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Attualità
La strage di Parigi e il nuovo terrorismo in Occidente
Franco Livorsi
In questi giorni il nostro vecchio continente, la nostra patria europea, è stato colpito al cuore, che per moltissimi tra noi è proprio Parigi. Che cosa ci dice questa strage, innanzitutto nella sede di un giornale satirico già nel mirino del fanatismo islamico come “Charlie Hebdo”, e poi in una sorta di supermercato ebraico alle porte di Parigi, dov’è morto un terrorista dopo aver ucciso quattro innocenti, e in una tipografia in cui due terroristi già assassini di redattori dello “Charles” e molti altri innocenti sono stati abbattuti dopo un estremo tentativo di sortita all’esterno con le armi spianate?

 

IL CONTESTO

 

   Salto tutte le considerazioni connesse che vengono subito in mente, dalle più prossime alle più remote.

     Trascuro, insomma, la faccenda del carattere malamente protetto del settimanale (due guardie al “Charlie Ebdo”, una all’esterno e una all’interno a protezione del direttore, ma entrambe senza giubbetto antiproiettile e soprattutto in una casa e ambiente senza telecamere di sorveglianza).Non mi soffermo sulla sottovalutazione degli avvertimenti da parte dei servizi di sicurezza algerini e tunisini.

    Non considero neppure - come su “Città Futura” ha già ben fatto anche il nostro eccellente vignettista Giancarlo Borrelli - l’attacco alla libertà d’opinione da parte di un nuovo totalitarismo emergente in cammino. (Su ciò mi limito ad aggiungere che chi attacca la libertà di pensiero non è l’islamismo in generale, il quale è anzi la prima vittima del nuovo estremismo omicida in quanto esso diffonde nei popoli d’Occidente la paura verso i musulmani immigrati. Chi ci attacca è una minuscola minoranza estremista di musulmani settari. Questa sparuta minoranza, per quanto letale, non può essere confusa né con un miliardo di musulmani e neppure con l’insieme dei fondamentalisti, da cui pure emerge come gruppo a vocazione sia omicida che suicida).

   Neppure prendo in considerazione la segnalazione, in fondo consolatoria, delle immense responsabilità dell’Occidente, che prima ha allevato terroristi afghani contro i sovietici (come Bin Laden); e poi - per i soliti torbidi interessi petroliferi - ha preteso di scalzare dittatori che erano invece il frutto - spesso il meno arretrato possibile in date aree - della storia di certi popoli, come nella seconda guerra contro l’Iraq di Saddàm Hussein, o anche nell’intervento che ha portato all’eliminazione di Gheddafi in Libia.

    Salto pure le cause remote ma importantissime, anche da me segnalate su “Città Futura” già molti anni fa, nel 2005[1], tramite la constatazione che l’ordine internazionale è segnato da paci più o meno lunghe, che dopo grandi conflitti mondiali vedono sempre le grandi potenze, specie vincitrici, concordare le aree di controllo, come dopo le guerre napoleoniche con il congresso di Vienna del 1815; dopo la prima guerra mondiale con la pace di Versailles; e alla fine della seconda guerra mondiale col Patto di Yalta del 1944. In quest’ultimo atto però “l’ordine mondiale imposto finì col crollo del muro di Berlino del 1989 e con l’implosione dell’URSS del 1991: il che, come in ogni fase del genere anteriore, ha dato inizio ad un’epoca di pericolosa anomia mondiale, in cui siamo.

   Trascuro pure il fatto che la rivoluzione elettronica e il relativo flusso d’informazioni a getto continuo “per tutto il pianeta”, che nessuno potrebbe fermare, ed i connessi facili e incontenibili spostamenti di soldi e persone, e la grande miseria di popoli economicamente arretrati, hanno portato e portano migrazioni di popoli ancora maggiori di quelle della fine dell’antico impero romano verso Occidente verificatesi nel quarto e quinto secolo dopo Cristo. E qui taccio sul fatto che in conseguenza di tutto ciò religioni, culture e popoli diversi sono costretti a realizzare una convivenza, una coabitazione, una correlazione, una contaminazione, una fusione, in una parola un crogiolo reciproco, in una misura sin qui mai vista in tutta la storia umana. Perciò, se ci stavamo addormentando nell’illusione di una nuova “belle époque” tutta incentrata sul dominio assoluto del modello americano, come in “La fine della storia e l’ultimo uomo” del politologo  Francis Fukuyama, del 1992[2], ora possiamo stare anche troppo  svegli, a meno che non ci piaccia dormire in cima a una polveriera. Nella storia “passata” tutto ciò ha anticipato la nascita di nuovi autoritarismi e di nuove guerre. In un mio recente romanzo utopico-distopico (ossia sul migliore come sul peggiore dei mondi possibili), “Kali Yuga. Il crepuscolo del nostro mondo”[3] ho immaginato che una democrazia degenerata americana e un nuovo totalitarismo tra cinquant’anni arriveranno ad una guerra nucleare apocalittica. L’ho fatto non per segnalare la fatalità della catastrofe, ma cercando di mettere in guardia contro tale possibilità che sta ora nella pancia della storia, come un bubbone che sarebbe saggio distruggere. Il rischio è che la mia previsione, che era per il 2064, sia ottimistica.

   Qui, ora - mettendo tra parentesi tutti questi decisivi problemi, sebbene li abbia segnalati sullo sfondo - vorrei soffermarmi su quattro “soli” punti: 1) la natura internazionale del terrorismo o radicalismo “rivoluzionario” con cui abbiamo a che fare; 2) il carattere religioso dell’idea di rivoluzione, e il nesso che ha con l’islamismo radicale della nostra epoca; 3) l’urgenza di nuova religiosità e rivoluzione al cuore dell’Occidente;  4) il carattere senza alternative di una via riformistica, nella relazione tra grandi culture (nella fattispecie tra l’islamismo e il laicismo neocapitalistico occidentale).

 

IL NUOVO TERRORISMO COME EPISODIO DI UNA GUERRA “RIVOLUZIONARIA” DELL’ESTREMISMO MUSULMANO

 

   Punto primo. E’ inutile illudersi sul carattere “nazionale” e “marginale” del nuovo terrorismo. Infatti sta accadendo qualcosa che abbiamo già conosciuto negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, e che oggi si vede così poco e male perché quello che abbiamo tra i piedi ci è totalmente estraneo  (a meno che non siamo musulmani; ma comunque questi musulmani sono milioni). Negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, per seguitare nella metafora, c’era un grande scontro delle “forze rivoluzionarie” con l’impero americano, con i suoi atti di sopraffazione, le sue trame reazionarie, il suo capitalismo selvaggio, e i suoi modelli di vita egoistici, volgari, autoritari e fondati sul privilegio di pochi, come allora si riteneva: dal Vietnam alle tentate rivoluzioni castriste in America Latina. Oggi sappiamo che si chiudevano più omenototalmente gli occhi su imperi opposti, ma qui non m’interessa insistere su ciò. Quello scontro col capitalismo e imperialismo yankee, a base di guerriglie, fu mitizzato e, a livello di frange estreme, emulato in Occidente (come lo fu la reazione “fascista” alla rivoluzione, in riferimento al Cile di Pinochet e alla Grecia dei colonnelli). In verità tanto i biechi bombaroli stragisti dell’estrema destra quanto i pistoleri di estrema sinistra non avevano alcuna possibilità di fare la rivoluzione in un grande Paese d’occidente. Qui, infatti, non solo in una fase neocapitalistica e democratica come quella, ma addirittura dal primo dopoguerra, non si dà dominio senza egemonia (come ben spiegato da Gramsci)[4], per cui non si può prendere e mantenere il potere senza un vasto consenso spontaneo, come proprio i maggiori fascismi europei avevano dimostrato; ma esattamente questo vasto consenso, diciamo almeno di una decina di milioni di persone, nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta non cu fu mai né a favore dei biechi bombaroli neri né dei pretesi rivoluzionari rossi, come ogni elezione dimostrò sia sul versante della destra che della sinistra più estreme. Tuttavia, nonostante il velleitarismo, tutti questi antidemocratici - o in nome della rivoluzione reazionaria fascista o della rivoluzione del proletariato, furono ugualmente in grado di seminare, inutilmente, e vanamente, lutti e rovine. E poi, tardivamente, se ne andarono alla malora. Ci fu, infatti, un terrorismo di sinistra che ebbe le sue propaggini in Germania, in Francia e in Italia. Queste frange nel nostro Paese furono maggiori che altrove per tante ragioni, specie per il pescare nel torbido da parte di servizi segreti deviati e di politicanti “moderati” senza scrupoli[5], e moltissimo anche per la leggendaria inefficienza del nostro Stato, che fermò a quota mille quel che altrove si sarebbe fermato, e fu fermato, a quota cinquanta o cento. Oggi sta nascendo in Occidente un fenomeno omologo, di influenza su giovani (in tal caso immigrati musulmani), specie mal integrati e già cittadini, analogo al “rivoluzionarismo” e brigatismo di allora: un dato meno evidente a noi perché interno ai soli islamici, che però sono milioni. Questa volta ad essere mitizzati e, quel che è peggio, imitati “in guerriglia” in Paesi in cui questa non può portare risultati, non sono più Ho Chi Minh o Fidel Castro o Che Guevara, come accaduto dal Giangiacomo Feltrinelli dei suoi ultimi anni alle Brigate Rosse o a “Prima Linea”, bensì il Califfato e altre cose del genere. Sono fenomeni mitizzati e su piccola scala emulati tramite il terrorismo: non espressione di tutti i musulmani naturalmente, ma di una minuscola minoranza di fanatici, come allora, e però, come allora, con una zona grigia (qui musulmana) che se non li emula li capisce. Anche se il 90% degli interessati (in tal caso musulmani), non è affatto “zona grigia”, ma è ostile, come lo era stato in sommo grado gran parte della sinistra del passato col terrorismo “suo”, c’è (come c’era) un 10%  (qui dei musulmani d’Occidente) che li approva, li comprende e può talora aiutarli, considerandoli “compagni che sbagliano”. In sostanza c’è da attendersi, oggi, dopo gli attentati sanguinosi contro Parigi dei giorni scorsi, non un islamismo estremista vittorioso tra gli islamici, ma un minuscolo estremismo islamista che pur col suo carattere ultraminoritario scriverà altre pagine sanguinose, specie in Francia e forse Inghilterra (ma nessuno è del tutto immune, in questo periodo, neanche l’Italia; non facciamoci illusioni). Perciò credo che anche in Francia la tragedia non sia finita, benché il sangue scorrerà, ancora un’altra volta (come nell’altra, pretesa “marxista”), del tutto invano. E con il rischio di fare semplicemente l’interesse della reazione, ossia dell’estrema destra, come già l’altra volta se la società, grazie al cielo ormai solidamente neocapitalista e liberaldemocratica di tipo europeo, non avesse risposto all’antagonismo violento con un avanzato riformismo sociale. Ma quanto è grande la crisi del neocapitalismo e della democrazia oggi, dopo sette anni di grande crisi economica, dopo tante cattive prove delle élite del potere e dopo tanto disagio delle periferie?  Ad esempio in Francia questo estremismo islamico è manna dal cielo per il Front National di Marine Le Pen, che già era in testa nei sondaggi e cui gli attentati aprono una “meravigliosa” autostrada verso il potere, magari non proprio a portata di mano, ma ormai del tutto possibile.

 

IL SEGRETO O ESPLICITO LEGAME TRA RELIGIONE E RIVOLUZIONE

 

  Secondo punto. Su ciò mi appresto a dire, e anzi ribadire, anche se non m’illudo che molti se ne siano accorti, idee da me espresse altrove[6]. Al proposito mi piace ricordare il passaggio decisivo in cui Marx diceva, nella famosa “Prefazione” a “Per la critica dell’economia politica”, che al culmine delle crisi dei sistemi (per lui economici) si danno le grandi rivoluzioni, che sono praticamente le locomotive della storia[7]. Correggiamo dicendo - invece che sistemi - “grandi civiltà” (ad esempio come la nostra occidentale e “borghese” degli ultimi secoli). Introduciamo pure un ulteriore scenario come corollario. Al culmine della crisi si ha la rivoluzione oppure, senza quella, la guerra, come sua alternativa “d’imbarbarimento”; e subito prima, o subito dopo (ma si capisce che il “subito” qui vada inteso “cum grano salis”) una dittatura reazionaria invece che rivoluzionaria, o il suo equivalente “democratico”, che è una svolta di estrema destra. E infatti già si è detto di Marine Le Pen; ma anche in Italia assistiamo al fenomeno di una destra “classica”, nazionale e xenofoba, egemone nel centrodestra, cioè in campo conservatore e moderato.

   Comunque il punto che volevo enfatizzare è che in epoche di grande crisi della civiltà sorgono veri movimenti rivoluzionari (oppure reazionari).

   Anzi, il Novecento - con quel carattere sempre sorprendente della vecchia talpa che preparerebbe - quasi come spirito del tempo, o spirito della rivoluzione, gli opposti scenari storici[8] - ci ha messo di fronte al fenomeno inedito della combinazione tra rivoluzione e reazione. Forse già lo stalinismo era stato una strana miscela tra bolscevismo marxista e dispotismo ex zarista. Ma la combinazione, in una strana unione, che parrebbe “impossibile”, tra reazione e rivoluzione, era stata propria dei fascismi. Questi non erano stati né il rigurgito delle compagnie di ventura o dei capi delle signorie condottieri di epoche precapitaliste d’Italia come per Piero Gobetti[9], e forse neanche un “movimento reazionario con basi di massa” come per Togliatti[10], e neppure riformismo borghese, più o meno socialdemocratico, ma col manganello e olio di ricino, come spesso per Bordiga[11]; erano, in parte, un “incrocio”, quel che tecnicamente si dice un ircocervo o un ossimoro, cioè qualcosa che accosta cose incompatibili. Erano “reazione”, ma mimetizzavano, incorporandone tratti, la rivoluzione. Quest’interpretazione emerge con forza - dopo il ’45 ovviamente rimossa - specie dalla straordinaria, seppure un po’ mefistofelica, messe di scritti di Delio Cantimori - grandissimo intellettuale, massimo studioso delle eresie cinquecentesche e poi del giacobinismo - quand’era stato gentiliano e fervente, fascista e quasi nazista. Ma sin dalla sua fase fascista Cantimori, che poi sarebbe diventato comunista e traduttore del Capitale di Marx, si era accorto che i fascismi erano una miscela di componenti rivoluzionarie e reazionarie[12]. Però “per me” è indubbio che le componenti reazionarie, ossia restauratrici di un ordine capitalistico messo in crisi da forze ostili, fossero prevalenti nei fascismi; ma con tratti che mimetizzavano ed emulavano “l’opposto”, per molte ragioni che qui non è necessario vagliare. Quest’annotazione non vuole essere estemporanea, ma sottolineare che talora rivoluzione e reazione, anche se tra le due una prevale sempre (come forse in ogni “terzo sesso” prevale uno dei due fondamentali), si mescolano; e, soprattutto, che così è il fondamentalismo islamico, vasto fenomeno di radicalismo religioso di cui il terrorismo è un’espressione abnorme e specifica.

   Ma a questa centralità - nelle grandi crisi della civiltà - della rivoluzione (o della reazione) o della combinazione tra le due in un “terzo”, vorrei ora aggiungere una nota ulteriore per me decisiva, e che certo avrebbe fatto sobbalzare con irritazione il vecchio Marx sulla sua vecchia poltrona a Londra: tutte le rivoluzioni sono movimenti religiosi. L’avrebbe fatto sobbalzare perché per lui non la dimensione religiosa (“oppio dei popoli”[13]), ma l’economia in divenire è il filo rosso della storia. Ma le grandi svolte dell’umanità, da Cristo in poi, sono sempre state religiose, mentre le altre svolte sono state riassorbite al massimo in un secolo. Ciò sembra del tutto controfattuale, cioè contrario al semplice buon senso, in un’epoca materialista come quella stravincente a Occidente dal 1848 in poi. Ma si dovrebbe considerare che in realtà, come ben notato dall’anarcocomunista ed ex marxista Bookchin, non è il capitalismo a produrre il feticismo della merce, ma è il feticismo della merce a produrre il capitalismo[14]. Per questo il capitalismo, a dispetto di Marx e compagni, è sopravvissuto a tante immani catastrofi economiche o belliche: perché è una concezione del mondo prevalsa a livello intersoggettivo; è esattamente il culto del vitello d’oro[15] con cui dovette scontrarsi pure Mosè (che secondo Freud sarebbe stato ucciso dagli idolatri, e poi sostituito da un altro Mosè rifondatore del culto di Jahvé[16]); è il culto del dio denaro, che Marx sulla traccia di Shakespeare aveva tanto lucidamente colto nei “Manoscritti economico-filosofici” del 1844[17], quando suo malgrado era ancora mezzo idealista e per ciò enfatizzava ancora, spesso suo malgrado, i fenomeni della coscienza come forza motrice della storia (per me giustamente).

   Ma che cos’è la religione nel senso qui usato?

     A mio parere nel fenomeno religioso convergono due componenti, che spesso si uniscono,  ma con la prevalenza di una delle due. Da un lato la religione promette una soluzione alla grande questione della mortalità personale (tramite l’immortalità o la rinascita della propria essenza, nell’una o altra condizione, o comunque l’uscita e il rientro “in Dio”); dall’altro un “modello di perfezione” da realizzare, ossia il “sommo bene”, o il regno della perfetta giustizia. E’ il sogno di Isaia del Vecchio Testamento. E’ il mitico regno di Salomone e quello della sua rinascita. E’ l’attesa del nuovo Israele e Redentore degli ebrei. E’ l’idea del “regno di Dio” di Gesù Cristo, ora attenuata e ora radicalizzata già nel “Nuovo Testamento”, ma ciclicamente risorgente in mille movimenti settari, ereticali e di “salvezza”.[18] E’ l’ùmma o comunità dei credenti dei musulmani, è la mitica Arabia del Profeta, ma pure il Califfato preteso erede del “Profeta” Maometto e che oggi una minoranza estremista molto numerosa e determinata cerca di far rinascere a nome di tutti i musulmani. Ma è anche l’idea della società senza classi e senza Stato di Marx e di Rosa Luxemburg, di Lenin e di Bordiga, in cui non operi più la “legge” del plusvalore, e del connesso profitto (sia che se lo prendano i capitalisti o una burocrazia di stato), le merci non abbiano più valore di mercato, scompaia la moneta, e tutto sia sempre più di tutti: un “fine” che gli epigoni socialdemocratici come comunisti hanno messo in cornice, come una mera utopia, ma che per i rivoluzionari, almeno sino agli anni Venti del Novecento, e per una piccola minoranza tra loro anche dopo, era stato importantissimo, come minimo quale “fine” irrinunciabile, senza il quale il movimento sarebbe cieco, da anticipare per quanto possibile[19]. La questione, per loro, non era certo stata quella di mettere un capufficio statale al posto del padrone, sempre col poliziotto a fianco.

    In sostanza i rivoluzionari cercano sempre di realizzare una comunione umana che rappresenta – per usare le parole di “Stato e rivoluzione” di Lenin – un “salto di qualità nella storia”. La mia tesi è che la religione era stata rimossa dal marxismo e dal comunismo, che promettevano ciò, o almeno l’avvicinarsi passo passo a tale realtà (ossia la “fine della storia” o della pretesa “preistoria umana”[20]), in sostanza come religione secolarizzata; e che lo scacco del comunismo, ossia la sconfitta “definitiva” della religione secolarizzata ha realizzato la “rimozione della rimozione”, portando i “dannati della terra” a tornare alla religione. Per ora è accaduto miscelando il reazionario ritorno a modelli di esistenza premoderni detti conformi alla parola di “Dio”, ma in realtà aggiornati, con il finalismo rivoluzionario, e per ciò riscoprendo il tradizionalismo caro a alcuni sceicchi miliardari sauditi, che finanziano tali tendenze, con lo spirito rivoluzionario: esattamente come già avevano fatto, rispetto al vecchio assetto capitalistico, i fascismi. Di lì deriva oggi il sogno del califfato. Non so come andrà a finire in aree a stragrande maggioranza islamica e in cui il potere politico e quello religioso salvo che in Turchia - da Ataturk in poi - si sono spesso confusi, anche se in forma più laica in talune dittature o democrazie autoritarie per di più a base militare. Credo che lì la valutazione sarà da farsi caso per caso, ma aspettandosi l’emergere di parecchie dittature rivoluzionarie fondamentaliste. E’ accaduto dalla rivoluzione iraniana di Komeini (1979) in poi.

   Anzi, un altro connesso fenomeno assolutamente straordinario della nostra epoca è il fatto che tutto il mondo islamico, dopo un sonno millenario, sembra essersi rimesso in marcia. Forse Komeini stesso alla fine risulterà una specie di Martin Lutero dell’Islamismo, l’iniziatore della Riforma protestante nell’Islamismo, poi seguita, non in area sciita come la sua, bensì sunnita, da altre tendenze; come già l’anabattismo, il calvinismo o puritanesimo rispetto al luteranesimo (insomma, da tanti affluenti anche molto diversi). Forse l’Isis e il califfato alla fine risulteranno come le guerre dei contadini che il luteranesimo aveva suo malgrado attizzato con la sua Riforma e poi sanguinosamente incoraggiato a reprimere. Forse i fondamentalisti di tipo estremista saranno “fatti fuori” dagli islamici stessi (anzi è molto probabile, come del resto è già accaduto dall’Algeria di parecchi decenni fa all’Egitto di oggi). E si può giurare che di qui in poi - ammesso che non sia tardi (ma non lo penso) – tutti gli occidentali si guarderanno bene dall’andare a rompere le scatole ai dittatori o politici islamici autoritari che combattevano o combattano i fondamentalisti a casa loro (anche se ciò potrà essere molto cinico e tristissimo). Persino la dittatura siriana forse dormirà sonni tranquilli, almeno sul fronte occidentale.  

   Qui da noi, nei grandi paesi dell’Occidente capitalista e democratico, comunque si può ragionevolmente ritenere che gli estremisti islamici saranno sbaragliati per le stesse identiche ragioni per cui i brigatisti – fossero quelli neri orridamente stragisti, o quelli rossi terroristi pistoleri gambizzatori o assassini – lo furono negli anni Settanta e Ottanta del Novecento: in sostanza perché la grandissima parte del “loro” popolo di riferimento, nel suo 90%, non avrebbe mai voluto la loro medicina; e nel mondo civile non c’è dominio senza maggioranza non dico numerica, ma almeno virtualmente tale, visibilmente di milioni e milioni di persone. Naturalmente le cose – non bisogna mai scordarlo - sono molto diverse in tutti i paesi musulmani dalla fragile o troppo giovane struttura statale, ma questi sono problemi da paesi in via di sviluppo, in cui i movimenti fondamentalisti – lo ribadisco - hanno e avranno un grande ruolo.  Ma ciò ha poca relazione col terrorismo in  Occidente.

   Tuttavia non so se alla scala globale l’Occidente potrà durare a lungo, come modello cui i popoli via via si convertono per stare meglio, “sotto ogni clima”, com’è indubbiamente stato – sia pure tra grandi massacri di guerra e rivoluzioni o reazioni - negli ultimi secoli. La nostra decadenza diventa sempre più grande. Specie perché l’unificazione totale del mercato mondiale - aperta sia dalla fine del mondo di Yalta che dalla rivoluzione elettronica - hanno depotenziato il soggetto storico più baldanzoso della storia dell’Occidente: lo “Stato moderno” sorto più o meno cinquecento anni fa. Oggi nessuno può più fare né il “socialismo in un solo Paese” (Stalin e suoi epigoni) né il keynesismo in un solo paese. Una fetta molto grande della politica economica, che per lo Stato nazionale è stato si può dire dall’inizio l’area d’intervento centrale, è stata sottratta a ogni Stato nazionale. Con ciò è come se lo Stato nazionale fosse stato evirato. E’ un po’ meno vero negli Stati grandi come continenti, ma è vero dappertutto. Tuttavia in Europa non riescono ancora ad arrivare gli Stati Uniti d’Europa, e non si sa se arriveranno; e addirittura se l’Unione Europea non si spezzerà addirittura nel prossimo futuro. Perciò lo stesso mondo occidentale avrebbe bisogno di un fine rivoluzionario nuovo, che mettesse in campo una via di rinascita, per le ragioni di cui ho detto neoreligiosa, ma certo anche e altrettanto ecologica e solidale, come antidoto alla grande decadenza. Un tale finalismo rivoluzionario darebbe senso allo stesso riformismo, come diversi grandi marxisti italiani, da Lelio Basso a Togliatti, dopo il 1956, e forse pure molto prima, avevano compreso. Un grande fine deve illuminare il movimento migliorista quotidiano, come fossero due lati della medaglia. Solo che oggi la “dominante” di tale processo può essere solo di tipo riformista, in attesa che le altre variabili neorivoluzionarie si affermino. L’”antico fine” è ormai diventato un ferro vecchio della storia, con buona pace degli epigoni di ogni genere. La sintesi tra nuovo finalismo e concretismo migliorista però in Occidente tarda moltissimo a tornare, e forse non potrà accadere per un pezzo. Perciò il riformismo democratico, ad esempio il continuo tentativo di tenere insieme solidarismo sociale e governabilità effettiva  proprio del “renzismo”, è per me totalmente accettabile, sia pure in modo critico. Ma lo è, qui e dappertutto, solo come una specie di pragmatismo di sinistra, in vista di impostazioni rinnovatrici per ora lontane, ma necessarie. Insomma, siccome cullarsi nell’attesa che arrivi “non si sa che cosa” sarebbe insano, possiamo solo puntare sul riformismo. In tutte le sue forme. Possiamo farlo con decisione, ma anche con riserva:  tenendo sempre aperta una “Prospettiva” più avanzata, qual è nel XXI secolo - secondo me - una vera rinascita spirituale, ecologica e solidale. Infatti per superare i mali veramente profondi del nostro mondo è sempre aperto, sebbene ancora irrisolto, il problema di una nuova civiltà fondata su un nuovo sentire diffuso spirituale, ecologico e solidale. In attesa e anche in vista di ciò il riformismo democratico come socialdemocratico è ancora senza alternative e quindi dobbiamo tenercelo stretto, contro l’altra opzione “vera” in campo, che è quella “di destra”, e sempre più tale, anche dentro una cornice democratica (neppure più certa).

    Facciamo pure uno sforzo di obiettività, per quanto impossibile, Proviamo a immaginare, come cittadini, di scegliere la strada proposta dalla destra, che è in sostanza quella di agire da “fortezza assediata” dagli islamici e immigrati cercando di ridare autorità, potenza e sovranità agli Stati nazionali, senza paura di parere o essere “fascisti”. Le conseguenze in tal caso sono chiare. A parte tutte le immani obiezioni ideali e morali di tipo democratico e socialmente avanzato, faremmo esattamente il gioco del fondamentalismo estremista; e inoltre riusciremmo solo a rovinare la vita non solo ai nuovi o vecchi concittadini immigrati musulmani, ma innanzitutto a noi stessi. Infatti sono proprio gli estremisti a volere il conflitto delle civiltà, perché il primo nemico di ogni vero movimento rivoluzionario è proprio il riformismo moderato, che fa da intercapedine rispetto al “nemico da abbattere”. In pratica lo scontro tra le civiltà è esattamente quello che  vogliono gli estremisti islamici: all’interno dei paesi musulmani per togliere ogni credibilità ai regimi moderati, siano essi autoritari o talora “democratici”. La realtà dimostra che se gli occidentali fanno fuori i regimi moderati che siano stati o siano più, o meno, autoritari, ma tendenzialmente laici, poi al potere arrivano i fondamentalisti. Inoltre nei paesi occidentali, in cui i musulmani sono ormai una presenza ovunque di milioni di persone in ogni Stato importante, la politica della “faccia feroce” o del pugno duro o dello Stato contro i musulmani, o comunque con loro palesemente diffidente, servirebbe solo a mostrare ai musulmani che è proprio vero che l’Occidente è sempre tendente all’oppressione dei più poveri e dei “veri credenti”. Invece noi occidentali, non solo come progressisti, abbiamo esattamente l’interesse opposto: dobbiamo lasciare che in area musulmana lo scontro tra autoritarismo e democrazia se lo gestiscano i singoli paesi, salvo il caso in cui ci siano vuoi veri e propri delitti contro l’umanità “accertati” su vasta scala e vuoi, “ma insieme”, forti e credibili élite del potere pronte a prendere il posto dei tiranni rovesciabili. Altrimenti si fa una politica “da matti”. E all’interno dobbiamo dimostrare che siamo in grado di trasformare gli immigrati in cittadini, uguali a noi nei diritti e nei doveri. Tra l’altro la via della “tolleranza zero” e della repressione “legale” seleziona sempre il suo personale politico. Vi piace Le Pen? – Accomodatevi.  



[1] FRANCO LIVORSI, “Viviamo in un’epoca calamitosa”, “Città Futura on line”, 19 novembre 2005.

[2] L’opera fu subito tradotta in italiano, nello stesso 1992, a Milano da Rizzoli.

[3] Questo mio libro è uscito a Bergamo, preso la Moretti & Vitali, alla fine del 2014.

[4] A. GRAMSCI, “Quaderni del carcere”, 1929/1935, ma postumo 1948/1951 e soprattutto, edizione a cura dell’Istituto Gramsci e a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, quattro volumi.

[5] La strumentalizzazione del terrorismo da parte dei servizi segreti, specie a scopo di denigrazione della sinistra da parte di componenti o democristiane o di estrema destra, specie dei servizi segreti, è al centro delle molte dettagliate analisi di Giorgio Galli, culminate  in: “Storia del partito armato”, Milano, Rizzoli, 1986 e “Piombo Rosso”, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2007

[6] Su ciò rinvio soprattutto ai cap.  del mio libro “La critica marxista della civiltà capitalistica e il superamento del materialismo storuico. Note e riflessioni” e “Per una concezione psicologica della storia” in: “Coscienza e politica nella storia. Le motivazioni dell’azione collettiva nel pensiero politico contemporaneo. Dal 1800 al 2000”, Torino, Giappichelli, 2003, pp. 253-296 e, in una fase recente, al mio saggio: “La questione del mancato superamento del capitalismo alla luce del materialismo storico e della psicologia analitica”. “Anima e Terra”, a. I, n. 2, ottobr 2012, pp. 175-212.

[7] K. MARX, op. cit, nel 1859, e Roma, Editori Riuniti, 1959. Scriveva ivi Marx: “A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti (…). Questi rapporti da forme di sviluppo delle forze produttive si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura.”

[8] Ci riferiamo, naturalmente, all’immagine sulla Rivoluzione come antitesi che muove sotterraneamente la storia, e al connesso grido “Ben scavato, vecchia talpa”, del K. MARX di “Il 18 brumaio di Luigi  Bonaparte” (1852), a cura di G. Giorgetti, Roma, Editori Riuniti, 1964, p. 205.

[9] Su ciò si vedano tutte le vibranti e moralmente straordinarie, e però opinabili, pagine su Mussolini e sul fascismo di Piero GOBETTI, “La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia”, Bologna, Cappelli, 1924.

[10] P. TOGLIATTI, “Corso sugli avversari. Le lezioni sul fascismo” (1935), Torino, Einaudi, 2010. Il testo era già uscito, postumo, a cura di E. Ragionieri, presso gli Editori Riuniti, nel 1970.

[11] A. BORDIGA, “Come matura il noskismo”, “Il Comunista”, a. I, n. 43, 14 luglio 1921. Ma si veda soprattutto il volume: “Communisme et fascisme”, Marseille, “Programme comuniste”, 1970, specie in riferimento al saggio del settembre-ottobre 1922 “Il rapporto tra le forze socialie politiche in Italia”, comparso su “Rassegna comunista”, che alle relazioni sul fascismo al IV (1922) e V (1924) congresso dell’Internazionale comunista.

[12] D. CANTIMORI, “Eretici italiani del Cinquecento”, Firenze, Sansoni, 1939 (poi a c.di A. Prosperi, Torino, Einaudi, 1992); “Utopisti e riformatori italiani, 1794-1847. Ricerche storiche”, Sansoni, 1943; “Politica e storia contemporanea. Scritti 1927-1943”, Torino, Einaudi, 1992 (naturalmente decisivo per la tesi sul fascismo sopra richiamata).

[13] L’espressione è utilizzata da Marx in: “Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico. Introduzione”, in “Annali franco-tedeschi” (1844), a cura di G. M. Bravo, Milano, Edizioni Avanti!, 1965, pp. 125-142, specificamente a p. 126.

[14] M. BOKCHIN, “L’ecologia della libertà” (1982), Milano, Eleuthera, 1984, p. 247. Rinvio pure al mio libro: “Il mito della nuova terra. Cultura, ide e problemi dell’ambientalismo”, Milano, Giuffré, 2000.

[15] F. LIVORSI, “La questione del mancato superamento del capitalismo alla luce del materialismo storico e della psicologia analitica”, cit.

[16] .S. FREUD, “L’uomo Mosè e la religione monoteistica: tre saggi” (1934-1938), Torino, Bollati Boringhieri, in “Opere”, XI, 1979, pp. 329-453.

[17] In: K. MARX, “Opere filosofiche giovanili”, a cura di Galbano della Volpe, Editori Riuniti, 1963. Si tratta del capitolo  “Il denaro” dei “Manoscritti economico-filosofici del 1844”, pp. 252-256.

[18] Su tutto ciò l’elaborazione più ricca, interessante e straordinaria è quella del marxista “idealista” Ernst Bloch, dal suo classico “Lo spirito dell’utopia” (1918 e edizioni successive), a cura di F. Coppellotti, Firenze, Sansoni, 2004,  che fa del paradiso in terra, sempre riprogettato, e anche tentato, un’istanza e un progetto antropologicamente ricorrenti; a “Thomas Müntzer come teologo della rivoluzione” (1921), a cura di S. Zecchi, Milano, Feltrinelli, 2010, in cui il nesso tra rivoluzione e religione è verificato in riferimento a un grande riformatore dell’epoca di Lutero; a “Ateismo nel cristianesimo” (1968), Milano, Feltrinelli, 2005, che riprende l’istanza del Regno di Dio al di fuori della fede nel Dio, in specie  trascendente, che il filosofo non aveva; alla grande opera filosofica “Il principio speranza” (1954/1959), a cura dii R. Bodei, Milano, Garzanti, 2005, tre volumi, in cui la “speranza” redentiva si fa antropologia filosofica.

[19] Tutta la concezione marxiana dello Stato operaio come Stato che si estingue aveva senso solo in tale visuale. Il lettore di epoche successive del Lenin di “Stato e rivoluzione. La dottrina marxista dello Stato e i compiti del proletariato nella rivoluzione” (1917, ma 1918), in “Opere complete”, vol. XXV, giugno-settembre 1917, Roma, Editori Riuniti, 1967, pp. 361-477, ha trascurato questa parte relativa alla transizione dallo Stato operaio al socialismo, che è centrale. Tutta l’opera di Rosa Luxemburg, segnatamente in: “Riforma sociale e rivoluzione”,(1899), con Introduzione di L. Basso, Roma, Newton Compton, 1978, e in  “L’accumulazione del capitale” (1913), Torino, Einaudi, 1960, si capisce solo in tale contesto. Un’elaborazione molto interessante su ciò si ha in Amadeo Bordiga, prima in una lunga polemica con l’economista allora comunista di destra Antonio Graziadei in: “La teoria del plusvalore di Carlo Marx, base viva e vitale del comunismo”, “L’ordine nuovo”, n. 3-4, 1 aprile; n. 5, 1 settembre 1924; n. 6, 1 novembre 1924; poi soprattutto in “Proprietà e Capitale”, “Prometeo”, n. 10, 1914; n. 14, 1950; n. 1, 1950; n. 3-4, 1952 e in vol., Torino, Gruppo della sinistra comunista, 1972; “Dialogato coi morti”, “Il programma comunista”, n. 5, n. 10 e n.15 del 1956, poi Roma, Sul filo del tempo, 1977. Per i complessi problemi di attribuzione degli scritti del Bordiga della vecchiaia è ora indispensabile: “Amadeo Bordiga 1889-1970: Bibliografia”, a cura A. Peregalli e S. Saggioro, Milano, Colibrì, 1995. Rinvio pure al mio libro: “Amadeo Bordiga. Il pensiero e l’azione politica. 1912-1970”, Roma, Editori Riuniti, 1976.

[20] F. ENGELS, “L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza” (1880), Roma, Rinascita, 1956.

  Annotazioni interessanti sul marxismo e comunismo come religione sono svolte da J. MARITAIN in “Umanesimo integrale” (1936), a cura di P. Viotto, Roma, Borla, 1980.  Ho vagliato in dettaglio questa e altre opere filosofico politiche nel cap. “La coscienza personalista, Maritain e Mounier”, nel mio libro: “Coscienza e politica nella storia, Le motivazioni dell’azione collettiva nel pensiero politico contemporaneo”, cit. , pp. 345-387, specie 357-362.

12/01/2015 13:38:21
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