In questi giorni il nostro vecchio continente, la nostra
patria europea, è stato colpito al cuore, che per moltissimi tra noi è proprio
Parigi. Che cosa ci dice questa strage, innanzitutto nella sede di un giornale
satirico già nel mirino del fanatismo islamico come “Charlie Hebdo”, e poi in
una sorta di supermercato ebraico alle porte di Parigi, dov’è morto un
terrorista dopo aver ucciso quattro innocenti, e in una tipografia in cui due
terroristi già assassini di redattori dello “Charles” e molti altri innocenti sono
stati abbattuti dopo un estremo tentativo di sortita all’esterno con le armi
spianate?
IL CONTESTO
Salto tutte le
considerazioni connesse che vengono subito in mente, dalle più prossime alle
più remote.
Trascuro, insomma, la faccenda del carattere
malamente protetto del settimanale (due guardie al “Charlie Ebdo”, una
all’esterno e una all’interno a protezione del direttore, ma entrambe senza
giubbetto antiproiettile e soprattutto in una casa e ambiente senza telecamere
di sorveglianza).Non mi soffermo sulla sottovalutazione degli avvertimenti da
parte dei servizi di sicurezza algerini e tunisini.
Non considero
neppure - come su “Città Futura” ha già ben fatto anche il nostro eccellente
vignettista Giancarlo Borrelli - l’attacco alla libertà d’opinione da parte di
un nuovo totalitarismo emergente in cammino. (Su ciò mi limito ad aggiungere
che chi attacca la libertà di pensiero non è l’islamismo in generale, il quale
è anzi la prima vittima del nuovo estremismo omicida in quanto esso diffonde nei
popoli d’Occidente la paura verso i musulmani immigrati. Chi ci attacca è una
minuscola minoranza estremista di musulmani settari. Questa sparuta minoranza, per
quanto letale, non può essere confusa né con un miliardo di musulmani e neppure
con l’insieme dei fondamentalisti, da cui pure emerge come gruppo a vocazione
sia omicida che suicida).
Neppure prendo in
considerazione la segnalazione, in fondo consolatoria, delle immense
responsabilità dell’Occidente, che prima ha allevato terroristi afghani contro
i sovietici (come Bin Laden); e poi - per i soliti torbidi interessi
petroliferi - ha preteso di scalzare dittatori che erano invece il frutto - spesso
il meno arretrato possibile in date aree - della storia di certi popoli, come
nella seconda guerra contro l’Iraq di Saddàm Hussein, o anche nell’intervento che
ha portato all’eliminazione di Gheddafi in Libia.
Salto pure le cause remote ma importantissime,
anche da me segnalate su “Città Futura” già molti anni fa, nel 2005,
tramite la constatazione che l’ordine internazionale è segnato da paci più o
meno lunghe, che dopo grandi conflitti mondiali vedono sempre le grandi potenze,
specie vincitrici, concordare le aree di controllo, come dopo le guerre
napoleoniche con il congresso di Vienna del 1815; dopo la prima guerra mondiale
con la pace di Versailles; e alla fine della seconda guerra mondiale col Patto
di Yalta del 1944. In
quest’ultimo atto però “l’ordine mondiale imposto finì col crollo del muro di
Berlino del 1989 e con l’implosione dell’URSS del 1991: il che, come in ogni
fase del genere anteriore, ha dato inizio ad un’epoca di pericolosa anomia
mondiale, in cui siamo.
Trascuro pure il
fatto che la rivoluzione elettronica e il relativo flusso d’informazioni a
getto continuo “per tutto il pianeta”, che nessuno potrebbe fermare, ed i
connessi facili e incontenibili spostamenti di soldi e persone, e la grande
miseria di popoli economicamente arretrati, hanno portato e portano migrazioni
di popoli ancora maggiori di quelle della fine dell’antico impero romano verso
Occidente verificatesi nel quarto e quinto secolo dopo Cristo. E qui taccio sul
fatto che in conseguenza di tutto ciò religioni, culture e popoli diversi sono costretti a realizzare una convivenza,
una coabitazione, una correlazione, una contaminazione, una fusione, in una
parola un crogiolo reciproco, in una misura sin qui mai vista in tutta la
storia umana. Perciò, se ci stavamo addormentando nell’illusione di una nuova
“belle époque” tutta incentrata sul dominio assoluto del modello americano,
come in “La fine della storia e l’ultimo
uomo” del politologo Francis
Fukuyama, del 1992, ora possiamo stare anche
troppo svegli, a meno che non ci piaccia
dormire in cima a una polveriera. Nella storia “passata” tutto ciò ha
anticipato la nascita di nuovi autoritarismi e di nuove guerre. In un mio
recente romanzo utopico-distopico (ossia sul migliore come sul peggiore dei
mondi possibili), “Kali Yuga. Il crepuscolo
del nostro mondo” ho
immaginato che una democrazia degenerata americana e un nuovo totalitarismo tra
cinquant’anni arriveranno ad una guerra nucleare apocalittica. L’ho fatto non
per segnalare la fatalità della catastrofe, ma cercando di mettere in guardia
contro tale possibilità che sta ora nella pancia della storia, come un bubbone
che sarebbe saggio distruggere. Il rischio è che la mia previsione, che era per
il 2064, sia ottimistica.
Qui, ora - mettendo
tra parentesi tutti questi decisivi problemi, sebbene li abbia segnalati sullo
sfondo - vorrei soffermarmi su quattro “soli” punti: 1) la natura
internazionale del terrorismo o radicalismo “rivoluzionario” con cui abbiamo a
che fare; 2) il carattere religioso dell’idea di rivoluzione, e il nesso che ha
con l’islamismo radicale della nostra epoca; 3) l’urgenza di nuova religiosità
e rivoluzione al cuore dell’Occidente; 4)
il carattere senza alternative di una via riformistica, nella relazione tra
grandi culture (nella fattispecie tra l’islamismo e il laicismo
neocapitalistico occidentale).
IL NUOVO TERRORISMO COME EPISODIO DI UNA GUERRA
“RIVOLUZIONARIA” DELL’ESTREMISMO MUSULMANO
Punto primo. E’
inutile illudersi sul carattere “nazionale” e “marginale” del nuovo terrorismo.
Infatti sta accadendo qualcosa che abbiamo già conosciuto negli anni Sessanta e
Settanta del Novecento, e che oggi si vede così poco e male perché quello che
abbiamo tra i piedi ci è totalmente estraneo
(a meno che non siamo musulmani; ma comunque questi musulmani sono milioni).
Negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, per seguitare nella metafora,
c’era un grande scontro delle “forze rivoluzionarie” con l’impero americano, con
i suoi atti di sopraffazione, le sue trame reazionarie, il suo capitalismo
selvaggio, e i suoi modelli di vita egoistici, volgari, autoritari e fondati
sul privilegio di pochi, come allora si riteneva: dal Vietnam alle tentate
rivoluzioni castriste in America Latina. Oggi sappiamo che si chiudevano più
omenototalmente gli occhi su imperi opposti, ma qui non m’interessa insistere
su ciò. Quello scontro col capitalismo e imperialismo yankee, a base di
guerriglie, fu mitizzato e, a livello di frange estreme, emulato in Occidente
(come lo fu la reazione “fascista” alla rivoluzione, in riferimento al Cile di
Pinochet e alla Grecia dei colonnelli). In verità tanto i biechi bombaroli
stragisti dell’estrema destra quanto i pistoleri di estrema sinistra non
avevano alcuna possibilità di fare la rivoluzione in un grande Paese
d’occidente. Qui, infatti, non solo in una fase neocapitalistica e democratica
come quella, ma addirittura dal primo dopoguerra, non si dà dominio senza
egemonia (come ben spiegato da Gramsci), per
cui non si può prendere e mantenere il potere senza un vasto consenso spontaneo,
come proprio i maggiori fascismi europei avevano dimostrato; ma esattamente
questo vasto consenso, diciamo almeno di una decina di milioni di persone,
nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta non cu fu mai né a favore dei biechi
bombaroli neri né dei pretesi rivoluzionari rossi, come ogni elezione dimostrò
sia sul versante della destra che della sinistra più estreme. Tuttavia,
nonostante il velleitarismo, tutti questi antidemocratici - o in nome della
rivoluzione reazionaria fascista o della rivoluzione del proletariato, furono ugualmente
in grado di seminare, inutilmente, e vanamente, lutti e rovine. E poi,
tardivamente, se ne andarono alla malora. Ci fu, infatti, un terrorismo di
sinistra che ebbe le sue propaggini in Germania, in Francia e in Italia. Queste
frange nel nostro Paese furono maggiori che altrove per tante ragioni, specie
per il pescare nel torbido da parte di servizi segreti deviati e di politicanti
“moderati” senza scrupoli, e moltissimo
anche per la leggendaria inefficienza del nostro Stato, che fermò a quota mille
quel che altrove si sarebbe fermato, e fu fermato, a quota cinquanta o cento.
Oggi sta nascendo in Occidente un fenomeno omologo, di influenza su giovani (in
tal caso immigrati musulmani), specie mal integrati e già cittadini, analogo al
“rivoluzionarismo” e brigatismo di allora: un dato meno evidente a noi perché
interno ai soli islamici, che però sono milioni. Questa volta ad essere
mitizzati e, quel che è peggio, imitati “in guerriglia” in Paesi in cui questa
non può portare risultati, non sono più Ho Chi Minh o Fidel Castro o Che Guevara,
come accaduto dal Giangiacomo Feltrinelli dei suoi ultimi anni alle Brigate
Rosse o a “Prima Linea”, bensì il Califfato e altre cose del genere. Sono
fenomeni mitizzati e su piccola scala emulati tramite il terrorismo: non espressione
di tutti i musulmani naturalmente, ma di una minuscola minoranza di fanatici, come
allora, e però, come allora, con una zona grigia (qui musulmana) che se non li
emula li capisce. Anche se il 90% degli interessati (in tal caso musulmani), non
è affatto “zona grigia”, ma è ostile, come lo era stato in sommo grado gran
parte della sinistra del passato col terrorismo “suo”, c’è (come c’era) un 10% (qui dei musulmani d’Occidente) che li
approva, li comprende e può talora aiutarli, considerandoli “compagni che
sbagliano”. In sostanza c’è da attendersi, oggi, dopo gli attentati sanguinosi
contro Parigi dei giorni scorsi, non un islamismo estremista vittorioso tra gli
islamici, ma un minuscolo estremismo islamista che pur col suo carattere
ultraminoritario scriverà altre pagine sanguinose, specie in Francia e forse
Inghilterra (ma nessuno è del tutto immune, in questo periodo, neanche l’Italia;
non facciamoci illusioni). Perciò credo che anche in Francia la tragedia non
sia finita, benché il sangue scorrerà, ancora un’altra volta (come nell’altra, pretesa
“marxista”), del tutto invano. E con il rischio di fare semplicemente
l’interesse della reazione, ossia dell’estrema destra, come già l’altra volta
se la società, grazie al cielo ormai solidamente neocapitalista e
liberaldemocratica di tipo europeo, non avesse risposto all’antagonismo
violento con un avanzato riformismo sociale. Ma quanto è grande la crisi del
neocapitalismo e della democrazia oggi, dopo sette anni di grande crisi
economica, dopo tante cattive prove delle élite del potere e dopo tanto disagio
delle periferie? Ad esempio in Francia
questo estremismo islamico è manna dal cielo per il Front National di Marine Le
Pen, che già era in testa nei sondaggi e cui gli attentati aprono una
“meravigliosa” autostrada verso il potere, magari non proprio a portata di
mano, ma ormai del tutto possibile.
IL SEGRETO O ESPLICITO LEGAME TRA RELIGIONE E RIVOLUZIONE
Secondo punto. Su
ciò mi appresto a dire, e anzi ribadire, anche se non m’illudo che molti se ne
siano accorti, idee da me espresse altrove. Al
proposito mi piace ricordare il passaggio decisivo in cui Marx diceva, nella
famosa “Prefazione” a “Per la critica dell’economia politica”,
che al culmine delle crisi dei sistemi (per lui economici) si danno le grandi
rivoluzioni, che sono praticamente le locomotive della storia.
Correggiamo dicendo - invece che sistemi - “grandi civiltà” (ad esempio come la
nostra occidentale e “borghese” degli ultimi secoli). Introduciamo pure un ulteriore
scenario come corollario. Al culmine della crisi si ha la rivoluzione oppure,
senza quella, la guerra, come sua alternativa “d’imbarbarimento”; e subito
prima, o subito dopo (ma si capisce che il “subito” qui vada inteso “cum grano
salis”) una dittatura reazionaria invece che rivoluzionaria, o il suo
equivalente “democratico”, che è una svolta di estrema destra. E infatti già si
è detto di Marine Le Pen; ma anche in Italia assistiamo al fenomeno di una
destra “classica”, nazionale e xenofoba, egemone nel centrodestra, cioè in
campo conservatore e moderato.
Comunque il punto
che volevo enfatizzare è che in epoche di grande crisi della civiltà sorgono veri
movimenti rivoluzionari (oppure reazionari).
Anzi, il Novecento
- con quel carattere sempre sorprendente della vecchia talpa che preparerebbe -
quasi come spirito del tempo, o spirito della rivoluzione, gli opposti scenari
storici - ci
ha messo di fronte al fenomeno inedito della combinazione tra rivoluzione e
reazione. Forse già lo stalinismo era stato una strana miscela tra bolscevismo
marxista e dispotismo ex zarista. Ma la combinazione, in una strana unione, che
parrebbe “impossibile”, tra reazione e rivoluzione, era stata propria dei
fascismi. Questi non erano stati né il rigurgito delle compagnie di ventura o
dei capi delle signorie condottieri di epoche precapitaliste d’Italia come per Piero
Gobetti, e
forse neanche un “movimento reazionario con basi di massa” come per Togliatti, e
neppure riformismo borghese, più o meno socialdemocratico, ma col manganello e
olio di ricino, come spesso per Bordiga;
erano, in parte, un “incrocio”, quel che tecnicamente si dice un ircocervo o un
ossimoro, cioè qualcosa che accosta cose incompatibili. Erano “reazione”, ma
mimetizzavano, incorporandone tratti, la rivoluzione. Quest’interpretazione
emerge con forza - dopo il ’45 ovviamente rimossa - specie dalla straordinaria,
seppure un po’ mefistofelica, messe di scritti di Delio Cantimori - grandissimo
intellettuale, massimo studioso delle eresie cinquecentesche e poi del
giacobinismo - quand’era stato gentiliano e fervente, fascista e quasi nazista.
Ma sin dalla sua fase fascista Cantimori, che poi sarebbe diventato comunista e
traduttore del Capitale di Marx, si
era accorto che i fascismi erano una miscela di componenti rivoluzionarie e
reazionarie. Però “per me” è indubbio
che le componenti reazionarie, ossia restauratrici di un ordine capitalistico
messo in crisi da forze ostili, fossero prevalenti nei fascismi; ma con tratti
che mimetizzavano ed emulavano “l’opposto”, per molte ragioni che qui non è
necessario vagliare. Quest’annotazione non vuole essere estemporanea, ma
sottolineare che talora rivoluzione e reazione, anche se tra le due una prevale
sempre (come forse in ogni “terzo sesso” prevale uno dei due fondamentali), si
mescolano; e, soprattutto, che così è il fondamentalismo islamico, vasto
fenomeno di radicalismo religioso di cui il terrorismo è un’espressione abnorme
e specifica.
Ma a questa
centralità - nelle grandi crisi della civiltà - della rivoluzione (o della
reazione) o della combinazione tra le due in un “terzo”, vorrei ora aggiungere
una nota ulteriore per me decisiva, e che certo avrebbe fatto sobbalzare con
irritazione il vecchio Marx sulla sua vecchia poltrona a Londra: tutte le rivoluzioni sono movimenti
religiosi. L’avrebbe fatto sobbalzare perché per lui non la dimensione
religiosa (“oppio dei popoli”), ma
l’economia in divenire è il filo rosso della storia. Ma le grandi svolte
dell’umanità, da Cristo in poi, sono sempre state religiose, mentre le altre svolte
sono state riassorbite al massimo in un secolo. Ciò sembra del tutto controfattuale,
cioè contrario al semplice buon senso, in un’epoca materialista come quella
stravincente a Occidente dal 1848
in poi. Ma si dovrebbe considerare che in realtà, come
ben notato dall’anarcocomunista ed ex marxista Bookchin, non è il capitalismo a
produrre il feticismo della merce, ma è il feticismo della merce a produrre il
capitalismo. Per questo il
capitalismo, a dispetto di Marx e compagni, è sopravvissuto a tante immani
catastrofi economiche o belliche: perché è una concezione del mondo prevalsa a
livello intersoggettivo; è esattamente il culto del vitello d’oro con
cui dovette scontrarsi pure Mosè (che secondo Freud sarebbe stato ucciso dagli
idolatri, e poi sostituito da un altro Mosè rifondatore del culto di Jahvé); è
il culto del dio denaro, che Marx sulla traccia di Shakespeare aveva tanto
lucidamente colto nei “Manoscritti
economico-filosofici” del 1844,
quando suo malgrado era ancora mezzo idealista e per ciò enfatizzava ancora,
spesso suo malgrado, i fenomeni della coscienza come forza motrice della storia
(per me giustamente).
Ma che cos’è la
religione nel senso qui usato?
A mio parere nel fenomeno religioso convergono
due componenti, che spesso si uniscono,
ma con la prevalenza di una delle due. Da un lato la religione promette
una soluzione alla grande questione della mortalità personale (tramite
l’immortalità o la rinascita della propria essenza, nell’una o altra condizione,
o comunque l’uscita e il rientro “in Dio”); dall’altro un “modello di
perfezione” da realizzare, ossia il “sommo bene”, o il regno della perfetta
giustizia. E’ il sogno di Isaia del Vecchio Testamento. E’ il mitico regno di
Salomone e quello della sua rinascita. E’ l’attesa del nuovo Israele e
Redentore degli ebrei. E’ l’idea del “regno di Dio” di Gesù Cristo, ora
attenuata e ora radicalizzata già nel “Nuovo Testamento”, ma ciclicamente
risorgente in mille movimenti settari, ereticali e di “salvezza”. E’
l’ùmma o comunità dei credenti dei
musulmani, è la mitica Arabia del Profeta, ma pure il Califfato preteso erede
del “Profeta” Maometto e che oggi una minoranza estremista molto numerosa e
determinata cerca di far rinascere a nome di tutti i musulmani. Ma è anche
l’idea della società senza classi e senza Stato di Marx e di Rosa Luxemburg, di
Lenin e di Bordiga, in cui non operi più la “legge” del plusvalore, e del
connesso profitto (sia che se lo prendano i capitalisti o una burocrazia di stato),
le merci non abbiano più valore di mercato, scompaia la moneta, e tutto sia
sempre più di tutti: un “fine” che gli epigoni socialdemocratici come comunisti
hanno messo in cornice, come una mera utopia, ma che per i rivoluzionari,
almeno sino agli anni Venti del Novecento, e per una piccola minoranza tra loro
anche dopo, era stato importantissimo, come minimo quale “fine” irrinunciabile,
senza il quale il movimento sarebbe cieco, da anticipare per quanto possibile. La
questione, per loro, non era certo stata quella di mettere un capufficio
statale al posto del padrone, sempre col poliziotto a fianco.
In sostanza i
rivoluzionari cercano sempre di realizzare una comunione umana che rappresenta
– per usare le parole di “Stato e
rivoluzione” di Lenin – un “salto di qualità nella storia”. La mia tesi è
che la religione era stata rimossa dal marxismo e dal comunismo, che
promettevano ciò, o almeno l’avvicinarsi passo passo a tale realtà (ossia la
“fine della storia” o della pretesa “preistoria umana”), in
sostanza come religione secolarizzata; e che lo scacco del comunismo, ossia la
sconfitta “definitiva” della religione secolarizzata ha realizzato la
“rimozione della rimozione”, portando i “dannati della terra” a tornare alla
religione. Per ora è accaduto miscelando il reazionario ritorno a modelli di
esistenza premoderni detti conformi alla parola di “Dio”, ma in realtà
aggiornati, con il finalismo rivoluzionario, e per ciò riscoprendo il
tradizionalismo caro a alcuni sceicchi miliardari sauditi, che finanziano tali
tendenze, con lo spirito rivoluzionario: esattamente come già avevano fatto,
rispetto al vecchio assetto capitalistico, i fascismi. Di lì deriva oggi il
sogno del califfato. Non so come andrà a finire in aree a stragrande
maggioranza islamica e in cui il potere politico e quello religioso salvo che
in Turchia - da Ataturk in poi - si sono spesso confusi, anche se in forma più
laica in talune dittature o democrazie autoritarie per di più a base militare.
Credo che lì la valutazione sarà da farsi caso per caso, ma aspettandosi l’emergere
di parecchie dittature rivoluzionarie fondamentaliste. E’ accaduto dalla
rivoluzione iraniana di Komeini (1979) in poi.
Anzi, un altro
connesso fenomeno assolutamente straordinario della nostra epoca è il fatto che
tutto il mondo islamico, dopo un sonno millenario, sembra essersi rimesso in
marcia. Forse Komeini stesso alla fine risulterà una specie di Martin Lutero dell’Islamismo,
l’iniziatore della Riforma protestante nell’Islamismo, poi seguita, non in area
sciita come la sua, bensì sunnita, da altre tendenze; come già l’anabattismo, il
calvinismo o puritanesimo rispetto al luteranesimo (insomma, da tanti affluenti
anche molto diversi). Forse l’Isis e il califfato alla fine risulteranno come
le guerre dei contadini che il luteranesimo aveva suo malgrado attizzato con la
sua Riforma e poi sanguinosamente incoraggiato a reprimere. Forse i
fondamentalisti di tipo estremista saranno “fatti fuori” dagli islamici stessi
(anzi è molto probabile, come del resto è già accaduto dall’Algeria di parecchi
decenni fa all’Egitto di oggi). E si può giurare che di qui in poi - ammesso
che non sia tardi (ma non lo penso) – tutti gli occidentali si guarderanno bene
dall’andare a rompere le scatole ai dittatori o politici islamici autoritari
che combattevano o combattano i fondamentalisti a casa loro (anche se ciò potrà
essere molto cinico e tristissimo). Persino la dittatura siriana forse dormirà
sonni tranquilli, almeno sul fronte occidentale.
Qui da noi, nei
grandi paesi dell’Occidente capitalista e democratico, comunque si può
ragionevolmente ritenere che gli estremisti islamici saranno sbaragliati per le
stesse identiche ragioni per cui i brigatisti – fossero quelli neri orridamente
stragisti, o quelli rossi terroristi pistoleri gambizzatori o assassini – lo
furono negli anni Settanta e Ottanta del Novecento: in sostanza perché la
grandissima parte del “loro” popolo di riferimento, nel suo 90%, non avrebbe
mai voluto la loro medicina; e nel mondo civile non c’è dominio senza
maggioranza non dico numerica, ma almeno virtualmente tale, visibilmente di
milioni e milioni di persone. Naturalmente le cose – non bisogna mai scordarlo
- sono molto diverse in tutti i paesi musulmani dalla fragile o troppo giovane
struttura statale, ma questi sono problemi da paesi in via di sviluppo, in cui
i movimenti fondamentalisti – lo ribadisco - hanno e avranno un grande ruolo. Ma ciò ha poca relazione col terrorismo
in Occidente.
Tuttavia non so se
alla scala globale l’Occidente potrà durare a lungo, come modello cui i popoli
via via si convertono per stare meglio, “sotto ogni clima”, com’è indubbiamente
stato – sia pure tra grandi massacri di guerra e rivoluzioni o reazioni - negli
ultimi secoli. La nostra decadenza diventa sempre più grande. Specie perché
l’unificazione totale del mercato mondiale - aperta sia dalla fine del mondo di
Yalta che dalla rivoluzione elettronica - hanno depotenziato il soggetto
storico più baldanzoso della storia dell’Occidente: lo “Stato moderno” sorto
più o meno cinquecento anni fa. Oggi nessuno può più fare né il “socialismo in
un solo Paese” (Stalin e suoi epigoni) né il keynesismo in un solo paese. Una
fetta molto grande della politica economica, che per lo Stato nazionale è stato
si può dire dall’inizio l’area d’intervento centrale, è stata sottratta a ogni
Stato nazionale. Con ciò è come se lo Stato nazionale fosse stato evirato. E’
un po’ meno vero negli Stati grandi come continenti, ma è vero dappertutto.
Tuttavia in Europa non riescono ancora ad arrivare gli Stati Uniti d’Europa, e
non si sa se arriveranno; e addirittura se l’Unione Europea non si spezzerà
addirittura nel prossimo futuro. Perciò lo stesso mondo occidentale avrebbe
bisogno di un fine rivoluzionario nuovo, che mettesse in campo una via di rinascita,
per le ragioni di cui ho detto neoreligiosa, ma certo anche e altrettanto
ecologica e solidale, come antidoto alla grande decadenza. Un tale finalismo
rivoluzionario darebbe senso allo stesso riformismo, come diversi grandi
marxisti italiani, da Lelio Basso a Togliatti, dopo il 1956, e forse pure molto
prima, avevano compreso. Un grande fine deve illuminare il movimento
migliorista quotidiano, come fossero due lati della medaglia. Solo che oggi la
“dominante” di tale processo può essere solo di tipo riformista, in attesa che
le altre variabili neorivoluzionarie si affermino. L’”antico fine” è ormai
diventato un ferro vecchio della storia, con buona pace degli epigoni di ogni
genere. La sintesi tra nuovo finalismo e concretismo migliorista però in Occidente
tarda moltissimo a tornare, e forse non potrà accadere per un pezzo. Perciò il
riformismo democratico, ad esempio il continuo tentativo di tenere insieme
solidarismo sociale e governabilità effettiva
proprio del “renzismo”, è per me totalmente accettabile, sia pure in
modo critico. Ma lo è, qui e dappertutto, solo come una specie di pragmatismo
di sinistra, in vista di impostazioni rinnovatrici per ora lontane, ma
necessarie. Insomma, siccome cullarsi nell’attesa che arrivi “non si sa che
cosa” sarebbe insano, possiamo solo puntare sul riformismo. In tutte le sue
forme. Possiamo farlo con decisione, ma anche con riserva: tenendo sempre aperta una “Prospettiva” più
avanzata, qual è nel XXI secolo - secondo me - una vera rinascita spirituale,
ecologica e solidale. Infatti per superare i mali veramente profondi del nostro
mondo è sempre aperto, sebbene ancora irrisolto, il problema di una nuova
civiltà fondata su un nuovo sentire diffuso spirituale, ecologico e solidale.
In attesa e anche in vista di ciò il riformismo democratico come
socialdemocratico è ancora senza alternative e quindi dobbiamo tenercelo
stretto, contro l’altra opzione “vera” in campo, che è quella “di destra”, e
sempre più tale, anche dentro una cornice democratica (neppure più certa).
Facciamo pure uno
sforzo di obiettività, per quanto impossibile, Proviamo a immaginare, come
cittadini, di scegliere la strada proposta dalla destra, che è in sostanza
quella di agire da “fortezza assediata” dagli islamici e immigrati cercando di ridare
autorità, potenza e sovranità agli Stati nazionali, senza paura di parere o
essere “fascisti”. Le conseguenze in tal caso sono chiare. A parte tutte le immani
obiezioni ideali e morali di tipo democratico e socialmente avanzato, faremmo
esattamente il gioco del fondamentalismo estremista; e inoltre riusciremmo solo
a rovinare la vita non solo ai nuovi o vecchi concittadini immigrati musulmani,
ma innanzitutto a noi stessi. Infatti sono proprio gli estremisti a volere il
conflitto delle civiltà, perché il primo nemico di ogni vero movimento
rivoluzionario è proprio il riformismo moderato, che fa da intercapedine
rispetto al “nemico da abbattere”. In pratica lo scontro tra le civiltà è
esattamente quello che vogliono gli
estremisti islamici: all’interno dei paesi musulmani per togliere ogni
credibilità ai regimi moderati, siano essi autoritari o talora “democratici”.
La realtà dimostra che se gli occidentali fanno fuori i regimi moderati che
siano stati o siano più, o meno, autoritari, ma tendenzialmente laici, poi al
potere arrivano i fondamentalisti. Inoltre nei paesi occidentali, in cui i
musulmani sono ormai una presenza ovunque di milioni di persone in ogni Stato
importante, la politica della “faccia feroce” o del pugno duro o dello Stato
contro i musulmani, o comunque con loro palesemente diffidente, servirebbe solo
a mostrare ai musulmani che è proprio vero che l’Occidente è sempre tendente
all’oppressione dei più poveri e dei “veri credenti”. Invece noi occidentali,
non solo come progressisti, abbiamo esattamente l’interesse opposto: dobbiamo
lasciare che in area musulmana lo scontro tra autoritarismo e democrazia se lo
gestiscano i singoli paesi, salvo il caso in cui ci siano vuoi veri e propri
delitti contro l’umanità “accertati” su vasta scala e vuoi, “ma insieme”, forti
e credibili élite del potere pronte a prendere il posto dei tiranni
rovesciabili. Altrimenti si fa una politica “da matti”. E all’interno dobbiamo
dimostrare che siamo in grado di trasformare gli immigrati in cittadini, uguali
a noi nei diritti e nei doveri. Tra l’altro la via della “tolleranza zero” e
della repressione “legale” seleziona sempre il suo personale politico. Vi piace
Le Pen? – Accomodatevi.