Immagino di parlare a un giovane pensoso e di buona volontà che ai miei tempi avrebbe potuto avere vent’anni e oggi almeno trenta, un tipo pieno di inquietudini e di problemi irrisolti vissuti in un’età che può essere una benedizione del cielo, ma eventualmente anche una maledizione. Naturalmente egli avrà tanti motivi di infelicità specifici, che nessun discorso, mio o altrui, anche reiterato con molte variazioni per innumerevoli volte, potrebbe risolvere al posto suo. In tal caso dovrà essere lui stesso a tirarsi fuori dai guai. E nessuno potrà farlo al posto suo. Ma la sua situazione potrebbe anche aggravarsi, rendendo i suoi problemi più difficili da risolvere se venissero a mancargli alcuni “orizzonti di senso”, taluni punti d’orientamento del tipo dell’orsa maggiore in cielo per gli antichi naviganti. Faccio, in proposito, alcune ipotesi.
Il nostro giovane potrebbe ritenere che ogni salvezza o “ruina” possano venire a lui solo dall’esterno, da qualcosa che dovrebbe raggiungere e non ha raggiunto, sicché per aver perso il lavoro, oppure per un fallimento scolastico, oppure per non aver ottenuto o per aver perduto l’amore di una donna, o di un uomo (specie se la nostra persona sia una donna), potrebbe anche uccidersi. In quest’epoca in cui i nostri giovani, anche quando salgono sul trapezio del circo - in senso ovviamente figurato - hanno molte reti protettive, potrebbe accadere. In tempi del genere si può essere vittime del complesso di Peter Pan, il bambino che non voleva crescere. Si può restare sempre o troppo a lungo dipendenti e un po’ infantili. Si può, insomma, risultare privi delle difese immunitarie “mentali”. E per ciò il più piccolo, o non piccolo, scacco può risultare fatale.
Qualora un giovane come quello evocato faccia fesserie del genere, ciò però starebbe a significare - nel mio ragionamento - che egli non ha compreso un paio di cose fondamentali. Se avessi potuto dirgliele e, quel che più conta, aiutarlo ad interiorizzarle in tempo, forse lo avrei salvato.
La prima cosa non compresa da lui - in riferimento alla “triade” ideale che qui ho già un po’ evocato come esistenzialmente “fondante” (“Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo?”) - ha a che fare col primo termine. Si tratta di sapere che in ciascuno di noi c’è una potenza infinita, che riuscirà a far fronte ad ogni ostacolo. Su ciò c’è una sublime pagina di Fichte, tratta dai bellissimi, patriottici, ma niente affatto “imperialistici” (bensì antimperialistici) Discorsi alla nazione tedesca (1807-1808), che vale la pena di citare: “In questi miei discorsi non mi stancai mai d’inculcarvi che nulla vi può aiutare; che solo voi lo potete - né mi stancherò di ripetervelo fino alla fine. Ben possono la pioggia e la rugiada, gli anni di abbondanza e quelli di carestia dipendere da una forza a noi sconosciuta e da noi incontrollabile; ma le epoche umane come i rapporti umani sono gli uomini che li foggiano, e nessuna forza all’infuori di essi. (…) Nella mia esperienza. Pur non tanto lunga, ho visto anch’io giovani che in principio avevan destato superbe speranze, acconciarsi alla benintenzionata aspettazione degli uomini attempati. Ma voi, o giovani, non dovete continuare a far così; come, se no, potrebbe mai sorgere una nuova generazione? Cadrà il fiore della vostra giovinezza, la fiamma della vostra fantasia si smorzerà non trovando più in sé il suo alimento; ma oggi tenetela preziosa questa fiamma, intensificatela colla limpidezza del pensiero, rendetevi padroni dell’arte di pensare e riceverete in più la miglior dote dell’uomo: il carattere. Da questo chiaro pensiero scaturirà per voi la sorgente dell’eterna giovinezza; invecchi pure il corpo e le ginocchia vacillino; in perenne rinnovata freschezza lo spirito tornerà a generare se stesso, e il vostro carattere rimarrà fermo e senza esitazioni.”[1] Una volta in cui lessi e commentai questa pagina in una delle mie lezioni universitarie a Torino una ragazza, fidanzata allora con un nipote di Luigi Firpo, venne a ringraziarmi, dicendomi che quelle parole di Fichte le avevano toccato l’anima e “cambiato la vita”. Il merito naturalmente non era mio, ma dell’idealismo detto “soggettivo” del vecchio Fichte.
La seconda cosa non compresa dal nostro giovane immaginario finito male è che il senso della vita, che lui si era sentito venir meno a causa dell’uno od altro scacco, è già presente ed operante alla radice di noi stessi, oltre che intorno a noi; che c’è infinito in noi, infinito fuori di noi e infinito sopra di noi. (Ecco “Chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo”). Mi rendo conto di aver appena fatto un’affermazione “forte” e soprattutto “opinabile”, ma cercherò subito di motivarla.
Per me, in buona sostanza, oggi non ha più senso alcuno il dare per scontato il non-senso. Il nichilismo - il nulla come suprema verità dell’essere - può essere il punto di partenza della “filosofia”, che infatti è stata tanto spesso una lotta contro la morte[2], ma non può essere, almeno per me, né il suo contenuto né il suo punto di arrivo. Se così fosse persino il filosofare sarebbe insensato, come l’occuparsi di matematica se i problemi o teoremi fossero enunciabili, ma irrisolvibili. Dobbiamo invece ipotizzare non già il “non senso”, ma “il senso” (per evocare una dialettica tra questi termini al centro di una delle opere di Merleau-Ponty[3]).
Intanto già in noi c’è una vita immensa, che è semplicemente “in attesa” di venire “svelata” (alétheia, “non nascondimento”[4]). E questo resta vero sia che uno, nella vita, sia un “riuscito” e sia che sia un fallito. Per questo Spinoza viveva fabbricando lenti mentre intanto scriveva opere filosofiche immortali[5].
Ora, supponiamo che uno abbia scritto l’Iliade o l’Odissea, oppure conquistato, come Giulio Cesare, le Gallie. Ebbene, ciò è certo stato filtrato da lui, solo da lui; e senza di lui non sarebbe accaduto (con buona pace dei “materialisti storici” coerenti, che fanno del singolo un accidente, un epifenomeno o nella migliore delle ipotesi un portavoce della storia[6]). Ma al tempo stesso quella “produzione” (Iliade o Odissea)o “impresa” (conquista delle Gallie) vale perché e se esprima una coscienza o volontà di tipo collettivo, rispetto alla quale il singolo è stato sì essenziale, ma una specie di levatrice per conto dell’intersoggettività. Quel che conta non è tanto l’uomo che ha scritto l’Iliade o l’Odissea, tanto che ne sappiamo persino pochissimo senza che nulla o quasi cambi; conta, piuttosto, il poema immortale venuto al mondo tramite il Pinco Pallino chiamato Omero. E quell’Omero l’ha scritto filtrando qualcosa di universalmente umano. Se così non fosse la sua poesia non varrebbe niente, non sarebbe universalmente umana e persino al di là dello spazio e del tempo nel senso di valida per ogni spazio-tempo. Sicché si potrebbe dire che l’umanità, ad un certo punto del suo divenire in quanto specie, attraverso Omero ha scritto l’Iliade e l’Odissea. Il singolo è una persona, con tutte le sue limitazioni, ma per suo tramite è nato qualcosa che vale, ma non per lui, sebbene solo grazie a lui; vale perché filtra qualcosa di universalmente umano, come una scoperta, che si spiega in se stessa e non per il suo scopritore, sempre umano troppo umano come tutti.
Qui ho parlato di uno riuscito in massimo grado, come il “signor Omero” o il “signor Giulio Cesare”. Ma quel che dico varrebbe anche se uno nella vita non avesse mai combinato un accidente, se fosse un perfetto fallito (purché - almeno per come sento la cosa io - non fosse o non sia un parassita, un delinquente e magari anche un fesso). Il successo come prova del valore di un individuo fa parte dell’etica capitalistica, magari calvinista[7] e - pare - a tutt’oggi americana, ma per noi “compagni” non dovrebbe valere niente o quasi. Parola di uno che, sino a prova contraria, un po’ di successo nella vita lo ha avuto. Anzi, il successo non dovrebbe contare nulla. È umano cercarlo (perché accade persino tra lupi o cavalli, che vorrebbero diventare “capi branco”), ma non è decisivo trovarlo: non solo perché c’è il fenomeno - per fortuna non generale, ma diffuso - che Fruttero e Lucentini chiamavano della “prevalenza del cretino”[8], ma anche perché il valore delle persone ha a che fare con la loro personale capacità o meno di superare la “bassezza d’animo”, la “malvagità e malignità”, la “volgarità” e la “banalità” nella vita, propria e - se possibile - anche collettiva. (Forse è impossibile, ma bisogna contrastare tali tendenze, per ridurle in massimo grado).
Ciò ha a che fare sia con la vita sociale che con quella interiore. Per comodità di esposizione, e forse anche per le passioni dell’anima che caratterizzano da tanti anni la mia vita, parto dalla dimensione interiore. In tal caso vorrei concentrarmi su quello che con e di tale dimensione interiore si faccia e su quello che tale dimensione interiore sia intrinsecamente.
Innanzitutto, in qualsiasi “status” sociale o professione o condizione interpersonale, e quasi in ogni condizione naturale - salvo ovviamente quella che connota mali del corpo davvero molto gravi, persistenti o contingenti - nell’interiorità è possibile vivere una vita immensa, sol che si abbia un’anima capace di apprezzare il kalòn kài agathòn, “bello e buono” (come dicevano gli antichi greci, connettendo strettamente l’estetico e l’etico e viceversa)[9]. Ci sono tante opere, sinfonie o canti immortali che non ho mai sentito e che forse non riuscirò mai a sentire. Ma per quel che posso, prima di “di-sperare” - se mai mi trovassi in una situazione “disperante” - vorrei attingervi sino all’ultimo respiro. E quel che ho detto vale per i romanzi, i poemi e le poesie che mi propongo di centellinare. E così via. E se avessi l’animo di uno scienziato, avrei l’altra metà del cielo a disposizione. In fondo ciò è quello che Aristotele chiamava “virtù dianoetica”, ossia della contemplazione, che per lui per l’uomo sarebbe la massima gioia essendo la razionalità, e per ciò stesso il conoscere, la quintessenza dell’”animale ragionevole”[10]. Ma a differenza di Aristotele io, che non a caso parto dal primato antropologico dell’inconscio “umano”, vedo la massima forma di contemplazione non nel “logico”, ma nell’”estetico”(non a caso aìsthesis, da cui viene la parola estetica, significa “sensibilità”).
Tra le cose da contemplare includerei - anche se quello che non è fatto dall’uomo purtroppo mi delizia meno (salvo però “il mare” e certe albe o tramonti del sole d’estate, specie in esso) - anche la Natura. Ma preferirei parlare di “immersione” in essa, come quella di un subacqueo o addirittura di un pesce appunto del mare. E inoltre, al culmine di tali mutamenti interiori, porrei la percezione stessa dell’infinito: il leopardiano “naufragar m’è dolce in questo mare”, l’ungarettiano “m’illumino d’immenso”, e quel che portò il santo Francesco ad erompere letteralmente in quel grande inno ditirambico, di cui purtroppo si è persa la musica (che c’era), chiamato Cantico di frate sole o Cantico delle creature che dir si voglia. Metterei, insomma, il contatto con “il divino”, sive natura[11], in presa diretta, s’il vous plait.
Tutto ciò mi suggerisce che est deus in nobis. Il Sacro si fa percepire, com’è stato ben tematizzato non solo da Jung, ma da Rudolf Otto a Gerardus van der Leeuw, e oltre (ossia dalla corrente fenomenologico religiosa, che include pure la psicologia analitica)[12]. Ed “essere” è pure “percepire”. Legioni di mistici di tutti i tempi e luoghi lo hanno fatto raccontandolo in modi analoghi, anche senza contatto culturale alcuno l’uno con l’altro, come se si richiamassero attraverso i mondi. Potrebbe però trattarsi solo di una presenza mentale (lo riconosco senza riserva alcuna), ma per la mente che la senta è reale. Un discepolo di Karl Barth diceva che non dovremmo porre l’Io come punto per così dire “alfa” (il “cogito ergo sum”, “penso dunque sono”, di Cartesio, poi ripreso dagli idealisti romantici o dei neoidealisti, in fondo neoromantici), bensì il “cogitor ergo sum”, “sono pensato, dunque sono”[13]. C’è insomma un pensante, non derivato, che pensa in me, in cui l’Io, la coscienza puramente soggettiva di pensare, il soggetto manifesto, è incluso. Per Barth questo soggetto trascendentale, pensante puro, naturalmente è, in modo agostiniano, Dio che “habitat in interiore homine”[14] (il che rende “il trascendentale” - ossia ciò che è nell’esperienza e al di là dell’esperienza, ciò che è a priori ma serve a sintetizzare il percepito o pensato - anche trascendente, vale a dire “al di là” in senso forte, come il padrone di casa rispetto alla casa, in cui per il cristiano habitat, ma non “è”). In termini psicologico-analitici, junghiani, questo pensante che pensa tutti i pensieri, questa specie di soggetto sottinteso o presupposto che in noi sta a monte, è il mondo dell’inconscio (da cui l’Io deriva): inconscio i cui punti di forza pensanti (inconsciamente) sono gli archetipi, le impronte (typòi) di genere “originario” (arché), gli a priori ma appunto inconsci, che l’esperienza del sonno (sogno) come della veglia (pensieri-volontà-azioni) filtrano, concretizzano, immettono nella vicenda questa sì spazio-temporale, qui ed ora, di ciascuno e di tutti noi. Tra questi archetipi c’è una specie di punto focale infinito-infinitesimo che Jung chiama Sé, in cui lo stesso Io è incluso, o cui l’Io fa capo. C’è un libro, forse un po’ troppo schematizzante (ma in prima istanza va benissimo, se fatto, com’è in esso, al più alto livello), che ritengo fondamentale per comprendere lo junghismo: un testo che io ritengo bellissimo, in cui tutto ciò è ben spiegato, La psicologia di Jung, di Jolande Jacobi, cui al proposito rinvio per un primo indispensabile approfondimento[15].
Tutto ciò a mio parere dimostra che la nostra mente ha pure una dimensione verticale (ricordare il “gotico fiammeggiante”, in cui pare che lo slancio sia misticamente rivolto verso il cielo). A me sarebbe piaciuto che da ragazzo qualcuno mi avesse spiegato che la nostra psiche, oltre alla fondamentale attitudine a “essere nel mondo” per risolvere problemi “concreti”, ha pure questa sua vita tutta sua, in cui può trovare un senso profondo e percepirlo con la stessa intensità con cui un animale vive la sua vita istintuale. Può trovare, in specie, quel che dia ad essa il sapore dell’esistenza, e in particolare del bello, e dell’infinito stesso. E nessuno, solitamente, può togliere alla psiche tali qualità. E tanto basta, e avanza, per una vita bella.
Tutto ciò, però, ha immense conseguenze vuoi morali e vuoi sociali, su cui vorrei pure soffermarmi.
(Segue)
( franco.livorsi@unimi.it )
[1] G. A. FICHTE. Discorsi alla nazione tedesca (1807-1808), a cura di B. Allason, Torino, UTET, 1972, pp. 258-259.
[2] F. ROSENZWEIG, La Stella della redenzione (1921), Genova, Marietti, 1985. L’autore su ciò osserva: “Dalla morte, dal timore della morte, prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il tutto. Rigettare la paura che attanaglia ciò ch’è terrestre, strappare alla morte il suo aculeo velenoso, togliere all’Ade il suo miasma pestilento, di questo si pretende capace la filosofia. Tutto quanto è mortale vive in questa paura della morte, ogni nuova nascita aggiunge nuovo motivo di paura perché accresce il numero di ciò che deve morire. Senza posa il grembo instancabile della terra partorisce il nuovo e ciascuno è indefettibilmente votato alla morte, ciascuno attende con timore e tremore il giorno del suo viaggio nelle tenebre. Ma la filosofia nega queste paure della terra. Essa strappa oltre la fossa che si spalanca ad ogni passo. Permette che il corpo sia consegnato all’abisso, ma l’anima, libera, lo sfugge librandosi in volo (p. 3).”
[3] M. MERLEAU-PONTY, Senso e non senso (1948), a cura di P. Caruso e E. Paci, Milano, Il Saggiatore, 1968.
[4] La problematica della verità intesa in senso puramente umano come “retto giudizio” (orthòtes), secondo il filosofo da Platone in poi, oppure come “svelamento” (alétheia), intuzione assoluta poetico-ontologica, è al centro del pensiero di M. HEIDEGGER, con particolare riferimento all’opera La dottrina di Platone sulla verità (1942 e in vol. 1947), a cura – insieme al suo saggio Lettera sull’umanismo (1947, e a sé nel 1949) – di A. Bixio e G. Vattimo, Milano, Mursia, 1976. Ma si vedano i commenti su tali punti e testi in: C. MAZZANTINI, La filosofia di Martino Heidegger, Facoltà di Magistero - Università di Torino, 1963, dispensa per me importantissima.
[5] B. SPINOZA (1632-1677), filosofo olandese, panteista e a suo modo democratico rivoluzionario, autore di Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico (1665, ma 1677, postumo), Torino, Boringhieri, 1959; Trattato teologico-politico, a cura di S. Casellato, Firenze, La Nuova Italia, 1971; Trattato politico (1677, postumo), a cura di L. Pezzillo, Roma-Bari, Laterza, 1981.
[6] Su tutta la questione relativa a Marx e al materialismo storico rinvio pure a: F. LIVORSI, Coscienza e politica nella storia. Le motivazioni dell’azione collettiva nel pensiero politico contemporaneo. Dal 1800 al 2000, Torino, Giappichelli, pp. 107-153 e soprattutto 253-296.
[7] M. WEBER, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1905, ma in vol. nel 1920), a cura di E. Sestan, Firenze, La Nuova Italia, 1965.
[8] C. FRUTTERO – F. LUCENTINI, La prevalenza del cretino, Milano, Mondadori, 1985.
[9] Si veda su ciò, ora: L. ZOJA, Giustizia e bellezza, Torino, Bollati Boringhieri, 2007.
[10] ARISTOTELE, Etica nicomachea, in: “Opere”, Bari, Laterza, 1973, vol. III (comprende anche l’Etica eudemia). L’Etica nicomachea era già uscito da Laterza, a cura di A. Carlini, nel 1928.
[11] G. LEOPARDI, L’infinito (1819), in: Canti, a cura di F. Flora, Milano, Momdadori, 1937-1939; G. UNGARETTI, Vita di un uomo. Tutte le poesie, a cura di L. Piccioni, Milano, Mondadori (Oscar Grandi Classici), 1992: Mattina (1917), p. 65; FRANCESCO d’ASSISI, “Scritti”, Introduzione di V. Gamboso, Padova, Il messaggero, 1983: Cantico di frate sole o Laudi delle creature (del 1225), pp. 250-252.
[12] Per i saggi di Jung si veda soprattutto tutto il vasto vol. XI delle “Opere”, su Psicologia e religione, Torino, Bollati Boringhieri, 1979. Si confronti con: R. OTTO, Il sacro (1917), Milano, Feltrinelli, 1984; G. van der LEEUW, Fenomenologia della religione (1933 e infine 1956), Torino, Bollati Boringhieri, 1992.
[13] Per questi aspetti si veda: I. MANCINI, Novecento teologico, Firenze, Valecchi, 1977, specie nelle parti su Barth, pp. 1-178.
[14] Riferimento alle famose parole del De vera religione (XXXIX, 72-73) di Sant’Agostino (354-430): “Non voler uscire fuori di te, ritorna in te stesso, la verità abita all’interno dell’uomo, e se troverai mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso. Ma ricordati che quando trascendi te stesso, tu trascendi l’anima tua razionale. Tendi dunque là dove s’accende la luce della ragione”, in Il maestro, La vera religione, in: “Corona Patrum Salesiana”, Torino, Edizioni Salesiane, 1941. La traduzione è di D. Bassi. Si confronti con la straordinaria vasta scelta di testi filosofico-religiosi Religione, a cura di M. Miegge, Firenze, Sansoni, 1965 (compresa in: “Storia antologica dei problemi filosofici” diretta da U. Spirito), pp. 235-275, qui a p. 248.
[15] J. JACOBI, La psicologia di Carl Gustav Jung (1944 e poi 1971), Torino, Bollati Boringhieri, 1973.