Vorrei proporre alcune annotazioni di lettura su un’opera molto famosa e importante del mondo tardo antico, intesa dal grande esponente del Rinascimento italiano fiorentino del XV secolo, Marsilio Ficino - che la riscoprì e tradusse dal greco e, per la parte che era in tale lingua, la ripropose in latino - “ispirata quanto la Bibbia”: il “Corpus Hermeticum”[1].Il testo, famoso nel mondo tardo antico e poi all’aurora richiamata del Rinascimento, fu poi ben presto ridicolizzato e criminalizzato nel clima della Riforma calvinista e della Controriforma, e valorizzato all’estremo solo da sette iniziatiche moderne successive, dal XVIII secolo in poi, quali la Massoneria. Ma esso ritorna ciclicamente nella nostra cultura. Proprio in questi giorni ne è stato riproposto il I volume, in una nuova traduzione certo filologicamente impeccabile, con ampia introduzione, essa pure con testo greco - e per un libro latino - a fronte, a cura di Paolo Scarpi[2], per la Fondazione Valla e Mondadori Editore, a Milano. Io, però, mi avvarrò dell’edizione della Schiavone, in quanto è quella recente di tipo integrale.
Si tratta di un insieme di piccoli trattati - diciotto in greco e uno in latino - scritti negli ultimi secoli dell’impero romano, nel contesto cultuale greco-egizio proprio della civiltà alessandrina, nel quadro dei culti iniziatici tardo antichi infine travolti dal cristianesimo, ma a lungo suoi concorrenti su un terreno contiguo. Si era dunque intorno al III secolo dopo Cristo. I testi erano devotamente attribuiti a Toth, dagli autori anonimi greci identificato con Hermes (alias Mercurio) “trismegisto”, ossia tre volte méghistos, ossia “grandissimo”. Con ciò si voleva segnalare il carattere di libro che si pretendeva fosse stato dettato o ispirato da un grande dio come Hermes, messaggero del primo Dio (ormai visto neoplatonicamente come l’Uno).
Il tema centrale sembra essere quello della latente divinità dell’essere umano, fatto qui pure - certo anche con echi greco-ebraici biblici - “a immagine e somiglianza” di Dio, però con una radicalità d’identificazione tra figlio dell’uomo e figlio di Dio - per usare un linguaggio evangelico - inimmaginabile nel contesto ebraico-cristiano: contesto cristiano in cui, per contro, il rifiuto di identificare trascendenza e immanenza, essere ed esistente, infinito e finito, eterno e temporale, era e sarebbe sempre stato più o meno costante, seppure con diverse accentuazioni (meno nette nel IV Vangelo e nella teoria del “corpo mistico” di San Paolo[3]). Qui invece Dio è, ed è detto chiaramente più volte, “uno e tutto” (én kài pàn). Solo che tale identità, che c’è pure tra Dio e Natura, potrebbe farsi manifesta solo nell’uomo (com’è detto nel I trattatello, Poimandres[4]). Il tratto forte, che è pure decisivo nelle Enneadi (III secolo) di Plotino[5], è quello della visione mistica, con “ritorno” (pàrodos) all’Uno. Al proposito nel Corpus hermeticum, nel IV trattatello, Discorso di Ermes a Tat: il cratere o la monade, è detto: “Elevatisi a tali altezze, (i contemplanti) hanno visto il bene e, avendolo visto, considerano una sventura la dimora di quaggiù. Disprezzati quindi tutti gli esseri corporei e incorporei, si affrettano verso l’Uno e Solo.”[6] Insomma, il perno è la gnosi in senso etimologico, ossia come “Conoscenza” (ma nel senso di “conoscenza”, e diretta “conoscibilità, “di Dio”), tramite intuizione empatica, visione, contatto e immersione in Lui. Sicché nel XIII trattatello, Discorso segreto della montagna di Ermete Trismegisto al figlio Tat sulla rigenerazione e la regola del silenzio, è detto: “Questa è la rigenerazione, figlio mio: non rappresentarsi più le cose come corpi a tre dimensioni …”[7]. Infatti l’insight, l’illuminazione o estasi consentirebbe di vedere “il cratere” che contiene tutto il liquido (materia) dell’universo, ossia tutte le cose, tutti gli esseri: sino a cogliere l’essere dell’essere, il presupposto del tutto che contiene tutto, la matrice eterna dei viventi, l’ Uno indiviso, l’assoluta “monade” (“unità”). E’ detto chiaramente nel citato Discorso di Ermes a Tat, laddove si afferma: “Questa è dunque, o Tat, l’immagine di Dio che ho fatto del mio meglio per descriverti; se la contemplerai attentamente e la comprenderai con gli occhi del cuore, credimi, o figlio, troverai la strada per le cose di lassù. O meglio, è l’immagine stessa che ti mostrerà la via; infatti la contemplazione ha una peculiarità: come si dice che la calamita fa col ferro, anch’essa afferra e attira a sé coloro che già una volta hanno contemplato.”[8] Emerge con nettezza il tema dell’”immagine” mentale che mostra la via, ossia si ha la scoperta (o pre-scoperta) della dimensione archetipica (si direbbe in linguaggio psicologico analitico[9]); si ha insomma l’esperienza interiore, che vale come prova “per chi la prova”, come un punto di non ritorno.
A questo svelamento dell’immagine del dio Uno-Tutto ed Uno-Tutti (come lo direbbe con spirito analogo Aldo Capitini[10]), fa da schermo “l’ignoranza” - ovviamente in senso interiore e non nel significato di mera disinformazione - proprio come nella teoria socratico-platonica dell’intellettualismo etico, per la quale il male si fa perché non si vede il bene, dal momento che se lo si vedesse non lo si farebbe di certo (com’è affermato praticamente in tutti i dialoghi di Platone, nel IV secolo a.C.[11]). Tale concetto è evocato, con parole ispirate, nel Corpus hermeticum, nel VII trattatello, Il male più grande tra gli uomini è l’ignoranza su Dio, in cui è detto: “Dove correte, o uomini, ubriachi per aver tracannato puro il vino dell’ignoranza, sì che nemmeno potete sopportarlo, e già lo state vomitando? Tornate sobri, smettetela! Alzate lo sguardo con gli occhi del cuore, e se non tutti voi potete, lo facciano almeno quelli che possono. Giacché il male dell’ignoranza sommerge tutta la terra e rovina l’anima imprigionata nel corpo, senza lasciarla approdare al porto della salvezza.”[12] Il tratto innovativo è che qui il “vincolo della perdizione”, identificato con l’ignoranza (direi appunto in senso antropologico, ossia come cecità mentale), è evocato in termini molto psicologici e quasi onirici, che fanno pensare all’Ombra in Jung, tanto che tale “vincolo” è detto “il ladro che abita in casa tua, colui che ti odia per le cose che ama e ti invidia per le cose che odia”.
Comunque nel Corpus hermeticum la visione di Dio, o Uno, è il perno di tutto, con un approccio che accentua tanto la trascendenza quanto l’immanenza dell’Essere: nella natura e soprattutto in noi stessi. Ci sono dei punti quasi sovrapponibili alla Bagavàd Gità - il maggior testo sacro dell’induismo, del II secolo d.C.[13], - evidentemente per affinità concettuale. Lo si nota quando, in Corpus hermeticum, nel trattatello II A, Da Ermete a Tat: discorso universale - pur giunto a noi in forma lacunosa - è detto che Dio “è ciò che è dentro il corpo, e non il corpo stesso, che muove l’essere inanimato e che muove entrambi: il corpo di quello che porta e il corpo di quello che è portato.”[14] Qui penso al passaggio in cui nella Gità Krishna, “il Beato”, diceva che Lui non era in nessuna delle entità create, ma che tutte erano in Lui. Ma vale pure sul tema della morte detta inesistente: qui nel trattatello VIII significativamente intitolato Nessuno degli esseri perisce ed erra chi definisce i cambiamenti distruzioni e morti, “giacché - è detto nel trattatello citato[15] - se il mondo è secondo dio e vivente immortale, non è possibile che una parte di questo vivente immortale muoia”. E ciò è ancor meglio evidenziato laddove è detto: “E mai verrà un tempo in cui qualcuno degli enti sarà abbandonato.”[16] Una tale affermazione ultima farebbe certo la gioia del filosofo contemporaneo, neo-parmenideo, Emanuele Severino, in tal caso in riferimento al suo testo La gloria. Risoluzione di “Destino e necessità”[17].
Tutto - secondo il Corpus hermeticum - è in Dio, nell’Uno, e “per ciò” è eterno, in un’apocatastasi - il ricongiungimento finale di tutti gli esseri nell’essere - immancabile. Quest’apocatastasi (“reintegrazione”) c’era pure nel cristianesimo, specie negli Atti degli apostoli (3, 21) e, con altro termine, in più punti dei Vangeli, ma c’era anche in Origene, padre della Chiesa “eretico” del II-III secolo d.C., in specie nel libro I princìpi[18], che postulava una finale ricongiunzione di tutti gli esseri, buoni e cattivi, diavolo compreso, in Dio, appunto alla fine dei tempi, in cui tutto si sarebbe raccolto nell’Uno. Quest’aspetto del ritorno redentivo di tutti - Maligno compreso - nel seno di Dio, alla fine dei tempi, sarà ripreso pure dal cattolico eterodosso Giovanni Papini ne Il diavolo (1953)[19]. Ma nel Corpus hermeticum, diversamente da tutto il cristianesimo, ortodosso o eretico, l’apocatastasi è ritenuta per così dire costante, in una sorta di quarta dimensione del reale. Infatti nel trattatello XII, nel Discorso di Ermete Trismegisto a Tat sull’intelletto comune, è detto: “Tutto questo mondo allora, questo grande dio, immagine del Dio più grande, a lui unito e che insieme a lui salvaguarda l’ordine e la volontà del Padre, è pienezza di vita. Attraverso tutta l’eternità dell’apocatastasi voluta dal Padre, niente che non sia vita, interamente o in parte, è in lui. Niente di morto vi è, vi è stato e vi sarà mai nel mondo. (…) Perciò il mondo è necessariamente dio.”[20] S’intende così, al trattatello X Discorso di Ermete Trismegisto: la chiave, il concetto di Dio come “Anima del mondo” che contiene tutte le anime individuali[21] e l’affermazione - che forse qui riecheggiava Eraclito - fatta nel trattatello XI, Il nous a Ermete (“La mente a Ermete”) - “Ogni cosa è ricolma d’anima”[22].
Un dato assolutamente centrale, già presente nel discorso sull’eternità di tutte le cose, è l’affermazione dell’eternità “fisica” di tutti i viventi, che sottende quasi quello che potremmo dire un materialismo spirituale. Il concetto si approfondisce tramite quello che viene detto ne Il nous di Ermete, dove è respinta la tesi del Dio in se stesso “invisibile”, nei termini seguenti: “Taci! Chi è più visibile di lui?”[23]. E qui a me viene in mente il mito del dio Dioniso che una volta volle contemplare se stesso nelle acque di un pozzo e vide tutto l’universo.
Viene dunque spiegata tutta una concezione “immaterialistica”. Il mondo materiale è infatti inteso come l’immagine riflessa in uno specchio dello Spirito eterno, sicché mentre il punto corporeo (potremmo ben dire spazio-temporale) scompare, non scompare il punto spirituale (ma che ha evidentemente una materialità latente) che vi si è riflesso. Ciò è così vero che - di nuovo con espressione alla Severino - nel solo trattatello in latino, Asclepio. Libro sacro di Ermete Trismegisto dedicato ad Asclepio, forse di Apuleio, è detto: “Se dunque il mondo stesso è un essere vivente, che sempre ha vissuto, vive e vivrà, niente vi è nel mondo di mortale, e se ogni parte di questo è sempre in vita secondo il suo stesso essere e si trova in un mondo che è esso stesso sempre uno e sempre vivente, non c’è alcuno spazio per la morte. Il mondo deve quindi essere pieno di vita e di eternità, giacché deve necessariamente vivere sempre.”[24]
Si capisce, a questo punto, che se la materia è solo un riflesso del vero Essere, il liberarsi dalla sensorialità, che ce la fa apparire come il vero Essere, sia “liberatorio” (nel testo è detto “rigenerante”). O, com’è affermato in forma esortativa nel XIII trattatello Discorso segreto sulla montagna di Ermete Trismegisto al figlio Tat, citato: “… elimina le sensazioni del corpo e allora si produrrà la nascita della divinità. Purifica te stesso dai castighi irrazionali della materia.” Segue un elenco delle forme di “ignoranza” che fanno scambiare le cose materiali con l’Unus mundus puramente spirituale: “ignoranza”, “sofferenza “incontinenza”, “concupiscenza”, “ingiustizia”, “avidità”, “inganno”, “invidia”, “frode”, “ira”, “precipitazione”, “malvagità”[25].
Debbo però dire che questo discorso sul male a me sembra il punto più debole, stante la grande difficoltà di collocare il male stesso in una visione in cui Dio sia l’Uno-Tutto, che logicamente dovrebbe essere semmai - come avrebbe detto Nietzsche - “Al di là de bene e del male”[26]. Tuttavia se è molto debole la parte sull’origine del male, più persuasivo appare il carattere mistico-iniziatico dell’approccio. Emerge però, abbastanza logicamente stante la rarità delle esperienze mistiche, un approccio in proposito abbastanza iniziatico ed elitistico. Infatti nel trattatello in latino Asclepio al proposito è detto: “E’ cosa empia divulgare ai molti un argomento ricolmo di tutta la maestà divina.” E più oltre, al punto 9 di p. 309, è detto: “Alcuni uomini, in realtà pochissimi, dotati di uno spirito puro, sono stati prescelti per avere come santo compito quello di alzare gli occhi al cielo.”[27]
Su tale base trovo abbastanza giustificabile l’entusiasmo di Ficino, anche se nella presente analisi ho deliberatamente trascurato dati più datati e caduchi, rari ma ineliminabili, che evidenziano credenze magiche, sino all’attribuzione di influenza persino alle immagini e statue consacrate degli dèi. Certo possiamo pure vedervi tratti volti al consigliare di trarre ispirazione, psicologicamente, dalle immagini “sacre”. Ma non è necessario,tanto più che sarebbe vanamente perbenistico relativizzare un “magismo” che nel contesto era stato prorompente. Di tali nugae noi lettori del XXI secolo possiamo tranquillamente fare a meno senza perderci niente.
[1]Corpus hermeticum, a cura di Valeria Schiavone, Testo greco e latino a fronte, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 2001 e infine 2008. Il giudizio sul testo da parte di Marsilio Ficino è citato a p. 5.
[2]La rivelazione segreta di Ermete Trismegisto, a cura diu P. Scarpi, Milano, Fondazione Valla e Mondadori Editore, 2010, I vol.
[3] Al proposito si veda: Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 1985.
[4] Si veda il punto 26 di p. 83.
[5] PLOTINO, Enneadi, a cura di G. Faggin, con testo greco a fronte, Milano, Rusconi, 1992.
[6] Si veda il punto 5 a p. 117.
[7] Punto 13, p. 245.
[8] Punto 11, p. 123.
[9] Si veda tutto il vol. IX delle “Opere” di Carl Gustav Jung Gli archetipi dell’inconscio collettivo, uscito a Torino presso Bollati Boringhieri nel 1980 in due tomi e che raccoglie testi dal 1934 al 1954.
[10] A. CAPITINI[10] in La realtà di tutti, Trapani, Celebes, 1965; ID., La compresenza dei vivi e dei morti, Milano, Il Saggiatore, 1966
[11] PLATONE, “Opere”, a cura di G. Giannantoni, Bari, Laterza, 1966, due volumi.
[12]Corpus hermeticum, cit., punti 1 e 2, p. 147 e 149.
[13] Per gli aspetti richiamati qui e di seguito rinvio qui al mio saggio Note psicologiche sulla Bagavàd Gità, comparso su “Klaros. Quaderni di psicologia analitica”, di Firenze, a. IX, n. 2, 1996, pp.107-134.
[14]Corpus hermeticum, punto 9, p. 97.
[15] Ivi, punto 1, p. 151.
[16] Ivi, punto 9, p. 167.
[17] L’opera è stata edita a Milano, da Adelphi, nel 2001.
[18] Si veda l’opera di Origene, a cura di M. Simonetti, Torino, UTET, 1968.
[19] L’opera fu edita a Firenze da Vallecchi.
[20]Corpus hermeticum, cit., punto 15, p. 225.
[21] Ivi, punto 7, p. 173 e 175.
[22] Ivi, punto 8, p. 199.
[23] Ivi, punto 22, p. 211.
[24] Ivi, punto 29, p. 351.
[25] Ivi, punto 7, p. 239.
[26] F. W. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male (1886), Milano, Adelphi, 1968.
[27]Corpus hermeticum, cit., punto 1, p. 293.