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Attualità
30 aprile 1944. I miei ricordi
Maria Luisa Jori
.Un sole  ingannatore.
       Quella bella mattinata domenicale  eravamo tutti  fuori, sul marciapiede di  Viale medaglie d’oro, davanti  allo stabile a tre piani, con giardino sul retro,  di proprietà Marchina(i padroni  del più elegante negozio di scarpe,  carissime, in via Roma).  Allora   adiacente a questo c’era un’industria di argenteria (forse i proprietari si chiamavano Ricci?) proprio all’angolo con Via Wagner. Tutti col naso all’insù a veder passare formazioni aeree.   Era una giornata di sole caldo da godersi all’aperto dopo un lungo inverno nevoso, uno di   quelli allora  così ricorrenti in Alessandria. Il tepore e la luce emanata da un cielo azzurro limpidissimo infondevano una momentanea  fiducia nei cuori, un intervallo di serenità  da condividere  tra vicini di casa  nel corso di una guerra che già durava da troppi anni, quasi cinque.   Mentre mia mamma,  nel nostro appartamento in affitto di quella casa,  stava cucinando il buon pranzo del giorno di festa(risotto alla milanese e pollo arrosto, come si usava allora) ,io , bimba di circa   quattro anni e mezzo, accompagnata da mio padre e dalla mia sorella  adolescente, giocavo,   saltellando sul comune marciapiede ombreggiato dagli alberi del viale, con i bambini della mia età che abitavano solo in  una casa più in là della mia , all’angolo con via Galileo Galilei.
    A mezzogiorno, all’improvviso, boati da fragorosi scoppi non lontani e suono dell’allarme che avverte dell’inizio dei bombardamenti fanno scappare tutte  le persone che se ne stavano tranquille. In quei casi ci si rifugiava nelle cantine degli edifici, più che altro per evitare di essere colpiti dalle schegge dei  vetri delle finestre   in frantumi o dai crolli dei muri e soffitti , anche se  là sotto si rischiava però di essere intrappolati e uccisi  nel caso  malaugurato della caduta di una bomba proprio sul palazzo stesso.  Vengono in tutta fretta acchiappati dunque i bambini per portarli al riparo  e anch’io vengo presa dai genitori dei miei amichetti che stanno per portarmi con loro nelle cantine del proprio edificio di abitazione. Ma mio padre all’ultimo momento, mentre quasi tutti sono scomparsi nei rifugi mi cerca, mi strappa dalle braccia di quell’altro papà della casa vicina e corre con me in braccio verso la nostra cantina. Ormai però stanno cadendo le bombe a tutto spiano anche nelle vicinanze, tanto che mentre noi nel tragitto verso il rifugio sorpassiamo una porta vetrata,   questa  si scardina e precipita frantumandosi: facciamo appena in tempo a scansare il pericolo quasi per caso. Raggiungiamo mia mamma e mia sorella già in cantina. Qui, in un locale freddo, ma attrezzato  con sedili per tutti, ci troviamo    al completo  noi abitanti  dei sei appartamenti della stessa casa. Lo spavento di ciascuno, specie quando  uno scoppio  maggiore degli altri  ci scuote come se la bomba fosse caduta sulla nostra testa, viene espresso secondo il carattere   individuale. Soprattutto una signora sulla cinquantina, affezionata ad  una cagnetta chiamata Milly, si lascia andare a urla e pianti  di paura,  in una scenata isterica che le viene rimproverata in quanto  potrebbe spaventare  i bambini presenti. Io non provo  paura invece, forse perché sono ancora abbastanza piccola da sentirmi talmente protetta   da papà e mamma, ai quali mi affido totalmente, da non dover temere  particolarmente i pericoli che provengono dall’esterno, guerra compresa. A un tratto tutto tace  tranne  la sirena  che  comunica la fine dell’allarme  per quel  bombardamento.
  Mio padre, che aveva già in precedenza, prudentemente, affittato una piccola residenza  in una località di  campagna vicina ad Alessandria, a Valmadonna,  non ci fa neppure mangiare il pranzo che  la mamma aveva preparato e guida la famiglia a scappare  in bicicletta  dalla città sentita  ormai  pericolosa(si diceva “sfollare”), soprattutto-come ho sentivo ripetere dai genitori- abitando in un luogo così vicino alla ferrovia(Viale medaglie d’oro scorre parallela a quella dei binari), in quanto via di  collegamento facilmente    bersaglio dei bombardamenti. Io, seduta in un seggiolino della bicicletta paterna, sentendo le sirene della autoambulanze, mi volto indietro incuriosita e faccio appena  a tempo a vedere che la casa dei bimbi con i quali due ore prima giocavo è scomparsa, mentre   in mezzo a nuvole di polvere che la circondano stanno  circolando  lettighe  occupate da  corpi inerti: mio padre mi afferra con forza per il mento  per costringermi    a voltare la testa in avanti, per non farmi assistere a quello spettacolo tragico, mentre aumenta  energicamente le  pedalate.   Ma io  durante   tutti gli anni delle elementari ho osservato quotidianamente i ruderi, impressionanti per la vita quotidiana di cui conservavano qua e là le impronte, di quell’edificio abbattuto (una volta alto almeno cinque o sei piani) in cui erano morti tutti, con tanti bambini, tra i quali avrei potuto esserci anch’io. Per recarmi infatti alla scuola Galileo Galilei( ribattezzata così  con la Liberazione e la Repubblica, dopo aver portato il nome Rosa Maltoni sotto il fascismo)    ero costretta a  passare  davanti a quelle macerie(la ricostruzione avvenne  soltanto   verso il 1950) all’angolo  con la   via (Galileo Galilei) che dovevo percorrere. Così conservai a lungo il ricordo della morte tanto precoce e casuale  di quei miei coetanei, con i quali avevo potuto giocare per non più di due ore in tutto:” E’ la guerra, bellezza!” 
30/04/2014 20:37:49
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