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Anima e terra: aforismi e annotazioni
Panikkar
Franco Livorsi

Ieri è morto Raimon Panikkar, un grande della spiritualità contemporanea, che gli alessandrini hanno perso l’occasione di conoscere faccia faccia: il che avrebbe costituito un’esperienza indimenticabile per molti tra loro. La fine del teologo e filosofo è arrivata serenamente, quando egli aveva ormai novantuno anni, nella sua casa e comunità di meditazione religiosa, a Tamartet, ai piedi dei Pirenei, in provincia di Barcellona. Panikkar era un intellettuale e monaco cattolico, tra l’altro eccezionalmente sposatosi col permesso della chiesa di Roma (credo molto tempo fa, nei suoi lunghi anni in India); del resto era da sempre esplicitamente favorevole al matrimonio  dei preti. Era spagnolo per parte di madre e indiano per parte di padre. Aveva soggiornato a lungo in India ed era da sempre fautore tra i più convinti del dialogo interreligioso, del resto nel quadro di una visione ed esperienza mistica che vedeva tutte le religioni come vie al divino, “vere” purché vissute. Aveva infine elaborato una concezione, per me condivisibile, detta “cosmoteandrica”, in cui natura, divino ed umano erano considerati come un intreccio in sé e per sé, o come un vero “composto” ontologico: Dio “nel” cosmo, Dio in Dio e Dio immanente nell’uomo, con totale confluenza tra panteismo, teismo e umanismo (visti davvero come tre in uno e uno in tre). Il vero umanismo ha il divino latente in sé, “vocatus atque non vocatus” come avrebbe detto Jung; ma vale pure per Dio e per la natura, tra loro e in riferimento all’essere umano. La vita vissuta autenticamente umana lo attesterebbe in mille modi, al di là di qualsiasi pretesa dogmatica o teistica o ateistica, “religiosa” o “irreligiosa”. L’esperienza mistica, vissuta e ripensata, lo farebbe “vedere” in mille modi, si può dire da sempre. Il resto in fondo sarebbero quisquiglie.

Panikkar ha scritto libri molto importanti, tra cui Pluralismo e interculturalità, che la Jaca Book di Milano nel 2005 ha scelto come primo dell’”Opera omnia”, prevista in tredici volumi. Tra i molti suoi testi a me piace ricordare ancora: Il silenzio di Dio: la risposta del Buddha (Roma, Borla, 2002), riproposto e ripensato recentemente col titolo Il silenzio del Buddha. Un a-teismo religioso (Oscar Mondadori, 2006); Cristofania: nove tesi (Edizioni Dehoniane Bologna, 1994); La realtà cosmoteandrica. Dio-Uomo-Mondo (Jaca Book, 2004); Il dharma dell’induismo: una spiritualità che parla al cuore dell’Occidente (Milano, BUR, 2006), ma anche, e per me in primo luogo, la grande antologia e cura de I Veda. Testi fondamentali della rivelazione vedica (1977), edizione italiana a cura di Milena Carrara Pavan, BUR, 2001, due volumi. Ma più ancora dei libri, a me piaceva il suo insegnamento orale, direi superiore di molte volte, per semplicità e intensità del discorso, a qualsiasi testo scritto, in cui fatalmente la dimensione del “dotto” non poteva mai essere del tutto relativizzata. Al proposito consiglio ancora a chiunque una videocassetta, che spero sia stata o sia riproposta in DVD, che riproduce una puntata di una serie televisiva su grandi maestri di spiritualità di ogni credo, “Il filo d’oro”, realizzata a Lugano dalla televisione della Svizzera italiana nel 2000: Raimon Panikkar, a cura di Werner Weick e Andrea Andriotto. Ma io ho avuto la ventura di ascoltarlo a Milano lunedì 5 febbraio 2001 a partire dalle ore 20, nella Basilica di San Carlo, in un affollato e vivacissimo dibattito, tenuto da lui in un perfetto italiano. L’intensità dell’esperienza spirituale era stata tale, per me, che contro ogni mia abitudine in casi esemplari del genere non avevo voluto prendere appunti, segnando però le mie impressioni in una sorta di Diario, credo quella sera stessa, nelle “ore piccole”. Eccole, con qualche colpo di lima stilistico qua e là.

“Il dialogo tra Panikkar e i presenti è stato sollecitato da tante domande, cui ha risposto sempre in modo autentico, sulla base di una posizione che direi fenomenologica per un verso e neogandhiana per l’altro, ossia volta a valorizzare il “religioso” come vissuto effettivo, testimoniato nella sua specificità, ed a valorizzare ogni esperienza di non violenza nei confronti dei singoli come di tutti gli esseri, in specie umani. (…) I punti che mi hanno colpito di più, tra gli innumerevoli spunti offerti da Panikkar, sono stati i seguenti:

1)      La sottolineatura del fatto che l’essere umano non può vivere senza una qualche apertura all’infinito e all’eterno, cioè senza dimensione religiosa;

2)      La relativizzazione della morte considerata in sé e per sé, relativizzazione connessa al fatto che qualunque sia la nostra idea sul destino finale del nostro essere, la nostra vita individuale è comunque un momento di una vita eterna, che ricomprende quella individuale già ora, mentre siamo ancora vivi, e la ricomprenderà comunque, quantomeno come una goccia che è sì se stessa, ma anche goccia dell’oceano, se mai essa lo scopra già ora; oppure evaporerà per ricadere come pioggia;

3)      L’idea che questa civiltà stia morendo e che sia anzi bene che muoia perché il suo tecnicismo, materialismo e assenza d’amore reciproco portano ad una catastrofe graduale ed annunciata, se mai non dovesse scomparire in tempo dalla faccia della terra;

4)      La necessità non solo di un dialogo interreligioso, per così dire tra chiese diverse di diverse religioni, ma soprattutto “intrareligioso”, nel senso della volontà e capacità di accogliere in sé come proprie tutte le religioni: non in senso eclettico, ma mettendole di continuo a confronto, in modo che tramite il confronto rivelino - considerate una per una - anche la grande e importante latenza di significati nuovi della propria, altrimenti non attinti né attingibili;

5)      L’idea, connessa, che le religioni possano vivere solo così, trasformandosi, tanto che si può dire che nella misura in cui ciò non accade una religione muoia;

6)      La convinzione che il male di vivere consista soprattutto nell’essere prigionieri della dimensione del futuro, e che la liberazione consista invece nell’aderire al vissuto senza oggettivazione, ossia senza trasformare l’esperienza viva, in vista d’altro, e che questa sospensione della volizione egoica sia possibile, praticata e praticabile, e sia anzi la via alla felicità;

7)      Il rifiuto, pur dentro la pratica della lotta per il bene e per la giustizia, dell’inimicizia verso l’altro da sé, direi nel senso della trasformazione - come scopo della stessa lotta con l’altro - dell’altro in amico. –

Tutto ciò a me sembra fondamentale e condivisibile.”

                                                                                ( franco.livorsi@alice.it )

                                                                                 

 

 

 

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