La morale, nella mia visuale, si basa sul senso dell’infinito interiorizzato, in quanto esso ci fa sentire empaticamente legati come umani tra gli umani ed esseri nell’”essere” (maiuscolo o anche “minuscolo”, cioè Dio o immagine del divino a priori nella psiche). Ciò può rendere utile una qualche precisazione su alcuni punti centrali della fede cristiana: una loro rivisitazione nell’ottica or ora richiamata. Un tema centrale è quello dell’amore del prossimo - posto da Gesù Cristo come qualcosa di incondizionato - come per se stessi. Da ragazzi ci veniva spiegato che ciò era detto non essendo immaginabile un amore superiore a quello che ciascuno ha per sé. Ma a me pare che anche se in senso corrente, buono per tutti, il principio può anche esser letto così, esso abbia un senso più profondo, volto a farci capire che “l’altro” è un nostro doppio. In qualche modo l’altro siamo noi. Lo dobbiamo amare come noi stessi, persino nei rari e un po’ mefistofelici casi in cui egli si ponga come mister Hyde rispetto al dottor Jekill (come ci ha insegnato Dostoevskij col suo porsi sempre, nei suoi romanzi, come advocatus diaboli apud Deum[1]), perché in effetti egli è in noi e noi siamo in lui. In ciascuno di noi c’è qualcosa di intersoggettivo che fa sì che l’Io e il Tu coincidano a priori, prima che l’Io si formi e quando si sia già formato (per lo più cercando di farci dimenticare il “comunionismo” interiore). Questo per me si lega assai bene appunto a due passaggi fondamentali del Vangelo. Il primo, cui ho già accennato, è quello sul più “grande comandamento”, che Gesù dice essere duplice, ma in modo tale da dar luogo a un comandamento che è “quasi uno solo”, nel senso che il secondo è detto “simile” al primo: l’amore con tutto se stesso per Dio e quello per il prossimo come per se stessi[2]. Infatti è perché Deus est in nobis, o perché tutta la nostra mente è raccolta in un punto d’infinità o tendente all’infinità o immagine dell’infinità junghianamente detto Sé, che possiamo amare il prossimo: in quanto egli - ci piaccia o non ci piaccia - è già ab ovo in noi, nel nostro infinito mentale, realmente o virtualmente o potenzialmente onnicomprensivo (compreso il suo lato “più oscuro”). Gli posso “voler bene” come voglio bene alla “Vita”, o al “Vivente” in cui essa si raccoglie o trova il suo radicale. Insomma, la base di tutto, di ogni empatia, è l’interconnessione; è il sapere e soprattutto sentire che la vita è in noi e noi nella vita, e che siccome è una essa è il Vivente. Si tratta di un’acquisizione immensa e semplicissima al tempo stesso. Ciascuno è in se stesso tutti gli altri, umani e forse viventi, e per ciò se vuole davvero il suo bene deve volere anche il loro, e se non vuole il loro non vuole neanche il proprio, si fa male. La pienezza della sua umanità consiste in questo: nell’essere se stesso andando oltre se stesso, e viceversa.
Quest’impostazione può apparire la stessa della morale illuministica, e soprattutto kantiana (della Critica della ragion pratica), ma in realtà diverge da essa su un punto assolutamente decisivo. Può sembrare la stessa perché è quasi una religione dell’Umanità e perché vede la divinità come essere caratterizzato dalla pura conformità alla ragione al di là di tutte le religioni “rivelate” o credenze magiche (razionalizzazione del Sacro che dagli illuministi, massoni o meno, era chiamato “deismo”[3]). Può, insomma, presentarsi come conforme al Kant della Critica della ragion pratica (1787) perché considera morale agire per tutta l’umanità (alias intersoggettività, che è l’universalmente umano cui abbiamo accesso). L’impostazione - proprio come in Kant - porta poi a vedere ogni membro dell’umanità, in quanto è elemento dell’intersoggettività che siamo già intimamente, e per cui dobbiamo agire per essere “virtuosi”, come fine e mai come mezzo[4].
Tuttavia la visuale qui proposta è in realtà profondamente diversa da quella kantiana su un punto decisivo. In primo luogo è differente perché è “irrazionalistica”, nel senso che quello che ci lega e può legarci agli altri in una relazione di coappartenenza umana non è un giudizio della ragione che s’imponga a tutti in quanto tale (un ideale razionale), a dispetto - per Kant – degli impulsi sensibili, o animaleschi, in sé amorali; piuttosto è un sentimento profondo di coappartenenza, davvero esistenziale[5] nel senso di Kierkegaard e Heidegger, ad uno stesso essere, che può essere inteso come Dio o Natura (maiuscoli o “minuscoli”), ma che è comunque alla prima radice di ciascuno di noi, come spontaneo impulso empatico e di simbiosi con gli altri. L’inconscio, insomma, viene prima della coscienza, per cui o esso alla prima radice è al tempo stesso “animale” e “dio” (irrazionale e preter-razionale), anzi animalità sociale e apertura all’infinito, oppure ogni moralità diventa gratuita e per ciò, generalmente e salvo eccezioni, impossibile.
Inoltre nell’impostazione illuministica - di cui la teoria di Kant è la più alta espressione, ispiratrice delle più avanzate teorie etiche sino ai nostri giorni, da quelle di Juvalta a quelle recenti del Rawls[6] - non è la moralità a dipendere dalla religiosità, ma è la religiosità a dipendere dalla moralità. La religiosità, nell’impostazione caratteristica dell’illuminismo o del neoilluminismo, può fare irruzione o meno, ma come conseguenza della morale razionale vissuta. Kant, ad esempio, diceva che quando attuiamo veramente e continuativamente una vita morale, ossia per tutti e per ciascuno, e senza secondi fini ma per puro senso del dovere verso tutti i nostri simili e verso ciascuno di essi, allora, e solo allora, comprendiamo che siamo più che animali, più che biologici, perché tocchiamo con mano, in quel caso, che la nostra individuale ragion pratica può andare oltre ogni sensorialità; ci percepiamo insomma, allora, come esseri spirituali; anzi, ne acquistiamo la certezza psicologica (in quanto siamo del tutto morali). Ma siccome quest’essere morali ha bisogno, per sentire perfetta la propria azione, non solo di essere giusto (virtuoso), ma anche di essere altrettanto - ossia pienamente - felice, esso deve proiettarsi, per giungere a compimento, oltre la vita; abbisogna insomma di qualcosa di simile al paradiso, in modo da sintetizzare virtù e felicità in una “vita beata” (detta “sommo bene”). Naturalmente gli illuministi pensavano - e Kant, tra loro, riteneva - che su tale strada - pur tra mille difficoltà e contraddizioni - fosse avviata la stessa umanità, che organizzandosi in modo via via più ampio dal villaggio del neolitico a oggi, un giorno avrebbe unificato in uno Stato di Stati “di diritto” tutti gli Stati “di diritto” del mondo. Avrebbe insomma fatto uno Stato di Stati sempre più ampio, Stato di Stati possibile però solo tra Stati dominati dalla legge e non dall’arbitrio di un governo e fondati sulla divisione dei poteri. Tali Stati di diritto erano da lui detti “repubbliche”, anche se erano o fossero o fossero stati delle monarchie. Così sostenne in Per la pace perpetua (1795)[7]. E già i diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, votati dai rivoluzionari francesi, parvero - e così seguitarono a parere - a Kant il corrispettivo della sua etica valida per tutti e per ciascuno posto a base di principi politici vincolanti, proclamati per la Francia e per il mondo[8].
Tuttavia la moralità intersoggettiva, o almeno tendenzialmente tale, per quella via non è affatto arrivata. Oggi siamo certo tutti un po’ più ricchi e persino longevi di un tempo, almeno nella vecchia Europa e in America, ma certo siamo addirittura più disposti che un tempo a violare più o meno tutti i dieci famosi cosiddetti comandamenti, e siamo pure pronti a far strame dei principi morali razionali di Kant. Si può anche riconoscere che una piccola frazione dell’umanità può riuscire ad essere morale, nel senso di capace di azione intersoggettiva o altruistica in modo normale e non eccezionale, e in una forma tale da impegnare tutta la vita, e non solo in maniera caritativa episodica: senza aver bisogno di alcuna fede religiosa nell’infinito e nell’eterno e persino negandola formalmente o pervicacemente; ma per l’immensa maggioranza dell’umanità non è così.
Kant, in Per la pace perpetua, si era studiato di definire tanto le norme permanenti del politico che segua la morale, o “politico-morale”, quanto le norme, pseudomorali, del politico che faccia della necessità o utilità o interesse politico immediato, diciamo pure del potere, il “bene”: politico da lui detto “moralista politico” (nel senso che il suo mos, o atteggiamento, o norma di condotta, è la politica intesa come arte “machiavellica” del conquistare o mantenere il potere). Il “politico morale”, per contro, è identificato con quello che subordini la politica alla morale (quella intersoggettiva di cui si è detto). Il “moralista politico è quello che si attiene a massime pseudo morali, sua “vera” morale, del seguente tipo: 1) Face et excusa: un po’ - per dirla a modo nostro - come quei tali che quando eravamo piccoli prima ti picchiavano e poi ti dicevano, tutti compunti e stupiti: “Ti ho fato male? - Quanto mi dispiace. Non l’ho fatto apposta. Volevo solo scherzare e giocare un poco con te. Ma tu perché non ti sei spostato?”; 2) “Si fecisti, nega”. Insomma, tira il sasso e nascondi la mano. Il riferimento va a quelli che agiscono come quei tali uomini politici colti in flagrante mentre aiutavano questo o quel mafioso, che però riuscivano a negare la loro appartenenza alla mafia, e così seguitavano a comandare come “onorati” cittadini, oppure a quegli assassini che avendo lasciato tracce di sé sul delitto riescono a far credere che al momento del crimine erano da un’altra parte; 3) “Divide et impera”, ossia se vuoi il potere impara a dividere tra loro i nemici, a farli litigare, alleandoti alternativamente con l’uno o con l’altro o sostenendone l’azione a tale scopo, oppure a fare così tra i tuoi stessi collaboratori, che più litigano tra loro e meno possono contrapporsi a te. Com’è noto questa era la norma di quei grandi dominatori di popoli che erano stati gli antichi romani.
Ma come non vedere che come le norme effettivamente morali, ossia intersoggettive, valgono vuoi nella vita privata che in quella pubblica, così capita pure per quelle psudomorali?
Si è partiti con la “logica” machiavellica del porre le istanze della “politica” (le ragioni del potere, che poi in “economia” diventano quelle dell’arricchimento), come qualcosa di autonomo e di superiore alle norme della morale e della religione (col Machiavelli de Il Principe, scritto nel 1512 ma edito postumo nel 1532, che già enfatizza, in forma personalistica o “interpersonalistica” le ragioni dello Stato). Si è proseguito, in fase di dominio borghese di genere aurorale, teorizzando la “logica” dei “vizi privati, pubbliche virtù”, secondo la quale l’egoismo può ben stimolare l’arricchimento dei singoli, e “quindi” della società (Mandeville, La favola delle api, del 1714)[9].Questa per la verità non era la linea principale né illuministica né kantiana. Ma perché quella principale non è prevalsa? Perché la pseudomorale di cui si è detto è risultata più forte della morale?
Perché - ancora - si può quasi porre una linea divisoria tra moralità media dei paesi nordici e scarsa “moralità” degli altri? E perché l’anomia, il dispregio della legge o norma morale, il culto di Mammona, alias del far più soldi e avere più potere possibile come singoli e a qualsiasi prezzo, sono socialmente trionfati?
- Ciò è accaduto perché la moralità diffusa - nel senso di unione o addirittura simbiosi vissuta con l’intersoggettività - abbisogna di un suo dio, trascendente o immanente, o anche immanente, che esso sia.
Se Gesù Cristo fosse stato illuminista o kantiano, interrogato sul più grande comandamento avrebbe detto: “Ama il prossimo tuo come te stesso” e allora amerai anche Dio. Anzi, avrebbe detto: “Lo ami tu o meno, agisci per gli altri come fai per te stesso e allora amerai o conoscerai anche Dio”. E in effetti talora è parso dire così, quando ha affermato che chiunque avesse fatto del bene a un povero e sofferente l’avrebbe fatto a lui[10], ma la spiegazione più profonda è quella che dà dove parla appunto del comandamento fondamentale, in cui stabilisce che avant tout c’è l’amore di Dio con tutta l’anima e come seconda istanza, che è “quasi” la stessa cosa”, c’è l’amore del prossimo come per se stessi. Insomma, detto più laicamente (ma non troppo), solo se percepisco, sento, capisco o credo che in me vi sia il punto d’infinità di cui ho detto, l’uno-tutto e uno-tutti, come realtà o istanza psicologico-antropologica, o psicologico-ontologica, posso sentire una vera empatia con gli altri esseri umani e via via con tutti i viventi, quantomeno come specie di cui prendermi cura se non proprio come singoli. Posso anche percepire la cosa laicamente, sentendomi parte di un genere umano o addirittura di un Vivente, così come sento il mio dito come parte del mio corpo; ma bisogna che la coappartenenza degli esseri nell’essere, o all’essere, sia “vissuta” e abbia una base in me. La cosa deve connettersi all’”essere”: minuscolo o maiuscolo, o minuscolo e maiuscolo che esso sia; altrimenti “non funziona”. In sostanza la logica della secolarizzazione, persino in molti “credenti” (forse anche in Bonhoeffer[11]) implica che si debba vivere “come se Dio non esistesse”, seppure facendogli pure spazio nell’interiorità, intendendolo come “l’Altro” irriducibile al mondano e alla sua solita pseudomorale umana troppo umana. A mio parere, per contro, bisognerebbe vivere “come se Dio esistesse”, o meglio come se “il divino”, o meglio ancora “il sacro”, o lo “spirituale”, esistessero. Così si può essere morali a livello anche di vaste collettività. Ciò ha pure conseguenze “politiche” non piccole. Ma ne parlerò in altra sede.
( franco.livorsi@unimi.it )
[1] Si veda innanzitutto: R. L. STEVENSON, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde (1884), Trad. di R. Prinzhofer, Milano, Mursia, 1990, piccolo straordinario capolavoro, non a caso occasionato da un grande sogno, sul tema del “doppio”. L’amorale Hyde creato dallo scienziato è evidentemente la sua “Ombra”, un se stesso alla rovescia.
Per il tema indicato come filo conduttore dell’opera di Dostoevskij si veda: P. PASCAL, Dostoevskij, l’uomo e l’opera, Torino, Einaudi, 1987. Rinvio pure a: F. LIVORSI, Archetipi del padre in “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij, in: “Il Padre. Parola, Silenzio, Trasformazione”, Atti dell’XI Convegno Nazionale del Centro Italiano di Psicologia Analitica, Milano, Vivarium, 2002, pp. 45-72. Dostoevskij si pone come “avvocato del diavolo presso Dio” nel senso che si cala dentro la psicologia di chi commetta il male, nelle opere e nel pensiero (dal crimine all’abominio), comprendendolo per quanto possibile, quasi fosse il male suo proprio: non però con compiacimento verso la perversione umana, ma in vista della sua redenzione, per quanto questa possa essere spesso impossibile (ma non sempre e nemmeno in rari casi). Sembra quasi che lo scrittore cerchi di vedere tutte le ragioni del male e dell’abominio, o meglio di chi l’abbia commesso o vi indulga, pur ponendosi dal punto di vista del dio dell’amore, dell’uomo-dio, del Cristo come fratello buono dell’uomo anche più degradato, che egli vorrebbe salvare e non giudicare. L’uomo va redento, ma non vanno mai dimenticati gli abissi dell’animo umano, che sono tali anche nei migliori, nei più prossimi al “Salvatore”. E chi non lo capisce è un filisteo.
[2] MATTEO, 22, 34/40, in: Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 1985, pp. 2137-2138..
[3] Si veda: C. MOTZO DENTICE di ACCADIA (Introduzione e cura), Preilluminismo e deismo in Inghilterra, Napoli, Libreria Scientifica Editrice.
[4] I. KANT, Critica della ragion pratica, cit.
[5] In Kant l’imperativo categorico s’impone non in quanto sentimento o passione morale, ma in quanto comandamento razionale assoluto valido per tutti gli uomini. Non sorge dunque da empatia, ma da razionalità che è presente innoi come senso del dovere. In Kierkegaard e negli esistenzialisti, specie in Heidegger (perché ciò presuppone soprattutto la fenomenologia di Husserl), si danno sentimeni “esistenziali”, ossia presenti nell’esistenza di ogni essere umano (antropologicamente). Così erano i sentimenti della disperazione e dell’angoscia in Kierkegaard. Heidegger, per parte sua, distingue tra quello che nell’uomo è “esistenziale” (dell’essere umano in senso antropologico) e quello che in lui è “esistentivo”, ossia relativo non tanto al singolo, che è sempre al centro, ma a un tratto suo che non è presente in tutti. Per questi aspetti si rinvia a: S. KIERKEGAARD, La malattia mortale (1849), Firenze, Sansoni, 1965, sul sentimento rivelativo della disperazione, come perdita della speranza in se stessi, e Il concetto dell’angoscia (1844), ivi, 1965, in cui l’angoscia è il sentimento del possibile, inteso come possibilità destinata allo scacco; M. HEIDEGGER, Essere e tempo (1927), Torino, UTET, 1978.
[6] E. JUVALTA, Prolegomeni a una morale distinta dalla metafisica, Pavia, Tipografia Bizzoni, 1901; ID., I limiti del razionalismo etico, Torino, Einaudi, 1945. Juvalta era un neokantiano. Su terreno analogo sono le opere di J. RAWLS, La giustizia come equità: saggi 1951-1969, Napoli, Liguori, 1995; Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, 1984; Lezioni di storia della filosofia morale, Feltrinelli, 2004.
[7] I. KANT, Per la pace perpetua (1795), a cura di N. Merker, Prefazione di N. Bobbio, Roma, Editori Riuniti, 1992. Si veda pure: F. LIVORSI, Pace perpetua e unione mondiale, in: “Stati e Federazioni. Interpretazioni del federalismo”, a cura e con Introduzione di E. A. Albertoni, Milano, Eured, 1998, pp. 3-31.
[8] E. CASSIRER, Vita e dottrina di Kant (1921), Firenze, La Nuova Italia, 1977.
[9] B. MANDEVILLE, La favola delle api, ovvero vizi privati, pubblici benefici: con un saggio sulla carità e le scuole di carità e un’indagine sulla natura della società (1714), Trad. di T. Magri e M. E. Scribano, Roma-Bari, Laterza, 2002.
[10] MATTEO, 25, 37 (31-46). Si tratta di un brano sul giudizio universale, in: La Bibbia di Gerusalemme, cit., pp. 2145-2146.
[11] D. BONHOEFFER, Etica (1949), trad. di A. Comba e introduzione di I. Mancini, Milano, Bompiani, 1969. Ma si vea, più in generale: ID., Resistenza e resa. Lettere e abbozzi dal carcere (1943-1944, ma postumo, 1951 e poi 1966 a cura di E. Bethge, traduzione di S. Bologna e Introduzione di I. Mancini, Milano, Bompiani, 1969.