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Finis Terrae
Finis terrae (XVII)
Giancarlo Patrucco

Se è complicato ottenere indicazioni sui luoghi, non è meno difficile ricavare informazioni relative alle persone: alla loro vita e persino ai loro nomi. E parliamo dei potenti,  perché degli altri non si fa  menzione quasi mai. I motivi sono tanti e ci vuole un po’ per elencarli tutti. Dunque, andiamo per ordine.

In primo luogo, cominciamo da come venivano chiamati. Durante tutto l’alto medioevo, ognuno era conosciuto esclusivamente per il nome. Fu soltanto dopo il 1.000 che si evidenziò la presenza dei cognomi, vuoi per la concomitante crescita demografica che per il progressivo inurbamento. Infatti, se le piccole comunità potevano facilmente identificare ogni individuo, magari con l’aggiunta di un soprannome o col nome di padre/madre, il sistema entra in crisi quando si tratta di riconoscere, classificare e magari contare le crescenti masse cittadine. Così, i soprannomi, i patronimici, i nomi legati al lavoro svolto e alla provenienza si tramutano progressivamente in cognomi: Di Matteo, Di Michele, Di Francia; oppure Callegari, Sartori, Vinai; e anche Smorto, Guastavigna, Gambacorta, Cortese.

Per una diffusione sistematica del cognome, in Italia bisognerà aspettare comunque il periodo tra Medioevo e Rinascimento. Perché essa diventi obbligatoria, bisognerà arrivare al Concilio di Trento (1543-1563).

Intanto, negli anni avanti il millennio, l’identità primaria resta consegnata a un nemico molto potente: l’ignoranza. Infatti, pochissimi a quei tempi sono coloro in grado di leggere; ancor meno quelli capaci di scrivere. Anche all’interno della classe nobile, dove è piuttosto comune trovare conti, marchesi e baroni analfabeti, ma persino grandi re e potenti imperatori costretti ad arretrare di fronte a una qualsiasi pergamena.  Così, le cose scritte sono viste con quel misto di diffidenza e di reverenza che è proprio dei misteri, sia che si tratti di atti della quotidianità, come rogiti, compravendite e lasciti testamentari, sia che ci si riferisca all’amministrazione di regni. E coloro che ne sanno penetrare i segreti costituiscono una casta chiusa, a cui ognuno rimette una parte intima di sé, delle sue aspirazioni e dei suoi voleri. Fino agli uomini di chiesa, canonici, presbiteri o chierici, a cui è affidata la parola delle parole, quella sacra, che penetra le porte dell’anima e schiude quelle della salvezza.

È comune trovare vescovi e arcivescovi a capo delle cancellerie regie, oppure chierici al seguito dei nobili di rango, nelle vesti di segretari, confidenti e scrivani. Purtroppo, man mano che si scende la linea delle gerarchie, scemano anche, vistosamente, le qualità. Troppo spesso, i documenti che sono giunti fino a noi rivelano imperfezioni, sbavature, omissioni, grossolani errori di interpretazione e di trascrizione. D’altronde, esistono difficoltà oggettive. La lingua dotta rimane il latino, ma ciò che ne resta deve confrontarsi e adattarsi alle lingue degli invasori dell’impero, che sono molte e con etimologie diverse. Dunque, la lingua ufficiale subisce continue aggressioni, che fanno capo alle parlate d’uso, ai deterioramenti, ai fraintendimenti, ai logoramenti, che ne determinano la progressiva corruzione. È così che equus diventa caballus, oppure mus-muris si trasforma in ratto.

Prendiamo un nome piuttosto comune, come Alberto, che ha alla

base il tedesco “Albert” dal significato di “famoso, illustre”. Il contatto con  i resti della romanità italica lo adatta alle forme latine di “Adelperto, Alaperto, Aliperto, Alperto, Adelberto, Adalberto”. Ma, come cognome, le varianti postume si moltiplicano. Ecco, dunque, comparire “Albereto, Albert, D`Alberti, D`Alberto, De Alberti, De Albertis, Aliberti, Aliperti, Albertelli, De Albertellis, Albertini, Albertinelli, Albertoli, Albertolli, Albertocchi, Albertotti, Albertucci, Albertoni. E lo stesso si potrebbe dire di molti altri nomi, assai diffusi nell’Italia moderna. 

Non crediate, però, che tutto ciò capiti soltanto alla gente comune. Anche la nobiltà, piccola o grande, non è immune da simili alterazioni. Valga per tutti l’esempio della regina d’Italia, moglie dell’imperatore Ottone, che noi oggi conosciamo come imperatrice e santa Adelaide (931-999). Può sembrare incredibile che un nome di rango così elevato compaia nei documenti e nelle cronache  con un’infinità di varianti. Eppure, ecco Adelaide che diventa Atela, Adela, Atel o Adel (in qualità di diminutivi). Ma anche Atheleid, Atelheid, Adeligia, Adelasia, Adalasia e persino Helegyde in un atto dell’imperiale consorte, redatto nel 967.

Colpa dei cronachisti, dei cancellieri e dei notai? Sicuramente sì, insieme ad altre responsabilità di cui parleremo in seguito. Per ora, vi lascio alle prese con due liste di nomi, vecchi e nuovi, e ad una dissertazione di Ludovico Antonio Muratori, che si è occupato di questa e di altre questioni nelle sue “Antichità italiane”. Se avete tempo, cercatene qualche altra: le troverete interessanti.

 

11/01/2006 12:00:00
21.04.2005
Giancarlo Patrucco
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03.05.2005
Giancarlo Patrucco
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24.05.2005
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03.06.2005
Giancarlo Patrucco
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17.06.2005
Giancarlo Patrucco
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Giancarlo Patrucco
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Giancarlo Patrucco
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