oltre il
40% della terra del Kurdistan meridionale rimane sotto il controllo del governo
di Baghdad (in particolare, l’area ricca di petrolio intorno alla città di
Kirkuk). Dal 2012, i curdi hanno proclamato nel nord della Siria un’Autonomia
Democratica aperta a tutte le componenti etniche e religiose presenti
nell’area.
L’importanza geopolitica del Kurdistan, combinata con le notevoli risorse
petrolifere e idriche del suo territorio, ha costantemente ostacolato,
piuttosto che aiutato i curdi. Le situazioni e le questioni che i curdi hanno
dovuto e devono affrontare nei paesi in cui la loro nazione è stata divisa
variano in natura e intensità ma hanno fattori innegabilmente comuni: i curdi
sono sospettati di avere idee e aspirazioni separatiste semplicemente in virtù
della loro etnia, e hanno subito programmi di pulizia etnica (accompagnati da
uccisioni di massa, deportazioni, discriminazioni e divieti di ogni genere).
Al giorno d’oggi tutte le regioni curde – fatta eccezione per l’area
assegnata all’Iran – sono martoriate da guerre (vedi le aree assegnate a Iraq,
Siria e Turchia).
Il crollo degli Stati nazionali in Medio Oriente
Gli stati-nazione di Turchia, Iran, Iraq e Siria, creati dall’Accordo
Sykes-Picot, furono riconosciuti dalla Società delle Nazioni poco dopo la fine
della Prima Guerra Mondiale. A distanza di un secolo, è evidente – in Iraq,
Siria e Turchia – che questi stati unitari si stiano sgretolando e che sia
necessaria una radicale trasformazione che li accompagni dal nazionalismo
esasperato alla democrazia.
Terza Guerra Mondiale per la con-divisione del Medio Oriente
Con le insurrezioni della cosiddetta “Primavera Araba”, i popoli di etnia araba
di tutto il Medio Oriente (e non solo) hanno reso palese di non essere contenti
della loro situazione e hanno affermato il loro diritto a una vita libera in un
paese democratico. Questo fenomeno sociale ha dato il via alla irrefrenabile
caduta del vecchio ordine mondiale, in corso ormai da qualche anno nel Medio
Oriente. Questa sorta di “terza guerra mondiale” potrebbe portare alla
formazione di un nuovo equilibrio politico mondiale, Le grandi potenze (che
vogliono conservare o conquistare la propria influenza nella regione), le forze
conservatrici e regressive della regione (che vorrebbero mantenere le loro
posizioni e i loro territori) e i popoli più antichi (“indigeni” depredati delle
loro terre e delle loro identità, che non sono ovviamente contenti della loro
posizione attuale e vogliono riconquistare il diritto alla propria esistenza)
prendono parte a questa guerra. Ciascuna delle parti in causa vuole rafforzare
la propria posizione e assumere un ruolo importante nei nuovi equilibri
politici che si stanno costruendo. Per tale motivo, nel corso di questa guerra
pluridimensionale, vecchie alleanze si indeboliscono o si spezzano e nuove
alleanze si formano ogni giorno.
In questo ambito i curdi -che (lapalissianamente!) sono stati i più colpiti
dall’Accordo Sykes-Picot (1916) e dal Trattato di Losanna (1923), che hanno
smembrato la loro terra consegnandola nelle mani di regimi che hanno sottoposto
i curdi a ripetuti genocidi e a una lenta inesorabile pulizia etnica- hanno
valutato con attenzione la situazione e hanno scelto di “scendere in campo” per
cambiare lo “status quo” e per trovare posto nel nuovo “scacchiere
internazionale”. Più di ogni altra cosa, a dire il vero, i curdi vogliono
vedere finalmente riconosciuto il loro diritto a una vita libera e a una forma
di autogoverno assolutamente democratica e moderna, ideata e maturata nel corso
di decenni di attivismo, di esperienza e di lotta politica in seno a diverse
organizzazioni oltreché di resistenza armata per sopravvivere.
I curdi nel tumulto del Medio Oriente
Un risultato importante, se non il principale, della cosiddetta “Primavera
Araba” è stata la perdita di egemonia da parte dello Stato unitario arabo in
Medio Oriente. La insurrezione del popolo, che chiede il riconoscimento dei
suoi diritti e il rispetto delle libertà democratiche,rappresenta infatti, un
chiaro segnale che l’ideologia del Panarabismo non ha più ragione né
possibilità di essere.
Come già accennato, in seguito all’Accordo Sykes-Picot del 1916 e al
Trattato di Losanna, due parti del Kurdistan sono passate sotto il controllo di
due stati arabi: il Kurdistan meridionale (Iraq nordoccidentale) è stato
governato per decenni dal regime del Partito Baath dell’Iraq, il Kurdistan
occidentale (Siria settentrionale) – oggi noto a tutti come Rojava (Kurdistan
occidentale) – è stato invece governato dal regime del Partito Baath siriano.
Nel 2003, dopo la caduta del regime di Saddam Hussein seguita alla
cosiddetta Guerra d’Iraq, il Kurdistan meridionale ottenne una forma di
autonomia nell’ambito della nuova costituzione federale dell’Iraq, assumendo il
nome di Governo Regionale del Kurdistan e diventando una sorta di “Stato nello
Stato”. I curdi del Rojava (Kurdistan occidentale) hanno invece avviato una
“rivoluzione silenziosa” contro il regime baathista siriano e conquistato – a
partire dal 19 luglio 2012 – la loro autonomia sul campo, assumendo peraltro un
ruolo fondamentale nella lotta all’autoproclamatosi Stato Islamico.
Risulta ormai evidente a tutti che la stabilità a lungo termine in tutta
l’area – non soltanto in Iraq e Siria, ma anche in Iran e Turchia, – non è
conseguibile senza la concessione dell’autonomia alle regioni curde e il
riconoscimento delle loro istanze del popolo curdo e non può eludere la
necessità evidente di nuovi sistemi di governo più aperti alla condivisione del
potere.
Il giocatore più aggressivo nella regione: la Turchia
La Turchia -membro “chiave” della NATO nello scacchiere mediorientale- ha finora
scelto di restare “seduta da una parte” al di fuori della guerra contro
l’autoproclamatosi Stato Islamico della Siria e del Levante (Iraq) e di
muovere, invece, guerra proprio contro gli unici che sinora hanno avuto pieno
successo nella lotta contro l’ISIL/ISIS: i curdi del Rojava (Kurdistan
occidentale/Siria settentrionale). Proprio l’intervento militare dello Stato
turco e i continui attacchi e i tentativi di invasione -che non accennano a
fermarsi-anzi si stanno facendo più frequenti in Iraq e Siria, hanno sempre più
esacerbato il conflitto aumentando la confusione politica già esistente in
Medio Oriente, aggravando gli effetti disastrosi di questa lunga guerra e
provocando tragedie umane di grandi proporzioni (intese non soltanto in termini
numerici di vittime e di profughi).
In concomitanza con la guerra civile siriana iniziata nel 2011, i curdi del
Rojava -al culmine di una sorta di “rivoluzione silenziosa” a cui forse erano
preparati da tempo- si sono affrancati dal regime baathista e a partire dal 19
luglio 2012 hanno assunto il controllo del Kurdistan occidentale (Siria
settentrionale), liberandolo palmo a palmo dall’occupazione dei terroristi
dell’autoproclamatosi Stato Islamico e costituendovi una confederazione
democratica aperta a tutte le etnie (arabi, armeni, assiri, ceceni, curdi,
Turkmeni) residenti nell’area.
I successi curdi sono stati visti dalla Turchia come una seria minaccia
all’integrità del proprio Stato unitario. L’affrancamento e l’ottenimento o la
conquista dell’autonomia da parte dei curdi in Iraq e in Siria rappresentano,
effettivamente, un pericolo per l’ ideologia turca di annientamento e di
negazione delle minoranze etniche autoctone. In Turchia, i curdi sono oltre
venticinque milioni: essi sono non soltanto il più numeroso gruppo etnico del
Paese, ma costituiscono una spina nel fianco e la sfida più seria e persistente
al nazionalismo turco. Come se non bastasse, la maggior parte dei curdi del
Bakur (Kurdistan settentrionale/Turchia sudorientale) vivono nelle aree a
ridosso dei confini con la Siria, l’Iraq e l’Iran. Nonostante ripetuti genocidi
e operazioni di pulizia etnica su larga scala, nella penisola anatolica vive
tuttora la comunità curda più numerosa di tutto il Medio Oriente. Ed è proprio
in Turchia che i curdi continuano ad opporre una strenua resistenza che dura
ormai da quaranta anni, guidata dal Partito dei Lavoratori del Kurdistan
(Partîya Karkerén Kurdîstan – PKK) per difendere la loro libertà, per
convincere la Turchia ad attuare un radicale cambiamento democratico e per
ottenere il riconoscimento costituzionale dell’identità stessa del popolo curdo
(prima ancora della sua autonomia). Per tali motivi la questione dei diritti
dei curdi in Turchia meriterebbe di essere trattata a parte e con maggiore
attenzione e urgenza rispetto alla situazione attuale dei curdi in Iraq, in
Iran e in Siria.
D’altra parte, la Turchia si trova davanti a un bivio e a una tremenda
sfida: rinunciare alla strategia panturca nei confronti dei curdi e delle altre
componenti etniche del paese oppure affrontare il rischio di un collasso dello
Stato unitario, dello Stato-nazione come è già accaduto in Siria, in Egitto e
in Libia.
La Turchia sembra effettivamente temere più di ogni altra cosa qualsiasi
forma di autonomia per i curdi in qualunque parte del mondo. L’idea di una
confederazione democratica nella Siria settentrionale che riconosca l’autonomia
ai curdi e alle altre componenti etniche ivi presenti atterrisce il governo di
Ankara, che vede in grave pericolo la ideologia fondante della Turchia stessa:
quella dello Stato-nazione basato sull’egemonia e sull’esistenza stessa di un
solo gruppo etnico (e sull’annientamento o sull’assimilazione forzata di tutti
gli altri). La linea di confine tra la Siria e la Turchia è lunga oltre
novecento chilometri ed è abitata, da entrambi i versanti, dai curdi… Il panico
ha portato il governo turco a optare per la costruzione di un muro lungo (per
ora) cinquecentoundici chilometri per impedire che amici, parenti e
“connazionali” possano venire a contatto tra loro.
L’unica preoccupazione della Turchia, persino più forte di quella di
promuovere i propri interessi nell’area, sembra essere diventata quella
d’impedire alle Forze Democratiche Siriane e al popolo curdo di ottenere
vittorie e successi (militari o politici) in Rojava.
Lo si evince anche dalle ripetute dichiarazioni e minacce gridate dal
presidente turco Erdogan: “Non permetteremo mai la nascita di uno Stato
autonomo nel nord della Siria lungo il nostro confine meridionale. Continueremo
la nostra lotta a tale riguardo a qualunque costo!”
Le relazioni della Turchia con l’ISIS
Il sostegno della Turchia all’ISIS è stato chiaramente espresso dallo stesso
Segretario di Stato americano John Kerry in una intervista alla CNN il 17
novembre 2015 riguardo alla messa in sicurezza del confine turco-siriano, che
notoriamente i militanti dell’autoproclamatosi Stato Islamico usavano da anni
per inviare armi, miliziani e altre merci di contrabbando in Siria: “Quasi
l’intero confine della Siria settentrionale (il 75% di esso corrispondente alle
aree controllate dalle YPG in Rojava) è stato messo in sicurezza e ci
accingiamo finalmente ad avviare una operazione con i Turchi per chiudere i
restanti novantotto chilometri (corrispondenti alle aree controllate
dall’ISIS).” Potrebbero esserci prove più chiare per evidenziare la
cooperazione tra Turchia e ISIS!?
Una volta superato l’ostacolo della Turchia, l’ISIS può essere sconfitto
definitivamente. Le potenze internazionali dovrebbero rendersi conto del fatto
che se davvero volessero sconfiggere definitivamente l’ISIS, dovrebbero
preventivamente impedire alla Turchia di ostacolare la guerra all’ISIS stesso.
Il sogno turco di un impero neo-ottomano
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, nel corso di una conferenza tenutasi
a Istanbul il 20 ottobre 2016 fece per l’ennesima volta riferimento al Trattato
di Losanna del 1923, affermando che la Turchia è stata intrappolata entro i
confini odierni da quel deplorevole accordo: “Gli Ottomani avevano uno Stato
con radici così profonde che il suo crollo ha causato profonde ferite materiali
e morali alla nostra nazione… I nostri territori nel 1914 erano vasti 2,5
milioni di chilometri quadrati e sono stati ridotti a 780.000 chilometri
quadrati con la firma del Trattato di Losanna… Un’istanza di revisione del
Trattato da parte della Turchia è stata portata all’attenzione del Consiglio
Nazionale Turco… Il futuro deve essere pianificato sulla base di una profonda
analisi della storia. La Turchia sarà ricostruita come un Paese più grande, con
l’aiuto di Allah.”
La Turchia cade a pezzi
La politica anticurda e espansionistica della Turchia ha fatto della Turchia
stessa un’altra vittima dei tumulti in Medio Oriente. La strategia politica
della Turchia in Medio Oriente è fallita rovinosamente. Solo pochi anni fa la
Turchia era considerato il Paese di maggior successo, assolutamente rispettato
in patria e all’estero. Esso rappresentava un modello di democrazia nell’ambito
del mondo islamico e la strategia politica del cosiddetto “nessun problema con
i vicini” (partenariato turco-siriano, sia commerciale che politico, che presto
si tradusse in una zona di libero scambio con i paesi arabi; sostegno alla
causa palestinese; pacificazione con Armenia e Grecia; processo di pace con il
PKK; buone relazioni con l’Iran eccetera)a sembrava dare ottimi risultati, ma
l’intero concetto di una Turchia molto rispettata con l’AKP mascherato da
islamico è crollato dopo la primavera araba ed in particolare quando è iniziato
il conflitto in Siria. Oggi la Turchia ha gravi problemi da risolvere e
conflitti da affrontare su quasi ogni fronte…altro che “nessun problema con i
vicini”!
L’unica alternativa possibile è la pace con i curdi: in Turchia, in Siria e
in Iraq.
Politica dell’Iran in Medio Oriente
La Turchia e l’Iran sono apertamente in competizione per ottenere – grazie alle
divisioni di segno religioso che caratterizzano il mondo arabo – il controllo
formale e sostanziale sul Kurdistan iracheno e sul Kurdistan siriano. La
Turchia usa la folta schiera delle forze sunnite, di cui Erdogan si erge a
paladino, per fare pressioni sul governo sciita dell’Iraq e sul regime alawita
in Siria, entrambi fortemente sostenuti (anche militarmente) dall’Iran che
vuole stabilizzare quelle aree sotto il controllo del suo potente regime
politico-religioso sciita. Particolare importanza assume il sostegno dell’Iran
al regime siriano non soltanto per la sopravvivenza del presidente Bashar
al-Assad. L’alleanza tra Iran e Siria si basa, infatti su una forte e profonda
convergenza di interessi: la salvaguardia del sistema oppressivo dello
stato-nazione fondato su una unica etnia e il contrasto all’egemonia tanto
dell’Occidente quanto dell’Islam sunnita e all’influenza degli Stati Uniti in
Medio Oriente. Per l’isolato geverno di Teheran, avere un regime amico in Siria
si è rivelato una risorsa strategica fondamentale per la espansione dell’Iran
nel mondo arabo sinora controllato dal loro principale nemico regionale
(l’Arabia Saudita, sostenuta dagli Stati Uniti).
A tutt’oggi, è evidente che l’obiettivo principale della Repubblica
Islamica dell’Iran sia quello di diventare una potenza regionale, senza alcuna
preoccupazione riguardo al rispetto delle regole democratiche.
D’altro canto il collasso dell’ISIS in Siria, l’elezione di Donald Trump
alla presidenza degli Stati Uniti, e la forte paura di Israele e dei paesi
arabi sunniti che si sentono minacciati dalle politiche interventiste iraniane
nella regione, stanno aumentando in maniera esponenziale la possibilità che
l’Iran diventi un punto nevralgico. Le divisioni politiche interne e le
questioni giuridiche irrisolte nella società iraniana espongono il paese sia a
una possibile trasformazione interna traumatica ,sia a un intervento militare
da parte di una coalizione internazionale a causa della diffusa ed errata
mentalità che ritiene che le crisi o le fasi di stallo debbano essere
affrontate e risolte militarmente anziché con l’avvio di un reale processo di
democratizzazione. È invece chiaro che la brama di espandere la propria sfera
d’influenza all’estero senza prestare attenzione alcuna allo sviluppo della
democrazia e dell’uguaglianza all’interno, non possa fare altro che creare uno
Stato squilibrato, fragile e pericoloso. La catastrofe siriana ha dimostrato la
necessità di risolvere i problemi in modo democratico, l’importanza di
includere le diverse etnie (come il popolo curdo, minoranza oltremodo
consistente in Iran) e di riconoscere e rispettare i diritti delle differenti
“nazioni” (in un sistema confederale), religioni e tradizioni e
l’urgenza di assicurare l’equiparazione dei diritti delle donne a quelli degli
uomini.
In Iran vivono tra i dodici e i quindici milioni di curdi. Essi hanno già
tutto il potenziale necessario all’autodifesa e all’autogoverno (compresi i
partiti politici: Società Democratica e Libera del Kurdistan orientale – KODAR,
Partito della Vita Libera del Kurdistan – PJAK, Società delle Donne Libere del
Kurdistan orientale – KJAR e Società della Gioventù del Kurdistan orientale –
KCR) e una società civile ben organizzata. In particolare, Il KODAR (Dûyemîn
Kongreya Komalgeha Demokratîk û Azad a Rojhilatê Kurdistan) tenta di promuovere
– per migliorare le condizioni attuali – una “terza via” che non sia in linea
con la continuazione dell’attuale disastrosa situazione,né permetta ingerenze,
interferenze o interventi militari da parte di potenze straniere: essi
propongono un modello di autonomia democratica all’avanguardia rispetto alla
situazione politica dei Paesi del Medio Oriente e assolutamente saggia riguardo
alla geografia politica, alla storia e alle realtà sociali dell’Iran.
Siria e Federazione Democratica della Siria del Nord
Il regime baathista in Siria ha sempre avuto un carattere centralista che non
riconosceva i diritti democratici delle singole comunità tantomeno quelli dei
curdi. Pertanto, in Siria la lotta dei curdi per il riconoscimento dei propri
diritti è, in un certo senso, anche una battaglia per la democratizzazione
della Siria a prescindere dal regime e da altre forze in campo. I curdi non
stanno in realtà lottando per creare uno Stato separato dal resto della Siria:
il loro scopo è stato quello di istituire nella Siria settentrionale un sistema
democratico che possa diventare un modello per la futura Siria. Per quanto
riguarda il raggiungimento di un accordo con il regime siriano, è chiaro che
esso non può essere affrontato con un approccio miope. Stante la situazione
precedente alla guerra civile siriana, una soluzione alla questione curda in
Siria non è stata possibile: soltanto nel caso in cui il regime siriano dovesse
accettare di avviare una piattaforma democratica sarà possibile quantomeno
tentare di raggiungere un accordo.
Sin dal 19 luglio 2012, i curdi hanno stabilito un’amministrazione
democratica nel Rojava (Kurdistan occidentale/Siria settentrionale) che ha come
primo obiettivo – peraltro già realizzato – la coesistenza pacifica e paritaria
tra i vari gruppi etnici (arabi, armeni, assiri, ceceni, curdi, turcomanni) e
religiosi (aleviti, cristiani, musulmani, yezidi). Questo sistema democratico
che dovrebbe essere sostenuto da tutti costituisce l’esempio di quanto le Forze
Democratiche Siriane auspicano verrà realizzato nella nuova Siria al termine
della guerra all’autoproclamatosi Stato Islamico della Siria e del Levante.
Il Confederalismo Democratico nella Siria del Nord: un modello di pacifica
transizione verso la democrazia in Siria
A seguito della esperienza maturata in questi ultimi anni nelle aree a
maggioranza curda anche le altre comunità presenti nel nord della Siria si sono
convinte della necessità di un comune modello democratico di autogoverno.
Tale “formula” di autogoverno si basa esplicitamente sulle idee del
fondatore del Partito dei Lavoratori del Kurdistan PKK Abdullah Öcalan,
detenuto dal 1999 -in regime di assoluto isolamento- nel carcere di massima
sicurezza sull’isola desertificata di Imrali. La “Nazione Democratica” è un
progetto che va oltre i limitati confini politici artificiali che sono stati
creati dalle potenze colonialiste come una estensione della loro strategia
politica di divisione e dominio nella società (Divide et impera)… La
definizione di una nazione democratica -che non sia rigidamente vincolata da
confini politici in una sola lingua, una sola cultura, una sola religione e una
univoca interpretazione della storia- significa pluralità e comunità, nonché
coesistenza di cittadini liberi, uguali e solidali.” si legge nei suoi scritti.
La Nazione Democratica è infatti un progetto che mira a generare democrazia e
fraternità, pace e libertà: non solo tra i curdi e non solo in Kurdistan, ma
tra tutti i popoli in tutto il Medio Oriente. L’obiettivo del progetto di
Abdullah Öcalan è dichiaratamente quello di diffondere una nuova mentalità e di
creare strutture formate da e di cittadini liberi e politicamente attivi,
indipendentemente dalla loro etnia, lingua, cultura e religione.
Questo sistema di autogoverno mira a rendere tutti i membri della comunità
politicamente attivi a livello di base e a dare loro maggiore “potere”. Il
potere alle istituzioni democratiche deriva infatti dalle assemblee formate da
tutte le persone. Tali assemblee si confederano poi tra loro a livello locale,
regionale e nazionale. Ed è sulla base di questo piano che il popolo del
Rojava/Siria del Nord ha sancito l’instaurazione di un sistema democratico
federale. Questo si trova evidentemente in totale disaccordo con la idea di stato-nazione
centralizzato sinora propugnata dal regime di Damasco, che si basa sulla
negazione e sulla emarginazione di tutte le lingue, culture e religioni della
regione diverse da quella “ufficiale”, mentre invece l’intento del
Confederalismo Democratico è quello di celebrare -al contempo- il pluralismo e
le unicità delle varie lingue, culture e religioni di tutti i popoli
storicamente presenti in Siria. Questa sua differenziazione dal precedente
sistema si riflette ovviamente nel contratto sociale, nella società e nelle
scelte politiche quotidiane.
La strategia della “terza via”
Dal punto di vista curdo, al momento, in Siria si stanno verificando due cose:
da una parte una guerra “sporca” e dall’altra una rivoluzione. Il primo è un
conflitto interno al sistema siriano, l’altro rientra nel conflitto globale tra
sistemi di governo (il sistema dello Stato unitario “tradizionale” e il sistema
di autonomia democratica del popolo). Per quanto riguarda il primo, è chiaro
che le potenze internazionali manterranno il controllo anche nel prossimo
futuro: non solo il regime di Assad e l’Esercito Libero Siriano, ma anche
Russia, Cina, Iran, Stati Uniti, Unione Europea, Turchia, Arabia Saudita e
Qatar hanno già acquisito troppi interessi e “voce in capitolo” in questo conflitto
per poter sperare che si ritirino di buon grado al termine dello stesso,
pertanto la situazione siriana sembra lontana dal poter essere risolta
positivamente. D’altro canto, nella Siria del Nord i curdi stanno resistendo
contro tutti gli attacchi e rimangono irremovibili e determinati a rafforzare
il loro nuovo sistema di amministrazione, che -seppure ancora in fase iniziale-
sta rapidamente diventando un valido modello per le esigenze della gente di
tutta la regione. Esiste dunque per loro una terza alternativa di “lotta dentro
la lotta”. Nella guerra “multipolare” in corso in Siria il movimento curdo ha
deciso di percorrere -in Rojava/Siria settentrionale- questa terza via:
praticamente una rivoluzione per il successo della quale non ci si schiera con
il regime né con l’opposizione e con le potenze straniere che la foraggiano e
nella quale ci si difende e non si attacca se non si è attaccati.
I curdi in Siria non sono schierati dalla parte degli americani, né dei
russi. Essi costituiscono una terza forza e rappresentano una terza via sia dal
punto di vista militare, sia dal punto di vista politico: chiunque sia disposto
a riconoscere lo status politico e legale dell’autonomia del Rojava e il
Confederalismo Democratico sarà, di ricambio, riconosciuto come interlocutore
valido. Sinora nessuna potenza straniera a dire il vero, ha riconosciuto
ufficialmente la Federazione Democratica del Rojava/Siria del Nord, ma è chiaro
che l’epoca in cui qualcuno possa ancora pensare di poter sfruttare i curdi (e
gli altri gruppi etnici che ne fanno parte) come strumenti tattici durante il
conflitto contro l’ISIS e/o contro il regime baathista siriano è finita. Coloro
che pensano di poter mantenere con i curdi una relazione meramente tattica e
usarli per i propri scopi economici, militari e politici perché essi sono dei
buoni combattenti commettono un errore: soltanto quei paesi seriamente
interessati a una “partnership” strategica con la Federazione Democratica del
Rojava/Siria del Nord possono pensare di avere successo.
Evidentemente la “terza via” ha prodotto un risultato positivo: grazie a
questa posizione i curdi sono diventati una forza militare e politica
d’importanza strategica con cui tutti – nell’area – devono necessariamente
rapportarsi . Il futuro stesso della regione è ormai in qualche modo nelle mani
dei curdi: per questo motivo le due maggiori potenze mondiali (Federazione
Russa e Stati Uniti d’America), ma non solo, cercano di avviare o mantenere
buone relazioni con i curdi. Così come gli uni hanno bisogno di partners
internazionali, gli altri hanno bisogno dei curdi. E questo non vale solamente
per le due “superpotenze”, ma per tutte le potenze più o meno direttamente
interessate alla situazione in Siria. Tutto il mondo a questo punto ha
riconosciuto che senza i curdi non ci sarebbero molte speranze di una
evoluzione/soluzione positiva dell’attuale situazione siriana, né per il futuro
della nuova Siria.
Questo sta determinando una graduale perdita d’importanza della Repubblica
di Turchia,che fino ad ora ha potuto usare la sua posizione geografica
strategica nel Medio Oriente come strumento di pressione nei confronti
dell’Unione Europea e degli Stati Uniti d’America e ha potuto far valere il suo
ruolo in seno all’alleanza NATO. La Federazione Democratica del Rojava e
soprattutto i curdi stanno depauperando la Turchia di tale ruolo: per tale
motivo il governo turco e in particolare modo il presidente turco Erdogan,
hanno scatenato un’opposizione aggressiva (a dire poco!) nei confronti dei
curdi nel Rojava (Kurdistan occidentale/Siria settentrionale), nel Bashur
(Kurdistan meridionale/Iraq nordoccidentale) e nel Bakur (Kurdistan
settentrionale/Turchia sudorientale).
La Turchia, dunque, ha perso la sua influenza e la scelta della “terza via” da
parte dei Curdi si è rivelata un successo.
Abdullah Öcalan: Strategia per un Medio Oriente democratico attraverso il
Kurdistan
“Per oltre trent’anni il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) ha lottato
per i legittimi diritti del popolo curdo. La nostra lotta, la nostra lotta per
la liberazione ha trasformato la questione curda in una questione
internazionale che ha interessato l’intero Medio Oriente e ha reso la soluzione
della questione curda a portata di mano. Quando si formò il PKK, negli anni
’70, il clima politico e ideologico internazionale era caratterizzato dal mondo
bipolare della Guerra Fredda e dal conflitto fra il campo socialista e il campo
capitalista. Il PKK, a quel tempo, fu ispirato dal sorgere di movimenti di
decolonizzazione in tutto il mondo. In quel contesto, cercammo di trovare la
nostra strada, in accordo con la situazione particolare nella nostra patria. Il
PKK non ha mai considerato la questione curda come un semplice problema di
etnia o di nazionalità. Piuttosto, abbiamo ritenuto che il progetto dovesse
essere quello di liberare la società e democratizzarla. Questi obiettivi hanno
sempre più determinato le nostre azioni (soprattutto a partire) dagli anni ’90.
Abbiamo anche riconosciuto un nesso di causalità tra la questione curda e la
dominazione globale del sistema capitalistico moderno. Senza indagare su questo
nesso e senza affrontarlo una soluzione non sarebbe possibile. Altrimenti,
saremmo coinvolti solo in nuove dipendenze. Fino ad allora, volgendo lo sguardo
sulle questioni di etnia e nazionalità che -come la questione curda- hanno
radici profonde nella storia e nelle fondamenta della società, sembrava esserci
soltanto una soluzione praticabile: la creazione di uno stato-nazione, che era
il paradigma della modernità capitalista in quel momento. Noi non credevamo,
tuttavia, che eventuali progetti politici già pronti sarebbero stati in grado
di migliorare in modo duraturo la situazione della popolazione in Medio
Oriente. Non erano (forse) stati proprio il nazionalismo e gli stati-nazione ad
aver creato così tanti problemi in Medio Oriente!?
Diamo quindi uno sguardo più da vicino al background storico di questo
paradigma e vediamo se possiamo tracciare una soluzione che evita la trappola
del nazionalismo e che meglio si adatta alla situazione del Medio Oriente.”