Il mio grande amato Dostoevskij in una fase della sua vita relativamente giovanile fu indotto - dal suo incondizionato amore evangelico del prossimo - ad aderire alla tendenza socialista umanitaria, utopistica, “fourierista”, sia pure limitando la sua azione alla partecipazione a gruppi di lettura e discussione. Il carattere alquanto ingenuo della sua azione non gli risparmiò, tuttavia, l’arresto, la condanna a morte alla fine del 1849 e poi, per grazia del sovrano da annunciare solo un istante prima dell’esecuzione della sentenza, la comminazione di otto anni di detenzione in una colonia penale della Siberia (di cui quattro effettivamente espiati). Prima di essere confinato in quella sorta di ergastolo, poi oggetto del suo straordinario libro Memorie di una casa morta (1861-1862), patì la terribile avventura di una falsa fucilazione da parte dei suoi repressori, che gli fece fare un’esperienza, mai dimenticata, di pre-morte[1], raccontata con qualche variazione di dettaglio più volte, anche in una pagina dell’Idiota (1869), in cui il protagonista, il principe Myskin, parla di un tale che era stato condotto al patibolo e aveva già iniziato a subire la pena, ma poi, all’ultimo istante, era stato graziato, notando che nella fase che precede la nostra dipartita“c’è un punto intorno al quale turbina tutto, come una certezza fuori del tempo”[2].
Tuttavia, se c’è un punto del genere - sia esso lo psicologico, e non necessariamente ontologico[3], “Sé” di cui parla Jung, o sia esso l’ontologico, e necessariamente tale (ossia qualcosa o qualcuno che è simile o assimilabile al Dio che “vivit in interiore homine” di Agostino e certo anche di Dostoevskij), la morale del successo individuale a tutti i costi viene naturalmente relativizzata. Ciò accade sia che essa sia identificata con una “volontà di potenza” di tipo “egoico” oppure con una volontà di arricchimento a qualsiasi costo, il più possibile e quanto più rapidamente possibile. Infatti se c’è il richiamato punto d’infinità “attorno al quale turbina tutto, come una certezza fuori del tempo” - il realizzare la fusione “individuativa”, tra l’Io e il suo punto focale psicologico junghianamente detto Sé, o tra l’Io e il suo punto focale ontologico detto Dio, diventa il compito primario della vita, rispetto al quale volontà di potenza e di volontà di arricchimento di tipo egoico non possono più valere niente e possono anzi essere addirittura una grave remora all’autorealizzazione. Chi sia incentrato nel proprio Sé, in cammino verso di esso o verso il deus interior, potrà essere indotto ad occuparsi quanto serva di cose quali la ricchezza o il potere, come già chiarito dal grande pensatore cristiano protestante Giovanni Calvino, ma per dovere[4], per adempiere alla volontà di Dio manifesta nella sua “vocazione” esistenziale e per il bene del suo prossimo: non per il proprio piacere ed anzi suo malgrado. Ciò potrà andare anche bene alla società, per il disinteresse con cui in tal caso il tipo cui ci riferiamo - orientato a ruotare attorno al punto focale della mente - si darà da fare.
La psicologizzazione del punto focale interiore fa dunque emergere, nel Sé o come Sé, un’immagine del divino, sia essa trascendentale o riflesso di un trascendente corrispettivo, ossia sia essa nell’esperienza e al di là dell’esperienza come le kantiane funzioni a priori di spazio tempo e capacità di pensare razionalmente che organizzano i nostri pensieri ragionevoli (trascendentale, il cui corrispettivo inconscio per Jung sono gli archetipi), oppure sia essa “immagine” archetipica del divino al di là di qualsiasi funzione nostra e intrinsecamente nostra, e per ciò “al di là” dell’esperienza puramente umana in senso forte (e dunque “trascendente”, come sarebbe l’essere infinito ed eterno che pure “abiti” anche in ciascuno di noi). Tuttavia, sia ontologico o psicologico, quel “punto d’infinità”, quel pensante che pensa pensieri che vanno sempre oltre (sin dall’inconscio), è, come minimo, anche immanente, “presente” a priori in noi. “Tange” talmente il nostro pensiero effettivo da dover essere anche “lui” (“il pensante puro”, per noi già inconscio). E del resto l’essere stato, per il mito cristiano, Gesù Cristo “vero Dio”, ma anche “vero uomo”, vorrà pur dire qualcosa in termini d’immanenza oltre che di trascendenza del divino. Gesù, rispondendo agli ebrei scandalizzati del suo dichiarato teomorfismo, chiese loro se non ricordassero il passaggio biblico in cui si diceva: “Voi siete dèi”[5]. In buona sostanza quel punto d’infinità sottende, come direbbe Panikkar, una realtà “cosmoteandrica”, ossia un universo inteso come unità tendenzialmente armonica o unitaria (kòsmos), come dio (theòs) e come uomo (anèr, andròs) al tempo stesso[6].
Quel punto focale della mente, essendo totalizzante in sommo grado, è anche un quid o quis[7] tutto comprendente, o volto a comprendere tutto, e per ciò è - come dicevano i Greci dell’era classica, ripresi all’inizio del XIX secolo dai romantici - “uno e tutto” (èn kài pàn), o meglio “uno e tutti” (èn kài pàntes) come preferiva dire Aldo Capitini[8]. Quel punto infinito, insomma, non è tanto “l’anima” quanto quello che i cristiani chiamano “Spirito” (“Dio”, in tal caso come terza persona della Trinità: un che di sovrapersonale infinito che è tutti noi, al di là di quel che c’è in noi, anche intimamente, di meramente individuale): nel senso che si apre a tutto il mondo-uno, o addirittura lo comprende in se stesso, costituendone o una miniaturizzazione viva a sé stante, e però unica e inconfondibile, ossia un microcosmo, o comunque il momento di interconnessione, quasi come il cordone ombelicale con la madre, immaginato, nel suo essere psicologico, come tale da unire essere ed essere. Ciò si concilia solo con visioni morali che valgano per tutti, e per ciò non si concilia con la pseudomorale del potere o della ricchezza di genere personale da ottenere a tutti costi. Il bene, come la verità, vale e deve valere per l’intersoggettività. Se non sottende il comunismo, sottende certamente il “comunionismo”, o un comunitarismo radicale, già in interiore homine. Questo è il dato filosofico e l’istanza psicologica da non perdere di vista.
Ugualmente non-morale, nel senso di non-umana, se umano è quel che è a tutti comune (gli umani e forse anche tutte le specie viventi), è la “logica” che secondo il grande politologo Carl Schmitt sarebbe propria della politica in sé e per sé, ossia la relazione amicus-hostis, amico-nemico, tipicamente polemologica (ricavata dal guerreggiare), secondo la quale fare politica significherebbe avere un nemico da combattere. Non sarebbe infatti vera, secondo Schmitt, la ben nota sentenza del massimo teorico della strategia militare, von Clausewitz, per cui la guerra sarebbe la continuazione della politica con altri mezzi. Sarebbe invece la politica, secondo Schmitt, ad essere la continuazione della guerra con altri mezzi: il che fa poi della “decisione in stato d’eccezione”, o di emergenza, la vera politica (“decisionista”), su cui poi molti altri tireranno magari a campare per anni e anni, in condizioni “normali” (“di norma”, legali), dimenticandone l’origine tutta volontaristica o addirittura arbitraria[9]. Invece - contro Schmitt e consorti, in tal caso compreso Marx, il quale aveva trasferito la dimensione polemologica nella relazione di lotta tra le classi - ritengo che la politica sia la realizzazione o salvaguardia o continuazione della pace, e che la guerra per contro sia “antifysis”, ossia contro natura: contro il carattere conviviale dell’essere nel mondo, contro il principio di inerenza del tutto e di tutti in ciascuno, che in fondo ci fa essere parti di un unico essere vivente. Infatti persino nella storia la guerra non è la normalità, ma l’eccezione, come notava Gandhi[10], il vero oppositore di ogni visione polemologica.
La morale che consegue a questa presenza del punto o simbolo d’infinità in noi, Sé o Deus interior (maiuscolo o minuscolo, deus o dèi, o semplicemente “il divino” che esso sia), è anche l’opposto del familismo. Contraddice ogni separatezza “vera”, non meramente funzionale, tra esseri umani e tra viventi in generale. Il familismo - il ritenere che quelli da favorire, in qualsiasi caso, se lo meritino o meno e sia ciò giusto o sbagliato, legale o semilegale o al limite illegale - siano quelli del proprio sangue, o addirittura la famiglia allargata, o persino artificiale (mafiosa) - oppone la parte al tutto. Fa della “morale” qualcosa che non vale per tutti ( intersoggettivo), ma solo per la parte di cui ci si senta padri o madri o figli o figlie o fratelli o sorelle, o qualcosa di equipollente, sorto non a caso in un humus sociale familistico. Il tutto (o “tutti”) invece va ritenuto superiore ed anche anteriore alla parte (anche mia), e addirittura preesistente, già nel nostro essere più profondo, se siamo un po’ coscienti. Questo, com’è noto, è un punto decisivo per noi latini e in specie meridionali (quasi un vizio nazionale secondo alcuni grandi storici[11]). Da questi latini e meridionali, infatti, tanto i difensori irriducibili quanto i compagni di lotta sono individuati in primo luogo, e spesso quasi soltanto, “in famiglia” (o in qualcosa di più largo che pretenda di mimetizzarla, nelle consorterie criminali o nelle sette o movimenti settari: certo alla ricerca di un sostituto dello Stato, in o per tutti tali ambiti troppo debole o squalificato: il che però dà luogo, anche a prescindere dal familismo mafioso e restando al semplice far causa comune a tutti i costi con i parenti e con loro soltanto (o con i compagni o camerati di setta), ad un circolo vizioso subdolo, che da un lato è reso possibile appunto dall’assenza o carenza o impotenza dello Stato vero e proprio, capace di far rispettare normalmente le regole comuni sul territorio; dall’altro dall’impedire ad esso Stato di venir fuori svolgendo davvero quanto serva tale ruolo di potenza costrittiva della legge: impedimento che ha a che fare con la vasta e capillare rete di relazioni privatistiche invece che “pubblicistiche”, rete che si pone apertamente o di fatto in contrasto con la sovranità necessariamente esclusiva dello Stato. Ma in tali casi “familistici” e di statalità debole o troppo debole, che naturalmente sono presenti anche “al nord” ovunque lo Stato anche molto democraticamente inteso decada, fa difetto anche il deus interior, ossia la coscienza che c’è un “uno tutto” e “uno tutti” in ciascuno di noi; che c’è qualcosa che va al di là della propria fragile particolarità, sia pure una fragile particolarità che ha anche una sua bellezza perché porta i tanti che sentano le cose a quel modo, aderendo alla vita come se fossero ostriche attaccate alla roccia, a non sentirsi elementi di un tutto o tutti (a parte la famiglia, che è quasi una prosecuzione della propria particolarità o contingentia mundi), e però anche a vivere con tutto se stessi la loro vitalità qui ed ora, come se tutto dovesse cominciare o finire con loro stessi e i loro più simili. A quest’intersoggettività, o “uno-tutti”, il familista non crede mai, non già e non tanto per laicismo irriducibile (spesso è devoto di santi o madonne e comunque è frequentemente superstizioso), ma per una sua concezione - latente o manifesta - che lo porta a vedere il divino, l’infinito, o se si vuole il senso dell’infinito, al di là di se stesso: non veramente in interiore homine, insomma in se stesso e in un se stesso onnicomprensivo), ma come un Dio sempre troppo trascendente, com’è nella tradizione monoteistica più ortodossa (un Dio staccato dall’umano insomma), oppure come una dimensione istituzionalizzata, monopolizzata da una chiesa che ne sia custode, invece di essere appunto un Dio che abiti nell’intimità di ciascuno, e di ciascuno a suo modo, accessibile tramite libero esame di testi sacri ed autodialogo con sé stessi com’è almeno nelle tradizioni protestanti o - se si vuole - in un cristianesimo anche cattolico non dimentico della lezione del protestantesimo o di quel che “in esso” sia andato in tale direzione: cattolicesimo che però, comunque, trova un suo limite nella delega dell’interpretazione e fruizione della parola di Dio a un corpo separato (clero “sacerdotale”) e a un papa. Ma qui quel che a me interessa non è certo il Dio trascendente, bensì l’infinità, empatia ed unione degli esseri nell’essere, di cui ogni religione è al tempo stesso espressione, surrogato e “sottomarca” storica.
( franco.livorsi@unimi.it )
[1] F. DOSTOEVSKIJ, Memorie di una casamortai (1861-1862), Trad. di A. Polledro e Introduzione di E. Bazzarelli, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 2004.
[2] Per l’episodio della partecipazione al gruppo fourierista, la condanna e la falsa esecuzione, si veda: P. PASCAL, Dostoevskij: l’uomo e l’opera (1979), Torino, Einaudi, 1987, pp. 54-83. F. DOSTOEVSKIJ, L’idiota (1869), Traduzione e cura di G. Pacini, Milano, Feltrinelli, 1973. Si vedano le pagg. 46-49 e 99-101.Ma l’espressione esatta sull’ultimo istante l’ho tratta dall’edizione Milano, Biblioteca Moderna Mondadori, 1959.
[3] Per il lettore “medio”, non necessariamente iniziato ad alcun testo filosofico nella sua vita, preciso che il termine “ontologia” significa conoscenza dell’”essere”, cioè della realtà considerata in sé e per sé, sia che l’essere sia inteso come puro spirito o Dio o la materia o il pensiero puro (a seconda della propria filosofia). On, in greco antico, corrisponde al “quid” latino (“ciò che ”, appunto “l’essere”); la parola al genitivo fa òntos (“di ciò che”, ossia “dell’essere”). Il lògos è la parola o discorso, ma anche la ratio o conoscenza razionale.
[4] G. CALVINO, Istituzione della religione cristiana, a cura di G. Tourn, Torino UTET, 1971, due volumi; ma si vedano i passaggi in proposito citati in: G. ALBERIGO, La Riforma protestante, Milano, Garzanti, 1959, pp. 239-240.
[5] Nel Vangelo secondo Giovanni, 11/2/30-34 Gesù sta per essere lapidato per aver detto: “Io e il Padre siamo una cosa sola”: il che per gli ebrei era una terribile bestemmia. “Rispose loro Gesù: ‘Non è forse scritto nella vostra Legge: ‘Io ho detto: voi siete dèi’?”, in: La Bibbia di Gerusalemme, Rdizioni Dehoniane Bologna, 1985, p. 2293.
[6] R. PANIKKAR, La realtà cosmo teandrica (1993), Milano, Jaca Book, 2004.
[7] Quid, sta per “che cosa?” e quis per “chi?”, nel senso che la dimensione d’infinità interiore può essere intesa come una funzione o realtà impersonale, ossia come una qualità della o nella psiche (un “quid”), oppure come dio in senso personale, o immagine del dio personale, in noi (quis).
[8] In proposito si vedano: A. CAPITINI, Il potere di tutti; Introduzione di N. Bobbio e Pref. di P. Pinna, Firenze, La Nuova Italia, 1969.
[9] Su ciò resta fondamentale: C. SCHMITT, Le categorie del politico: saggi di teoria politica, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Bologna, Il Mulino 1972. Il riferimento specifico è al saggio del 1927 Il concetto del politico. Ma su tale tema si veda pure: ID., Teoria del partigiano: integrazione al concetto di politico (1963), con un saggio di F. Volpi, Milano, Adelphi, 2005.
Si approfondisca soprattutto attraverso: C. GALLI, Genealogia della politica: Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Bologna, Il Mulino 1996.
[10] M.K. GANDHI, Teoria e pratica della non-violenza, a cura e con un saggio introduttivo di G. Pontara, Torino, Einaudi, 1973. Il riferimento specifico è alle p. 65. Rinvio pure alle pagg. su Gandhi in: F. LIVORSI, Coscienza e politica nella storia. Le motivazioni dell’azione collettiva nel pensiero politico contemporaneo, Torino, Giappichelli, 2003, pp. 389-396.
[11] Questo è uno dei temi trattati nella notevole opera: P. GINSBORG, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Torino, Einaudi, 1989.