Il gesuita “proibito” e il gesuita “rimosso”. Riflessioni su un libro su Teilhard de Chardin
In anni ormai lontani come un’altra era geologica, ma intensi intellettualmente, umanamente e politicamente come non mai, tra il 1963 e il 1966 mi capitò di diventare amico di un professore di filosofia cattolico, di Genova, che insegnava nelle medie superiori in Alessandria e che andavo a trovare talora in una sua stanzetta presso una signora in cui stava a pensione, dalle parti di Piazza Genova (alias Piazza Matteotti). Si chiamava Pietro Lazagna. Aveva uno stile di vita semplice (portava sempre sandali “da francescano”), un sorriso dolce e franco e, politicamente, era un cattocomunista in tutto e per tutto. Era il fratello di quel Giambattista ex comandante partigiano delle Brigate Garibaldi, autore del famoso libro di memorie resistenziali Il ponte rotto (Alessandria, Quaderni de “Il Novese”, 1966) e avvocato a Novi, di cui sin da allora un altro nostro amico diceva che era uno rimasto fermo al 26 aprile 1945. In effetti questo Giambattista poi ebbe qualcosa a che fare con le prime Brigate Rosse, finendo in grossi guai a causa di un prete delatore poi detto “frate mitra”.
Quando io e Pietro Lazagna ci conoscemmo, nel 1963, avevo alle spalle un percorso spirituale complicato. Avevo avuto e in parte avevo ancora un rapporto estremamente conflittuale e tormentato con il cristianesimo, da lettore e meditante totalmente entusiasta della filosofia di Nietzsche tra l’adolescenza e la prima giovinezza, fra il 1957 e il 1961, e infine da lettore, meditante e militante appassionato del marxismo, che in termini di negazione “rivoluzionaria” della fede religiosa non era certo secondo neanche a Nietzsche. Tuttavia, da buon nietzscheano, o ex nietzscheano, avevo una tendenza al panteismo, sentivo la presenza del divino come radicale della vita. Percepivo la dimensione religiosa come una realtà psicologica imprescindibile, che ritenevo sì intrisa di irrimediabile irrazionalità, e anche fonte di debolezza psicologico morale inaccettabile, ed antitetica alla totale autonomia dell’uomo e del mondano, e in sostanza “controrivoluzionaria” per essenza, parte di un mondo che dicevo “borghese cristiano” cui mi sentivo ostile (benché oggi ritenga il Cristo un rivoluzionario senza uguali), e però ritenevo questa dimensione religiosa esistenzialmente insopprimibile, fondamentale e degna di serrato confronto interiore; la consideravo una realtà spirituale magari senza fondamento fuori di noi, ma da sempre e per sempre presente in noi, e certamente in me. In quel 1963 parlai dunque a lungo di tali cose con Pietro Lazagna , non celandogli neppure talune mie esperienze in proposito - oniriche e ad occhi aperti - ai limiti del paranormale. La cosa interessò Pietro a un punto tale che egli propose a me, che allora avevo ventidue anni, di collaborare a un numero su ateismo e religiosità che il mensile “Il gallo” di Genova stava preparando. Era lo stesso mensile che Lelio Basso diceva di leggere “con molto interesse”, in un discorso alla Camera del 15 marzo 1966 (come si può vedere nella raccolta di suoi testi In difesa della democrazia e della costituzione. Scritti scelti, con prefazione di Stefano Rodotà e a cura di Pietro Basso, Milano, Punto rosso, 2009, p. 121). Sul “Gallo”, in effetti, nel dicembre 1963 comparve il mio articolo Ateismo etico-storico e problema dei cattolici. (O meglio comparve la seconda parte, mentre la prima, che riassumevo in un “cappello” introduttivo, rimase inedita). Ora Pietro Lazagna, nei nostri dialoghi, mi aveva pure incitato a leggere un libro allora appena uscito: Giancarlo Vigorelli, Il gesuita proibito. Vita e opere di P. Teilhard de Chardin, Milano, Il Saggiatore, 1963. Ma io ero nella fase in cui tutto doveva finire in “marxistico”. Leggevo moltissimo, ma per lo più cose di tale ambito, anche se tutto questo leggere, meditare e sperimentare “nella prassi sociale e politica” tra i miei compagni dell’estrema sinistra socialista - presto raccolti nel Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, e dal ’72 in parte confluiti con me, per un ventennio, nel Partito Comunista Italiano - mi appariva complementare a un mio forte e persino anteriore interesse per l’esistenzialismo, specie francese, in particolare di Sartre e Merleau-Ponty. Così quel libro su Teilhard de Chardin lo comperai subito, alla fine del 1963, ma poi non lo lessi. L’ho letto ora, naturalmente avendo però appreso nel frattempo, nei decenni, tante cose su Teilhard e altro ancora. Ma il libro stava lì ad attendermi. E ora vorrei parlarne.
Leggendo il libro in questione su Teilhard ho capito, in primo luogo, perché Pietro Lazagna quarantasette anni fa mi avesse consigliato di leggerlo mentre mi invitava a collaborare ad un numero del “Gallo” sulla possibile religiosità degli atei (marxisti) e sulla possibile miscredenza di pretesi credenti (cattolici farisaici); in secondo luogo quale rapporto poteva aver intuito tra il mio panteismo tendenziale, “nietzscheano” e “marxista”, e il pensatore francese a lui caro con cui mi invitava a confrontarmi.. Infatti Teilhard, gesuita francese nato nel 1881, grande biologo e paleontologo oltre che filosofo e teologo, in un testo dell’8 settembre 1949 citato da Vigorelli “che circolò clandestinamente”, notava: “… in tutte le conversazioni che in vita mia ho potuto avere con intellettuali comunisti, è formalmente nata in me l’impressione che l’ateismo marxista non è così assoluto: è un ateismo che rigetta soltanto una forma ‘extrinsecista’ di Dio, un Dio-ex-machina, la cui esistenza intaccherebbe la dignità dell’Universo ed allenterebbe le risorse dello sforzo umano: uno pseudo-Dio insomma, - e oggi nessuno, a cominciare dai cristiani, potrebbe accettarlo (p. 261).” Quanto al panteismo, il sospetto che Teilhard vi fosse caduto o inclinasse ad esso fu alla base dei guai di tutta la sua vita con la Chiesa cattolica, cui come gesuita convinto (dal 1912) pur dolorosamente riteneva di doversi subordinare. Teilhard in una lettera del 10 luglio 1916 (dal fronte di una grande guerra cui aveva partecipato come barelliere) già diceva, su ciò, parole che io avrei sottoscritto anche nella mia fase più ateistica, giovanile, nietzscheana e poi marxiana: “In alcuni momenti mi sembra di avere il cuore pieno di cose che bisognerebbe dire sulla Grande Natura, sulla realtà dei suoi richiami e della sua magia, sulla realizzazione totale e insperata accordata dal Cristianesimo alle aspirazioni panteistiche (ben comprese) che si desteranno sempre più intensamente nel cuore dell’uomo, sui diversi aspetti della materia, ecc. (p. 25).” Ma già nel 1914, nello scritto Il Cristo nella materia (edito postumo nel 1961), aveva scritto: “Ho sempre avuto un’anima naturalmente panteista (p. 47)”.
Per tali istanze, pur continuamente filtrate nel Credo cristiano, Teilhard dovette patire, nella Chiesa “preconciliare”, una repressione intellettuale impressionante sin dal 1921. Allora lo obbligarono a ritrattare le sue critiche al puro creazionismo biblico e al peccato originale, ridotto da lui a simbolo della necessaria e positiva transizione dall’animalità alla coscienza umana. Poco oltre - scandalizzati dalla sua eresia evoluzionista, in cui Dio stesso sembrava risolto nel divenire della vita totale - “i superiori” lo costrinsero ad andare in Cina per decenni, concedendogli solo piccoli periodi di mesi nella sua Parigi. Non gli lasciarono pubblicare quasi nessun’opera, neanche quella principale (Il fenomeno umano, 1947, pubblicata postuma nel 1955). Nello stesso ultimo torno di tempo gli proibirono persino di accettare la cattedra da biologo offertagli dal Collège de France. E costrinsero lui - sempre più persuaso della necessità di dialogare con marxisti socialisti e comunisti - ad andare in un collegio di gesuiti nell’America del maccartismo, rimanendo lì, marginalizzato, sino alla morte. Scomparve nel 1955, ma ancora nel 1962 il Sant’Uffizio condannava solennemente il suo pensiero. Tutti i suoi testi filosoficamente importanti, salvati in extremis togliendoli dalla portata della Compagnia di Gesù e delle gerarchie vaticane preconciliari (pp. 258-259), furono editi postumi. Solo il Concilio Vaticano II sdoganò il suo pensiero, in seguito liberamente circolante anche presso case editrici cattoliche, ma sempre come tendenza assai eterodossa e sospetta. Emerge molto chiaramente che la Chiesa, dal 1921 quando scoprì la sua eresia sino alla condanna del suo pensiero ancora nel 1962, temette che tramite le sue idee - profondamente influenzate, oltre che dall’evoluzionismo di Darwin e Lamarck, dal Bergson dell’Evoluzione creatrice (1907, e a cura di F. Polidori, Milano, Cortina, 2002) e dal Maurice Blondel di L’azione (1893, a cura di S. Sorrentino, Cinisello Balsamo, Paoline, 1993), suo amico e corrispondente - potesse prendere piede un nuovo e più pericoloso modernismo.
Tuttavia - a mio parere - il prezzo che la Chiesa cattolica pagò e paga al tentativo di restare ancorata alla sua pretesa inossidabile “tradizione”, e in specie al suo vetusto aristotelismo cristiano (tomista), dimentico del carattere pagano e non certo evangelico dell’Aristotele - resistendo sino al limite del possibile ad ogni nuova visione scientifica o filosofica del mondo - è stato ed è la perpetuazione della rottura con la Modernità, a tutto vantaggio della “morte di Dio”: senza capacità di porsi al passo con la cultura e prassi più avanzate dell’epoca, come la Chiesa aveva pur saputo fare quando era prevalsa la sua concezione del mondo, tramite un confronto plurisecolare con la cultura ellenistica e le relative filosofie neoplatoniche e religioni dei misteri, nei primi quattro secoli dell’era volgare, e più oltre quando nel Medioevo era stata all’avanguardia di ogni sapere epocale. Dal tempo della grande rivoluzione scientifica del XVII secolo e soprattutto dall’Illuminismo del XVIII secolo in poi, la discrasia tra sapienza cristiana e sapienza secolare è andata crescendo. Ora Teilhard, sull’onda di Bergson e Blondel, ma con un suo caratteristico approccio da scienziato puro di primissimo livello - biologo e paleontologo - a mio parere è stato autore di uno dei tentativi più grandiosi di riconciliazione tra fede, scienza e Modernità che mai siano stati compiuti. Non saprei dire, e a dir la verità non m’interessa neanche tanto, se ciò si conciliasse o concili col cristianesimo: certo dà un bell’apporto a una religiosità mondiale possibile, e forse di nuovo eventualmente “normale” per “quasi tutti” come nella premodernità, quale sia il grado di verità che ha.
Teilhard, a quel che pare a me, fece ciò senza stabilire quel che è poi sembrato l’ovvio patto di non aggressione perpetuo detto “secolarizzazione” dagli stessi credenti, per cui scienza e fede procedono come due rette parallele che non s’incontrano mai, senza per altro escludersi necessariamente: tale per cui la prima si colloca in una sfera “mondana” ma non religiosa, mentre l’altra si colloca in una sfera religiosa ma non mondana (il che pare essere stato il tratto forte vuoi del grande teologo Dietrich Bonhoeffer, l’autore nel 1943-1945 di Resistenza e resa - edito postumo nel 1951; in italiano a Milano, da Bompiani, nel 1969 - e vuoi dello stesso concilio Vaticano II, col tema dell’”autonomia del mondano”); piuttosto Teilhard si studiò di dimostrare che l’evoluzionismo stesso e addirittura il materialismo, se ben intesi, hanno un “esito” assolutamente religioso. Naturalmente l’idea di leggere l’evoluzionismo in chiave “spirituale” era di Bergson, che Teilhard aveva studiato verso il 1912, certo ricevendone impulsi fondamentali. Ma un paio di novità non di poco conto, a quel che pare a me, emergono rispetto allo stesso Bergson. Teilhard non si studiava di trovare per la filosofia uno spazio o dimensione a sé (intuizionista “spirituale” invece che d’”intelligenza”, cioè fondata su un sapere immediato della coscienza invece che scientifico astratto e in realtà pragmatico, come Bergson), ma voleva piuttosto fondere le due dimensioni, mostrando che se ben intese erano o la stessa cosa o al più due modi di dire una stessa cosa. Inoltre procedeva con piglio da scienziato, pur intimamente “religioso”, tendendo quasi a darci - specie ne Il fenomeno umano - una nuova Origine delle specie (di Darwin, 1859 e in italiano a cura di G. Montalenti, Torino, Bollati Boringhieri, 1977), tale da dimostrare che l’evoluzione naturale in sé e per sé, considerata senza paraocchi di nessun tipo (né positivistici né spiritualistici), culmina nel divino. Debbo anzi dire che quel che mi piace nella sua impostazione è la possibilità di leggerne l’opera sia a prescindere dal cristianesimo che nel cristianesimo. Ma se è o fosse vero, non sarebbe proprio questo il contesto di vera connessione tra scienza e fede (la vera convergenza, sino all’identificazione possibile, tra le due dimensioni richiamate, senza necessità alcuna di farlo “per forza”)?
Teilhard voleva dimostrare, nel Fenomeno umano del 1947, edito postumo nel 1955, e in italiano a Milano, dal Saggiatore, nel 1963 (su cui in un prossimo articolo mi soffermerò) - ma più in generale in tutti i suoi testi minimamente o massimamente connessi con la filosofia e teologia - che la vita - preceduta da una “previta” di cui poco o nulla sappiamo - è nata da un fenomeno minimo, diciamo da una cellula, quattro o cinque miliardi di anni fa, e che tutto quel che è accaduto dopo è stato la storia di quell’unico essere, anzi di un unico essere, per quanto tanto immensamente evolutosi e diramatosi, nello spazio-tempo; e, infine, che tutto questo divenire ha pure una portata teleologica, ossia finalistica, ma non nel senso che vi sia Qualcuno che ha posto un fine come un progettista che fabbrichi il mondo (il “disegno intelligente” difeso come ultima frontiera dai creazionisti irriducibili anche di oggi), ma nel senso che quel vivente originario (forse nato “per caso” anche a suo dire), che era ed è sempre “uno”, ha sin dall’inizio una logica intrinseca, prima inconscia e poi anche conscia, che lo fa andare sempre avanti. Ogni sviluppo, un po’ a spirale direi, fa emergere qualcosa di più avanzato, tanto che ad un certo punto lo psichismo elementarissimo, presente nel vivente “ab ovo”, si fa appunto cosciente, e dovrà per ciò farsi supercosciente, sino a scoprirsi divino oltre che umano e naturale, come già compreso - per sé, ma in realtà per tutti - dal Cristo, direi inteso da Teilhard come anticipatore di una fase finale possibile, umano-divina, in cui si sia uno-tutto e uno-tutti individualmente, fase identificata con la cristiana fine dei tempi o “parusia”, con reintegrazione degli esseri nell’essere (esattamente nel senso che il filosofo del II-III secolo Origene chiamava “apocatastasi”, in cui tutto e tutti, “buoni” e “cattivi”, si risolvono “in” Dio). Ma Teilhard sa bene che tutto ciò può essere espresso anche a prescindere da una specifica rivelazione, nel senso che il fenomeno “religioso” – sotto ogni latitudine e in ogni tempo - girerebbe sempre attorno a ciò, a dispetto della pretesa storicità ed unicità delle rivelazioni.
Ogni tappa evolutiva dà luogo a un’emergenza di qualcosa che prima non c’era stato, ma presupponendo quel che c’era stato prima. Così, a proposito del sorgere della coscienza, dopo miliardi di anni di evoluzione della vita, nel 1921, inNote sur le progrès (edito solo postumo, nel 1959), diceva: “… come svegliati da un sogno, capiamo che la nostra regalità consiste nell’essere al servizio, come degli atomi intelligenti, dell’opera intrapresa dall’Universo. Abbiamo scoperto che c’era un Tutto, e che noi ne siamo gli elementi. Abbiamo realizzato il Mondo nel nostro Spirito (p. 34).”
L’uomo così non sarebbe solo uno degli animali comparsi sulla terra, pur con straordinario successo tra le specie, ma una nuova funzione dell’essere-uno o della vita-una o del vivente uno-tutto che va sempre avanti, giunto infine a “pensare”, per noi, per tutti e per il tutto vivente (sapendo finalmente quello che fa invece che facendolo come se lo sapesse, per ciò limitatamente, come fa ogni essere dominato “ab imis” dall’istinto). Tra l’altro consegue da ciò un cosciente entusiasmo di Teilhard per quel che potrà fare l’uomo modificando in meglio la sua stessa specie e la vita tutta, come organo della natura tutta, giunta con lui alla coscienza di sé. Su ciò, all’inizio degli anni Venti, Teilhard, nel saggio L’hominisation, scopre o crede di scoprire dietro all’apparente non senso del divenire materiale, più che un disegno uno scopo latente, un tendere a cercare una soluzione, collocata al the end dell’evoluzione: finalità la cui chiave di volta è individuata nell’unione e unificazione di tutto quel che è stato ed è disperso, diviso e collidente. Lì, con parole difficilmente dimenticabili, dice: “Sempre più distintamente, il più piccolo lavoratore della Terra si trova nel dilemma di scoprire dove sia inserita l’attività umana: 1) o la vita non è diretta verso nessun termine che raccolga e consumi la sua opera; e, allora, il Mondo è assurdo, distruttore di se stesso, condannato da quel primo sguardo riflesso che oggi stesso ha generato al prezzo di uno sforzo immenso; ed è di nuovo la rivolta non più soltanto come una tentazione, ma come un dovere (p.89).”
E noi sappiamo che così pensava il materialista coerente e “rivoluzionario” Leopardi, nella Ginestra, del 1836. Ma quest’approccio secondo Teilhard era già stato di Schopenhauer e più oltre avrebbe segnato l’esistenzialismo novecentesco, ateo ma anche cristiano, che egli nell’immediato secondo dopoguerra contesterà, anche in polemica diretta con Gabriel Marcel, che a sua volta vedrà nella tesi di Teilhard della progressiva divinizzazione della natura e dell’uomo una forma di prometeismo o titanismo o superomismo intimamente anticristiano. Ma Teilhard, proseguendo il discorso or ora citato, fa una seconda ipotesi: “2) oppure Qualcosa (Qualcuno) esiste, in cui ogni elemento trova gradualmente, nel suo congiungimento al Tutto, il compimento di quel che si è costruito via via di salvabile nella propria individualità; e, allora, vale la pena di piegarsi, e anzi di votarsi, alla fatica, ma in uno sforzo che assume la forma di un’adorazione, e le equivale. “ Il tratto forte dello sforzo di cui parla è tutto quel che trasforma il molteplice, o preteso tale, nell’uno: “quello che ci attira tutti, secondo una specie di affinità vivente, verso la splendida realizzazione di qualche unità presentita. Contrastate, sospettate, spesso schernite, le aspirazioni unitarie, in politica, nel pensiero, nella mistica, nascono dappertutto intorno a noi; e poiché hanno come soggetto non quel che è materiale e plurale, ma quel che c’è di spirituale e di comune a tutti in ciascuno di noi, nessuna forza di abitudine o di egoismo sembra in grado di arrestarle: anzi, irresistibilmente si infiltrano, e alla fine via via cancellano i quadri invecchiati, le false barriere … (p. 89).” Il pensiero è percorso da uno spirito molto simile a quello del Cantico delle creature (1224) di San Francesco, come emerge molto bene nel testo del 1923 La Messe sur le Monde (p. 106).
Tutto ciò risalta con particolare forza nello scritto del 1943, naturalmente esso pure postumo, qui pubblicato integralmente Réflexions sur le bonheur (tradotto pure col titolo L’uomo, la felicità e la marcia del mondo), che io considero come il più bello tra i molti richiamati o ampiamente citati dal Vigorelli. Lì innanzitutto - constatata la comune ricerca della felicità da parte di tutti gli esseri viventi, in specie umani - traccia una sorta di tipologia umana, riferita a un’immaginaria montagna da scalare, tra rinunciatari (A), gente che si accontenta di cogliere l’attimo fuggente, ferma al presente (B) e persone che vogliono sempre procedere in avanti, in un perpetuo autosuperamento (C): tipologia che sarebbe da riprendere vuoi in chiave psicologica e vuoi politica. In secondo luogo coglie una linea non solo trasformativa, ma migliorativa, nell’espansione dell’essere, sempre verso la coscienza e verso l’unità, vedendo nell’amore - in quanto potenza unificatrice - la spinta decisiva del divenire (dal molteplice all’uno, dal cieco istinto alla coscienza, dal mero vivere alla vita divina, dal finito all’infinito, dal punto alfa “infimo” al punto “omega” o massimo, o “Dio”). “Da 400 milioni d’anni sulla nostra Terra (sarebbe più esatto dire: nell’Universo, da sempre) - notava - la massa immensa degli esseri a cui noi apparteniamo, si eleva, tenacemente, instancabilmente, verso una maggiore libertà, una maggiore sensibilità, una più grande visione interiore. E ci chiediamo ancora dove dobbiamo andare? (p. 200).” E ancora: “L’uomo, come tutto quel che esiste in Natura, è fisicamente e biologicamente plurale. Questo vuol dire, per prima approssimazione, che noi non possiamo progredire fino al massimo di noi stessi senza uscire da noi per unirci agli altri (…). Di qui l’urgenza, il senso profondo dell’amore che sotto ogni forma ci spinge a associare il nostro centro individuale ad altri centri scelti e privilegiati, l’amore, la cui funzione e il cui fascino sono di completarci (p. 202).” Da ciò trae una prima conclusione molto importante: “A questo punto i nostri occhi si aprono; e cominciano a distinguere due cose. La prima, che (…) noi formiamo già un solo corpo. La seconda, che in questo stesso corpo, in seguito all’ordinamento graduale di un sistema uniforme e universale di industria e di scienza, le nostre idee tendono sempre più a funzionare come le cellule di un solo cervello. (…) Da questo doppio fenomeno, esterno e interno, resta da concludere soltanto questo: quel che la Vita ci chiede di fare per essere, è di incorporarci e subordinarci a una Totalità organizzata di cui noi siamo cosmicamente le particelle coscienti. Un centro d’ordine superiore ci aspetta, già appare, non più soltanto vicino, ma al di là e al di sopra di noi (p. 203).”
Questo sarebbe un esito necessario della stessa evoluzione, sboccante in esseri umani, avanguardia di tutti i viventi nell’unità della vita (da sempre), in cui l’amore personale di tutto e tutti come se stesso, già di Cristo, diverrebbe normale, come quei tentativi evolutivi fatti da singoli di una specie che poi si generalizzano, magari in decine di miglia di anni o più, tanto da fargli dire, nel Fenomeno umano: “ L’esito finale del Mondo, le porte dell’Avvenire, l’ingresso nel Super-umano, non sono più a portata di qualche privilegiato, né di qualche popolo eletto tra gli altri popoli: l’apertura è per tutti, e l’entrata avverrà sotto la spinta di tutti insieme, in una direzione dove tutti insieme possono incontrarsi, e portare a termine una rinascita spirituale della Terra (p. 229).”
Naturalmente il tutto sbocca in una teodicea (la giustizia - in greco dìke - di Dio, o theòs: il tema dell’ordine giusto e razionale - o pretesi tali - del mondo, per Leibniz e altri), almeno al “punto d’arrivo” dell’evoluzione: un the end positivo per noi insicuro sino alla possibile catastrofe, ma per Teilhard prevedibile. E’ il tema cristiano della “parusia”, in cui alla fine dei tempi, Cristo torna. E realizza, come in Origene, l’apocatastasi, ossia l’unione del tutto in Dio, che è Lui stesso: la cristificazione dell’universo, e anzi dei singoli esseri in specie umani, che forse come già il Cristo abbracceranno interiormente gli altri esseri come parte di sé (e di “Dio”). Ma a quell’opera tutta la creazione - dall’ameba agli uomini amorosi del tempo finale, e loro malgrado persino ivi compresi quelli che l’hanno contrastata - parteciperebbe, per tutto quel che è capitato dall’ameba in poi. Ciò vale per chi ha capito l’indirizzo vuoi dell’evoluzione e vuoi del Dio cui rinvia eventualmente: “Promuovere in tutto l’Unità (p. 40)”, come diceva già in Note sur le Progrès, del 1921. Su ciò nel fondamentale Milieu divin, o “Ambiente divino” (1926-1927), concepito come “il suo libro più apologetico, più sacerdotale, più missionario”, tanto che - dice il Vigorelli - “Chi non è cristiano può rifiutarlo in blocco” (p. 100), eppure esso pure forzatamente postumo, notava: “Come il fulmine, come un incendio, come un diluvio l’attrazione del Figlio dell’Uomo afferrerà, per riunirli e sottometterli al proprio Corpo, tutti gli elementi turbinanti in vortice nell’Universo (p. 131).” In termini laici sarebbe semplicemente l’unificazione mondiale degli esseri nell’essere, in cui ciascuno si senta tutto e tutti e viceversa: una sorta di utopia realizzata. Ma altro era il Cristo per la Chiesa, tanto che nel 1948 in una lettera a un amico Teilhard scriveva: “Ora non posso più sottrarmi all’evidenza che è venuto il momento in cui il senso cristiano deve salvare il Cristo dalle mani dei chierici (di coloro almeno che, tra di essi sono gli scribi della Chiesa), affinché sia salvato il mondo (p. 232).”
Il perno di tutto è sempre l’idea che siamo tutt’uno con tutta la realtà, e che neppure Dio può essere o volere altro che tale presa di coscienza e l’operare per questo, tanto che all’interno della sua opera fondamentale sul fenomeno umano, che analizzerò in seguito, si trova la seguente folgorante affermazione: “In verità dubito che ci sia, per un essere pensante, un minuto più decisivo di quello in cui scopre, cadute le squame dai suoi occhi, non di essere un elemento perduto nelle solitudini cosmiche, bensì una volontà di vivere universale, che converge e si ominizza in lui (p. 167).” Per me è un punto che vale una vita.
( franco.livorsi@alice.it )