Spesso
vado al cinema attratta da “qualcosa” intorno a un dato film: il titolo,
un'immagine vista, un attore, e ci vado volutamente senza leggere nulla in
merito; del resto per me andare al cinema – preferibilmente sola, per non dover
subito dopo rispondere a quelle domande che servono solo a riempire un vuoto,
un'incapacità di stare in silenzio facendo rotolare dentro tutto quel che
abbiamo mangiato, buono o cattivo che sia – è entrare in un altro mondo,
sconosciuto e dunque rischioso.
E così è stato per Manchester
by the Sea, il film del 2016 scritto e diretto da Kenneth Lonergan.
Si parla spesso – a volte troppo e troppo per luoghi comuni –
del dolore.
Questo film non solo tocca, ma attraversa e ci fa attraversare
le vie che il dolore sceglie dentro di noi, vie sconosciute che illuminano una
nostra mappa interiore fino a quel momento sconosciuta; una terra incontaminata
e pericolosa si apre al nostro nuovo sguardo, un orizzonte che ci sgomenta e
che ci chiede di stargli a fronte.
L'onestà che il protagonista - interpretato da un'incandescente
Casey Affleck- ci mostra è la sincerità del saper dire : non ce la faccio.
E “non farcela” significa molte cose, innanzi tutto significa
essere capaci di stare di fronte a noi stessi e alla nostra umana fragilità,
significa non aderire ai luoghi comuni di una sacrificale religiosità,
significa misurarsi con i sensi di colpa, con la rabbia, con il dolore degli
altri, con una sensazione di morte continua e presente.
Le immagini di questo film ci mostrano un paesaggio conturbante,
ambivalente e sempre in trasformazione ( come il nostro mondo interiore è ); un
mare d'inverno, una terra gelata e innevata, ma nello stesso tempo il film
mostra come l'ammorbidirsi della terra che si apre ad altra primavera
intenerisca anche la nostra anima, primavera che può fiorire solo nella
vicinanza di persone amorevoli che sanno sopportare ( portare il peso ) della
tua incapacità.
Persone che ti stanno vicino nonostante te, il te
di quel momento che ti fa estraneo a te stesso e al mondo, il te che ti
esilia nella terra dove la perdita è indicibile e insostenibile( non solo
perdita dell'altro, ma di ogni punto di riferimento precedente, tutto sarà da
fare nuovo).
Il dolore ci consegna a una forma di cannibalismo: dovrai essere
capace di assumere in te chi e quel che è morto ma che è più vivo del vivo;
trasformarlo e farlo diventare parte di te, proprio come ci insegnano “quel
pane e quel vino” del rito della Comunione, che se non diventano noi renderanno
nullo il sacrificio che si celebra.
IO,
ha scritto qualcuno, un'anarchia di atomi, ma atomi che sappiano
parlarsi, in-fondersi in pace.
La bellezza degli sguardi, delle poche parole, le sole che in
quel momento possiamo dire, chè quelle vane fanno più male della spada, sono
protagonisti nel film, accompagnano i momenti della trasformazione come bende
salvifiche, non ti obbligano a stare dove non vuoi stare, a dire quel che non
vuoi dire, ad essere quello che non sei, perchè non lo sai più chi sei.
Il dolore è un orco, un aguzzino, un violentatore; il dolore
acceca, non premia, uccide lasciandoti la vita.
E' l'eterna indomita forza della Vita che potrai seguire: se ce
la fai.
Un vecchio proverbio dice : “ quel che non strozza, ingrassa”.
La misericordia della Vita s'ha da scovarla, il suo tempo non è
il nostro, la sua ragione non è la nostra.
“Dolore come sveglia alla trascendenza”, scrive Raimon Panikkar,
dove si tratta di trascendere il mentale per lasciarti cadere nelle braccia di
un Mistero che c'è, ma che non sempre ha - come per i trapezisti nel circo- la
rete di salvezza.
Il protagonista del nostro film è come ognuno di noi davanti al
vuoto: un trapezista senza ali; un essere che si cimenta con l'equilibrio, a
volte sprofondando nelle tenebre, qualche volta nella visione di una piccola
luce.
Quello che ci fa male è la mancata armonia tra corpo anima e
spirito, tra noi e il mondo, tra vita e morte, un'armonia continuamente perduta
e continuamente da ritrovare.
"Scrivo con una minuscola bilancia, come quella dei
gioiellieri.
Su un piatto depongo l'ombra e sull'altro la luce.
Un grammo di luce fa da contrappeso a diversi chili
d'ombra.
Ci ho creduto certo / a cos'altro credere / se non
all'incredibile ?” (Ch.
Bobin)
Patrizia Gioia
P.S. mentre stavo scrivendo ho ricevuto queste ultime
righe che riporto in corsivo... sincronicità del Mistero.