La rivoluzione culturale junghiana: III) La Grande Madre e le ambivalenze del neopaganesimo
La concezione junghiana, innovatrice - come si è cercato di dimostrare - sul piano psicologico-religioso (oltre che su quello psicoterapeutico), ha moltissimo a che fare con due forme emergenti del movimento rivoluzionario della vigilia del XXI secolo: il femminismo e l`ambientalismo.
Entrambe tali forme, però, non sono separabili dalla tendenza a rinnovare l’approccio ai problemi religiosi, di cui si è detto.
1) Il femminile e la Grande Madre nella psicologia del profondo
Al proposito va comunque ricordato che quella junghiana è quasi una psicologia al femminile (così com`è "al maschile" quella freudiana, tutta ruotante attorno al tema dell`amore-odio per il "grande padre", inscritto nel “complesso di Edipo” detto più o meno universale, nel senso che tutti lo avrebbero avuto e superato verso i cinque anni al massimo, diventando in caso diverso stabilmente “edipici”, sempre troppo legati alla mamma e troppo segnati dall’odio-amore per il padre, e familiari d’origine connessi, ossia nevrotici, restando tali sinché non riescano a superare tale infantilismo persistente[1]). La tendenza junghiana, proprio in quanto mira alla sacralizzazione della Natura, dell`inconscio e degli stessi istinti, che per essa scaturiscono da archetipi, o “impronte primordiali” (typòi archés), più o meno perenni (antropologici), attribuisce un ruolo fondamentale al femminile. C’è infatti un legame forte, immediatamente psicologico, tra la “natura” e il “materno”, e viceversa: due dimensioni così prossime in ciascuno da potersi quasi identificare.
Ciò può essere affermato, come propensione teorica, anche a prescindere dai residui di maschilismo presenti in Jung come persona, residui che spesso lo portarono a strumentalizzare la personalità delle stesse numerose importanti donne collaboratrici, per non dire di quelle amate (come la moglie Emma Rauschenbach, Sabina Spielrein e Antonia Wolff): contesto su cui si è soffermata - sia pure senza trattare il caso di Sabina, ritenuto già studiato dal Carotenuto - una studiosa junghiana dell`Associazione Italiana di Psicologia Analitica, Nadia Neri, in una vasta e importante ricerca specifica[2], da integrare con un`opera alquanto prolissa, ma molto interessante, e ricchissima di notizie preziose, oltre che di profondità concettuale, di John Kerr: Un metodo molto pericoloso. La storia di Jung, Freud e Sabina (1993)[3]. Quest`opera, tra l`altro, non concerne primariamente il rapporto dei due grandi psicoanalisti, Jung e Freud, con Sabina, come il titolo potrebbe far pensare, ma soprattutto quello tra loro stessi, oltre che di ciascuno di loro, con lei. È, anzi, preziosa per intendere più a fondo di quanto non fosse mai stato fatto prima, e con un`onestà scientifica finalmente del tutto immune da pregiudizi di "scuola", il rapporto Jung - Freud. Al proposito sono pure da tenere ben presenti i pochi, ma perspicui, testi di Sabina Spielrein[4], mentre non sembrano importanti, se non come manifestazione del crescente interesse per Jung, i film sulla relazione tra Sabina e Jung degli ultimi anni[5].
Va comunque riconosciuto che in materia di questione femminile una certa ambivalenza si può notare anche nel classico grande saggio di Jung del 1927 La donna in Europa. Jung in esso sostiene che a livello della coscienza la donna è eros; che essa è cioè portata all`unione empatica e all`amore, certo connessi alla sua vocazione di madre, e che il "logos", il raziocinio, la coscienza intellettuale - tratti che nella nostra civiltà tradizionale sono stati per millenni propri dell`uomo - sono nella donna latenti nell`inconscio, lì impersonati da un`immagine idealizzata di uomo, presente a livello onirico, detta Animus. Ritiene che nell`uomo accada il contrario; in lui il logos, il raziocinio intellettuale, la tendenza a dominare con l`intelletto la realtà, sarebbero prevalenti a livello di coscienza, mentre l`eros, l`amore empatico, i grandi sentimenti, sarebbero latenti nell`inconscio, e lì impersonati da una figura ideale infatti femminile, che egli chiama Anima. Ora un`impostazione del genere può sottendere sottovalutazione intellettuale del femminile (la ragione della donna è come immersa nell`irrazionale, o inconscio, che comunque sempre la contamina, rendendo per lei molto difficile la separazione funzionale tra ragione e sentimento); tuttavia, correlativamente, per Jung - com`è pure detto espressamente lì - ciò fa sì che la donna, una volta emancipatasi attraverso la sua grande, sempre più vasta ed incontenibile entrata nel mondo del lavoro, e dunque una volta accresciuta dal logos che ciò comporterebbe, se riesca ad evitare il grave rischio della mascolinizzazione, possa sopravanzare l`uomo (in quanto diventa in tal caso un tipo umano eros-logos a livello della coscienza), e dare così all’uomo, nel sociale, quel supplemento d`eros (alias “d’anima”) senza il quale la distruttività maschile, l’attitudine profonda dell’ “uomo” protagonista della civiltà occidentale, la coscienza tutta logos e niente amore, sarebbero destinate a crescere mettendo ormai - nell`età della tecnica bellica più avanzata, culmine della civiltà di dominio dell’uomo bianco - tutti gli esseri a rischio[6].
Comunque non è certo un caso che nel suo tendere alla sacralizzazione della natura e dell`eros, Jung e gli junghiani della sua generazione, o di quella immediatamente successiva, riscoprano subito il tema della Grande Madre, ossia dell`immagine dell`infinito o divino al femminile, con aperture continue agli autori teorici del matriarcato, a partire dallo svizzero tedesco Jacob Bachofen (il cui grande libro in proposito è del 1861)[7]. In pratica il Sé, che in Jung è il primo tra gli a priori o archetipi dell’inconscio, il punto in cui si raccoglie e da cui si irradia - come da un infinito interiore - tutta la psiche, è visto come il Numinoso al femminile. E ciò dà conto del carattere femminile, matriarcale, comunitario e fondato sull`eros (invece che sulla successiva rigidità normativa dell`ordine, che sarebbe propria del maschile), della più antica civiltà: come quella greco arcaica, egeo-cretese, descritta da Bachofen.
Va tra l`altro notato che la visione di Bachofen era stata ripresa anche da Friedrich Engels nel 1884, nell`opera L`origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato, alla luce di ricerche e tesi del pioniere dell`antropologia culturale L. H. Morgan, che riscoprivano il matriarcato comunitario bachofeniano, o comunque un forte matricentrismo, o un "femminismo" tendenziale, senza proprietà privata e con forte libertà libidica anche delle donne, tra i pellirossa irochesi[8]. Va però anche detto che tale linea per così dire naturalistica, o ecofemminista, o da libertà dei primordi, fu ben presto rimossa dalla socialdemocrazia come dal comunismo, almeno nella loro linea maggioritaria, che era stata ed è statalistica e industrialistica. (Ma tanto il pensiero “verde” quanto il “verdeggiare” del nuovo socialismo sembrano riscoprire tali propensioni “rimosse”).
La centralità del tema della Grande Madre, e del connesso mondo socio-culturale "al femminile", si coglie bene in alcune tra le più significative relazioni dei convegni "junghiani" di Eranos, svoltisi ad Ascona dal 1933 in poi, con apporti di studiosi specie delle religioni orientali e del cristianesimo, oltre che di psicologi, di fama mondiale. (Vi parteciparono pure italiani come il modernista Ernesto Buonaiuti e come l`indologo e “protobuddhista” italiano Giuseppe Tucci). Penso al volume edito in italiano col titolo: La Terra Madre e Dea. Sacralità della natura che ci fa vivere, con relazioni di E. Neumann, K. Kerenyi, D. T. Suzuki e Giuseppe Tucci[9]. Ma il tratto ora richiamato connota anche grandi opere junghiane, come quella di Erich Neumann La Grande Madre (1965)[10], come quella di Esther Harding I misteri della donna (1971)[11], e come quella di Marie-Louise von Franz Il femminile nella fiaba (1972)[12]. Ma in tale ambito va particolarmente segnalato, come contributo teorico originale nell’ambito dello junghismo di tal genere, il bel libro di una psicologa
junghiana, direi libertaria, C. Pinkola Estés Donne che corrono coi lupi (1992)[13], che ha avuto anche in Italia una grande fortuna.
Su questa linea si inserisce pure l`entusiasmo di Jung per la proclamazione del dogma detto dell`assunta (per cui Maria, benché nata da genitori entrambi umani, sarebbe stata assunta anche col corpo, in quanto “immacolata”, senza peccato, in cielo, proprio come suo Figlio, che però era “Dio”): proclamazione che gli pareva sottendere - nell`evoluzione del mito o paradigma intersoggettivo inconscio di tipo cristiano - la divinizzazione della natura, ossia il riconoscimento del carattere spirituale della materia in sé e per sè[14]: quel che oggi Raimùn Panikkar chiamerebbe - felicemente - il carattere “cosmoteandrico” dell’essere[15].
2) La psicologia del profondo e le forme regressive o progressive di neopaganesimo. Dal confronto di Jung col nazismo al politeismo e panteismo di Hillman
Jung tuttavia sapeva anche che sacralizzazione della natura e degli istinti - come già si era visto da Goethe a Nietzsche (cui si riferisce ampiamente, mettendo in guardia dalla sostituzione o pretesa risoluzione della dimensione etica con e in quella estetica, necessariamente “a-morale”, soprattutto in Tipi psicologici, del 1921[16]), e come si era pure visto nel nazismo (per il quale resta centrale il suo saggio Wotan del 1936, ma per cui contano anche tanti altri testi specie del secondo tomo, del volume 10/1 delle Opere, specie del 1944-45 e, almeno altrettanto, moltissime pagine dell’importante libro delle Interviste e incontri di C. G. Jung[17] (1977) - significava anche neopaganesimo. Implicava, insomma, una visione "al di là del bene o del male", com`è la Natura, in cui i contrari sono necessariamente complementari e anzi fusi o con-fusi. Ciò tra l’altro vale, o varrebbe, anche per il Deus sive Natura, “Dio ossia la Natura”, di Spinoza ed altri, cioè per l`identificazione tra Dio e il cosmo propria di ogni panteismo o anche panenteismo[18], in cui il “male” dev’essere visto non come qualcosa che avvenga a dispetto dell’”essere”, ma nell’”essere”. Poteva comportare, insomma, l`immoralismo o comunque l`amoralismo, il "Dioniso contro il Crocifisso" di Nietzsche[19], o, peggio ancora, l`hitlerismo. Ma - ecco il punto - questo poteva sì accadere, ma non necessariamente. Si sarebbe pure potuto dire “Dioniso e il Crocifisso”[20], se non addirittura “Dioniso è il Crocifisso”, ossia affratellare la natura e il divino, gli istinti e la coscienza pura.
Qui è la radice profonda delle ben note, seppure anche esagerate, ambiguità junghiane nei confronti dell`hitlerismo, manifeste nel 1933 nonostante una persistente e pubblica fede parallela da liberale svizzero, e forse con atteggiamento da odi et amo sino al 1936, se non sino al 1938. Ma oltre no, tanto che in una fase recente è stato dimostrato che Jung fu persino una spia a favore degli angloamericani, per i quali del resto aveva da sempre la più grande ammirazione, come emerge chiarissimamente nelle interviste richiamate. Cercando di andare un po’ al di là delle oscillazioni che le persone “a caldo” possono avere avuto nella storia, e che quasi sempre, se si usino i riflettori per illuminarle, hanno avuto, in tempi di ferro e fuoco, anche a livello dei più luminosi esempi di moralità e libertà (con pochissime eccezioni), qual è il problema in termini “profondi” (concettuali), quali sono quelli che qui interessano?
In tal caso mi pare che si possa dire quanto segue. Jung era certo fautore di una sorta di superamento, davvero goethiano, dell`antinomia tra paganesimo e cristianesimo (per lui tra Dioniso e Gesù Cristo), tra divinità della natura o divinità del solo puro spirito (il Dio “trascendente”), ma sapeva pure che l`irruzione del paganesimo - visto come cifra del panteismo, o del naturalismo, o del post-cristianesimo - comportava il rischio della "fuga nell`opposto" (“enantiodromia”): in sostanza la possibilità di porre l`Anticristo al posto del Cristo, come si era alla fine visto con Hitler. E man mano che la tragedia e i crimini contro l`umanità dei nazisti, del `39-45, venivano alla luce, Jung accentuava questo timore, sino a riscoprire, nella vecchiaia (ma anche sin dal Wotan, del 1936), la bontà del cristianesimo[21] (pur da rinnovare psicologizzandolo e connettendo il più possibile Dio e Natura, ma senza perdere affatto né il principio dell’infinità potenziale della psiche né tanto meno quello dell’empatia umana e universale).
Su ciò James Hillman ha un`altra posizione rispetto a Jung. Il suo stesso americanismo - oltre che l`esser egli fiorito, come autore, ben "dopo la tragedia" del periodo compreso tra 1933 e 1945 - lo ha immunizzato dal fascino sinistro dei fascismi, e lo ha reso e rende per ciò molto meno timoroso dell`irruzione del paganesimo, che anzi per lui è, anche come “politeismo”, sinonimo di libertà, laddove ogni monoteismo è a suo dire intollerante, fanatico e sanguinario. (Si veda il libro scritto con David L. Miller Il nuovo politeismo)[22]. Egli, ad esempio nell`opera Il mito dell`analisi (1972), nega l`assimilabilità tra paganesimo nordico, germanico, e paganesimo mediterraneo, ellenico, e soprattutto tra Wotan e Dioniso, che invece Jung dava per scontata. Al proposito scrive:
“ Jung, prendendo Nietzsche come esempio, sottolinea a più riprese la mescolanza tedesca di Dioniso e Wotan. (...) Queste due figure, l’una transalpina, l’altra cisalpina, sono indistinguibili nell’ombra della nostra tradizione. Ma tra di loro, tra Dioniso e Wotan, tra il culto e la coscienza dell’uno e il culto e la coscienza dell’altro, tra la complessa sacralità di Arianna e l’elementare fertilità di Frigg-Jord, tra l’ebbrezza dell’uno per il vino, con i suoi satiri e le sue donne, e la pazzia da cacciatore selvaggio dell’altro con le sue eroiche guerriere, ci sono differenze non minori delle Alpi[23].”
In effetti l`estraneità profonda di Dioniso rispetto al nazismo era stata notata anche da Alfred Rosenberg, nel suo famigerato libro sul mito della razza: Il mito del XX secolo (1930)[24]. E su ciò c`é un`interessante discussione in Psicologia di massa del fascismo (1933), di Wilhelm Reich. Egli notò e discusse a fondo l’ostilità del “teorico” nazista - che pure come tutti i razzisti sin dal tempo di de Gobineau[25] era un apologeta estremo del modello greco classico preteso “ariano” - per Dioniso, dio dello scatenamento dell’eros nell’orgia sacra delle baccanti, considerato una vera e propria intrusione asiatica nel pantheon greco (benché come noi sappiamo il nume facesse capolino già in Omero). Per Wilhelm Reich questa ripulsa di Dioniso - che pure per Nietzsche era stato lo spirito stesso dell’ellenismo[26] - era una notevole una prova aggiuntiva a favore della sua analisi sul carattere di repressione della libertà istintuale, e sull’atteggiamento da repressi, che sarebbe stato proprio dei fascisti (a dispetto del loro atteggiamento macho)[27]. Su ciò rinvio pure ai miei contributi su psiche e storia nello junghismo e su psicoanalisi e nazifascismo[28].
Per Hillman il pantheon ellenico corrisponde sostanzialmente alla costellazione degli archetipi del nostro inconscio collettivo, abitato a suo dire da una serie di figure o tipi interiori inconsci ricorrenti, che egli chiama un "piccolo popolo" (andando persino al di là - per me assai discutibilmente - dell`idea dell`unità mentale del singolo in quanto tutto raccolto intorno a un punto focale interiore inconscio potenzialmente infinito, che Jung chiamava Sé, per lui certo e irrinunciabile quantomeno come immagine-istanza concernente il divino presente in ciascuno a modo suo). Il contatto e quasi l`abbandono a quella dimensione archetipica, pluricentrica, “politeistica”, secondo Hillman sarebbero salvifici di per sé, come una sorta di immersione nella natura originaria, divina[29]. Ma la possibilità che l’approccio paganeggiante, proprio in quanto tale, contenga anche un lato d’ombra quale quello posto in luce da Jung specie tra il 1936 e il 1946, sussiste e va quantomeno tenuta presente come un rischio che accompagna tale approccio. Non a caso pensatori come Alain de Benoist e piccole, ma importanti, riviste italiane a lui connesse, come “Diorama” di Marco Tarchi, ossia le teorizzazioni dette della “Nuova Destra”, hanno a lungo vezzeggiato con il neopaganesimo, pur essendosi poi evolute in senso anticapitalista oltre che ecologista[30]. In sostanza quel che passa attraverso il neopaganesimo o anche semplicemente il panteismo o il politeismo psicologico o l’estetizzazione dei Valori, non è solo acqua fresca, ma ha pure un lato torbido, da non criminalizzare ossessivamente, ma da tener presente. Insomma, una certa cautela non solo intellettuale, ma anche morale e politica, come quella di chi si trovi a maneggiare esplosivi, è fortemente consigliabile ogni volta che ci si approssimi a tematiche paganeggianti o neopaganeggianti, anche se questo principio di precauzione non deve poi sconfinare nell’arrestarsi, con perbenismo e autocensura intellettuali detestabili, invece di procedere sempre oltre senza accettare limite “a priori” alcuno nel campo della ricerca e persino della propria evoluzione spirituale (stando però attenti a non scambiare l’evoluzione con l’involuzione). Ciò è tanto più vero ove si pensi che nella storia della cultura ormai sappiamo che la continuità prevale sempre sulle rotture, che sono per così dire rotture nella continuità, sicché il cristianesimo antico presuppone le religioni dei misteri tardo antiche così come il Rinascimento, tramite l’Umanesimo, nonostante il suo neopaganesimo, presuppone il cristianesimo, anzi la nostalgia del “vero cristianesimo” (originario), contro la scolastica medievale, nostalgia affermatasi in Erasmo da Rotterdam e nello stesso Lutero. E Goethe stesso era sì “pagano”, ma niente affatto contrario al “cristianesimo”, come si vede persino nel Faust[31]. Tuttavia ogni volta che ci capiti di riscoprire con nostalgia i temi dell’uno-tutto, tendenzialmente panteisti, dobbiamo pure sapere che si aprono grandi problemi morali (di relativizzazione della diade bene-male, di estetizzazione amorale o immoralistica della politica, di possibile irruzione di un istintualismo cieco, eccetera), che dobbiamo imparare a problematizzare, dialettizzare e superare[32], anche se non dobbiamo consentire a prete “ortodosso” alcuno di impedirci di affrontare tali questioni ed istanze psicologicamente importatissime: “a Dio piacendo”.
(Segue)
[1] S. FREUD, L’interpretazione dei sogni (1899, ma 1900), in “Opere”, a cura di C. Musatti, Torino, Bollati Boringhieri, 1966, vol. 3; Introduzione alla psicoanalisi (1915-1917 e 1932), ivi, 1976, vol. 8 e 1979, vol. 11.
[2] N. NERI, Oltre l`Ombra. Donne intorno a Jung, Roma, Borla, 1994.
A. CAROTENUTO, Diario di una segreta simmetria. Sabina Spielrein tra Jung e Freud, Roma, Astrolabio, 1989, ma si veda l’edizione del 1999.
[3] J. KERR, Un metodo molto pericoloso. La storia di Jung, Freud e Sabina (1993), Milano, Frassinelli, 1994.
[4] S. SPIELREIN, La comprensione della schizofrenia e altri scritti, Napoli, Liguori, 1986.
[5] Il più rilevante tra tali film è Prendimi l’anima, di Roberto Faenza, del 2003, che come film d’amore anche “d’anima” può essere interessante, ma che ha un’attinenza minima vuoi con Jung e vuoi con Sabina. Niente di male, ma perché riferirsi ai due invece che a uno psicologo e alla sua paziente in senso immaginario stante l’enorme distanza tra vicende reali e idee dei personaggi e personaggi reali, specie nella loro relazione?
Si veda pure il film-documentario di Elisabeth MARTÒN My name was Sabina Spielrein, del 2002.
[6] Si veda il saggio La donna in Europa, del 1927- in it. nel vol. 10/1 delle Opere di Jung: Civiltà in transizione. Il periodo fra le due guerre, Torino, Bollati Boringhieri, 1985, pp. 29-49.
[7] J. BACHOFEN, Il matriarcato. Ricerca sulla ginecocrazia nel mondo antico nei suoi aspetti religiosi e giuridici (1861), Torino, Einaudi, 1988, due voll.
[8] F. ENGELS, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884), a cura di F. Codino, Roma, Editori Riuniti, 1973.
[9] E. NEUMANN et al., La Terra Madre e Dea. Sacralità della natura che ci fa vivere, Como, RED, 1989.
[10] E. NEUMANN, La Grande Madre (1956), Roma, Astrolabio, 1961.
[11] H. HARDING, I misteri della donna (1949), Roma, Astrolabio, 1973.
[12] M.-L. VON FRANZ, Il femminile nella fiaba (1972), Torino, Bollati Boringhieri, 1973.
[13] C. PINKOLA-ESTÉS, Donne che corrono coi lupi (1992), Milano, Frassinelli, 1995.
[14] Si vedano i testi del 1950 nel vasto e fondamentale XI vol. delle opere, Psicologia e religione. Ma si veda ora lo straordinario: C. G. JUNG, Lettere, a cura di A. Jaffé, in collaborazione con G. Adler, Roma, Edizioni Magi, 2006, che in tre grandi volumi raccogli lettere dal 1906 al 1961, in gran parte di profindo significato dottrinario. Quelle che qui interessano sono al vol. II, che raccoglie le lettere dal 1946 al 1955 (anche lì si vedano quelle intorno al 1950).
[15] R. PANIKKAR, La realtà cosmoteandrica, Milano, Jaca Book, 2004. Si veda pure, dello stesso: La porta stretta della conoscenza. Sensi, ragione e fede, a cura di Milena Carrara Pavan, Milano, Rizzoli, 2005.
[16] C. G. JUNG, Tipi psicologici (1921), Torino, Bollati Boringhieeri, 1969, ma poi ivi, 1981, come vol. VI delle “Opere”.
[17] C. G. JUNG, Civiltà in transizione verso la catastrofe, vol. X/1 delle “Opere”, ivi, 1985 (Wotan è ivi); Civiltà in transizione dopo la catastrofe, vol. X/2 delle “Opere”, ivi, 1985. E inoltre: Jung parla. Interviste e incontri, a cura di W. McGuire e R. F. C. Hull (1977), Milano, Adelphi, 1995.
[18] Il panteismo è la visione per cui “il tutto” (pàn) è “dio” (theòs). Il panenteismo è la visione per cui “il tutto” (pàn) afferisce all’uno, o è nell’Uno (èn), che è dio (theòs).
[19] Con quest’affermazione icastica F. W. NIETZSCHE concludeva il suo già un po’ delirante libro autobiografico Ecce homo (1888, ma 1907), Milano, Adelphi, 1972.
[20] Su questo punto specifico è fondamentale la lettera di Jung a Freud del 13 febbraio 1910, in: Lettere tra Freud e Jung, con la collaborazione di W. Sauerländer, Torino, Bollati Boringhieri, 1974, pp. 315-317.
[21] Tra le “Opere” di Jung il vol. di gran lunga più denso, vasto e per me interessante è Psicologia e religione, l’XI, del 1986, cui fanno riferimento i diversi temi richiamati in materia.
[22] In: D. L. MILLER, Il nuovo politeismo. La rinascita degli Dèi e delle Dee (1981), Milano, Comunità, 1983. Contiene pure testi di Hillman. Va pure vista la prefazione di H. Corbin. L’edizione italiana è a cura di B. Garufi.
Inoltre si veda: J. HILLMAN, La vana fuga degli dei, Milano, Adelphi, 1991.
[23] J. HILLMAN, Il mito dell’analisi (1972), Milano, Adelphi, 1979, pp. 277-278.
[24] A. ROSENBERG, Il mito del XX secolo (1930), Genova,, Il Basilisco, 1981 (traduzione parziale).
[25] J. DE GOBINEAU, Essai sur l’inégalité des races humaines, Paris, 1853-1855, Quattro volume,
[26] F. W. NIETZSCHE, Nascita della tragedia (1872), Ditirambi di Dioniso e Pensieri postumi 1882-1888, vol. VI, tomo IV delle “Opere”, a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi, 1970.
[27] W. REICH, Psicologia di massa del fascismo (1933 e poi 1946), Milano, SugarCo, 1971.
[28] Di F. LIVORSI si vedano particolarmente, su tali temi: Psiche e storia. Junghismo e mondo contemporaneo, Firenze, Vallecchi, 1991; Psicoanalisi e nazismo da Freud a Fromm, “Belfagor”, a. IL, n. 3, maggio 1994, pp. 257-276; Jung e Hitler, “Klaros. Quaderni di psicologia analitica”, a. VI, n. 1-2, 1993, pp. 150-169; Note politiche e psicoanalitiche sul razzismo, “Thelema. La psicanalisi e i suoi intorni”, n. 6, 1995, pp. 57 – 105; Psicologia analitica e pensiero politico, “Belfagor”, a. LII, n. 308, marzo 1997, pp. 151-170; Politica nell’anima. Etica, politica, psicoanalisi, Bergamo, Moretti & Vitali, 2007.
[29] Si veda la grande, e straordinariamente interessante e suggestiva, auto-antologia di J. HILLMAN Fuochi blu (1989), Milano, Adelphi, 1996.
[30] La tendenza neopagana è evidente in: J. CAU, Il popolo, la decadenza e gli dei: preceduto da un Elogio sconveniente del pesante, con prefazione di A. de Benoist, Vibo Valenzia, Settecolori, 1993. Il testo classico della “nuova destra” prima maniera era: A. DE BENOIST, Visto da destra: antologia critica delle idee contemporanee (1979), Napoli, Akropolis, 1981, da confrontare con: M. TARCHI, Partito unico e dinamica autoritaria, Napoli, Akropolis, 1981. Per la posizione anticapitalista ed ecologista d’oggi si vedano: A. DE BENOIST, Dialoghi sul presente: alienazione, globalizzazione, destra/sinistra, atei devoti: per un pensiero ribelle, Napoli, Controcorrente, 2005; M. TARCHI, Contro l’americanismo, Roma-Bari, Laterza, 2004.
[31] Per questi aspetti resta fondamentale: K. LÖWITH, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria del XIX secolo (1941), Torino, Einaudi, 1949. Si veda: J. W. GOETHE, Faust, con introduzione di C. Cases e traduzione di B. Allason, Torino, Einaudi, 1965, ma pure Faust Urfaust (1773-1808 e 1826-1831, con introduzione di G. Mattenklott, prefazione di E. Trünz, traduzione e commento di A. Casalegno, con testo tedesco a fronte, Milano, Garzanti, 1990.
[32] Al proposito è molto interessante il piccolo libro di L. ZOJA Giustizia e bellezza, Torino, Bollati Boringhieri, 2007. Può essere visto come il culmine di una tendenza neo-junghiana che internazionalmente si connette a Hillman e in Italia parte dal bel libro di U. GALIMBERTI La terra senza il male, Milano, Feltrinelli, 1984.