Lyda Borelli in mostra alla "sua" Fondazione veneziana, e non solo
Ha chiuso i battenti a Venezia il 15 novembre (dopo esservi stata inaugurata il 1° settembre, in coincidenza con la rassegna del Lido) la mostra Lyda Borelli primadonna del Novecento, alla
Galleria di Palazzo Cini sul Canal Grande. Nel pomeriggio del 4 settembre era stato proiettato alla Fenice, introdotto da Matteo Pavesi e accompagnato da un trio femminile che ha eseguito il commento musicale originale, eccezionalmente composto da Mascagni, Rapsodia satanica di Nino Oxilia, nel centenario della realizzazione. In concomitanza, Alinari ha pubblicato il bel volume anche fotografico Il teatro di Lyda Borelli, curato da Maria Ida Biggi (direttrice dell'Istituto per il Teatro e il Melodramma della Fondazione Cini di Venezia) e Marianna Zannoni. E a Milano la Cineteca Italiana, cui si deve la conservazione del nitrato originale che a reso possibile il recupero proprio di Rapsodia satanica, ha dedicato all'attrice una retrospettiva, comprendente anche Ma l'amor mio non muore! di
Caserini (1913: la Cineteca di Bologna aveva a sua volta editato, nel centenario dell'uscita, un esemplare dvd del film d'esordio della grande attrice teatrale) e La donna nuda di
Gallone (1914). Tre dei soli tredici titoli cui la proto-diva diede vita nell'effimero quinquennio della sua attività per lo schermo, prima del ritiro dalle scene impostole nel 1918 dal matrimonio con l'industriale ferrarese Vittorio Cini (che nel 1940 Mussolini avrebbe elevato alla dignità di conte di Monselice!). Difficile dire se la rinuncia le fosse stata chiesta dal neoconsorte (che comunque avrebbe poi tentato di far sparire materialmente dalla circolazione tutti i suoi film: c'è voluto tutto il buzzo buono dei cinetecari europei e non per recuperarne) o abbia costituito il «dedicarsi esclusivamente all'attività di moglie e madre, una scelta di grande pudore», come ha scritto il presidente della Fondazione, Giovanni Bazoli, introducendo la mostra. Certo è che, in qualche modo, oggettivamente, l’insieme di queste
iniziative, e in particolare l'esposizione, hanno costituito una sorta di
postuma rivalsa della grande attrice, scomparsa nel 1959, rispetto al tentativo
di “cancellazione” dei suoi film messo in opera dall’altolocato neoconsorte.
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Quando si traccia mentalmente il binomio Venezia-cinema, il pensiero corre subito al Lido e alla sua Mostra annuale a cavallo tra agosto e settembre che, per ragioni ardue a definirsi, ormai da molti anni i media italiani cartacei e non italiani gonfiano a dismisura, addirittura prima del tempo (Rai, cointeressantissima, in testa...).
E chi è curioso del passato ricorda subito, di riflesso, Giuseppe Volpi (1877-1947), il gerarca fascista,
a sua volta elevato da Mussolini a conte di Misurata nel 1925, per i "meriti" acquisiti da triennale governatore della Tripolitania, e simultaneamente al dicastero delle Finanze. Fu lui che inventò nel 1932 la
futura Mostra, nata come " 1^ Esposizione
Internazionale d'Arte Cinematografica" sulla terrazza proprio
dell'Excelsior che aveva acquisito e rilanciato a ventiquattro anni
dall'inaugurazione. Alla sua memoria restano tuttora legate le omonime coppe annualmente riservate ai migliori attori protagonisti, che furono poi consegnate pomposamente, nella cerimonia di chiusura con premiazione, dal figlio Giovanni per numerosissime edizioni.
Quest'anno purtroppo il settantanovenne conte di Misurata jr, che risiede
fiscalmente a Ginevra, ha invece dovuto accontentarsi della notorietà
rinnovatagli dal sequestro cautelare del palazzo sul Canal Grande, per l'accusa
di evasione fiscale per miliardi mossagli dalla magistratura veneziana.
Oggi che, complici appunto RAI, tv altre, quotidiani disponibili e ragioni di Immagine e Comunicazione, la cerimonia finale è diventata un'interminabile, tediosa brutta copia della "notte degli Oscar", offerta se
possibile ancora con maggior sussiego (più inutili sono soltanto le conferenze
stampa mattutine di autori e attori...) le cose non vanno più così, e consentono di allargare un po' lo sguardo a un altro, più ampio e decisivo binomio nella vicenda culturale novecentesca della città lagunare: quello Venezia-Cultura. Dove a emergere è appunto il nome dell'altro neo-conte di conio mussoliniano: Vittorio Cini (1885-1977), il consorte di Lyda, in
un certo qual senso l'"allievo" di Volpi: suo emulo imprenditorialmente e politicamente parlando, fino a diventare
commissario per la mancata Esposizione Universale romana del ’42, troncata
dalla guerra, e anch'egli ministro (delle Comunicazioni) con Mussolini nel suo
ultimo semestre di governo. Successiva la riabilitazione postbellica e la
strameritoria ulterior Fondazione culturale, in memoria della tragica scomparsa
del figlio Giorgio (che lo aveva avventurosamente sottratto alla prigionia in
Germania), tuttora straordinariamente attiva e dinamica.
Volpi e Cini: quasi un'endiade
indissolubile, nella vita veneziana e nazionale (ma anche europea, e prima...
africana). Non è questa la sede per approfondire cosa abbia significato
economicamente e politicamente, a livello di imprenditoria, di massoneria e di
fascismo, il "gruppo di Venezia". La commercializzazione spinta
dell'energia elettrica, l'impulso al porto di Marghera, i grandi alberghi
lagunari, il mondo delle assicurazioni, il raccordo strettissimo tra
Confindustria e regime, furono gli snodi essenziali della carriera e
dell'attivismo di Giuseppe Volpi e di Vittorio
Cini.
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Quando nel 1913 Lyda Borelli sceglie
di esordire nel cinema agli ordini di Mario Caserini col soggetto originale di Ma
l'amor mio nom muore!, ha ventinove anni ed è considerata la più
promettente primattrice giovane della prosa italiana, favorita anche dal
momentaneo ritiro della Duse, a fianco della quale aveva già recitato otto anni
prima eccezionalmente nella Fernanda di Sardou, col suo mentore e
maestro Virgilio Talli. Classica figlia d'arte, sulle tavole del palcoscenico
film da piccolissima, nel '12 era già capocomica e aveva alle spalle successi
raccolti in tournée in Spagna e
nell'America ispanofona. La sua carriera scenica non si sarebbe interrotta per
il successo cinematografico, che riscosse la critica attenzione anche del
ventiduenne Gramsci, ma sarebbe continuata in parallelo a quella sullo schermo,
fino al matrimonio, intervenuto a Gavorrano appunto nel 1918. Ritiratasi
rigorosamente a vita privata, trent'anni dopo avrebbe dovuto sopportare la
durissima prova dell'accennata morte tragica in un incidente aereo del figlio
trentunenne Giorgio (1949). Nel 1921, quando la Duse –che aveva interrotto la propria lunga ma temporanea attività
interpretando però nel ‘16 un singolare film, Cenere dal romanzo della Deledda, diretto e anche a sua volta
recitato da Febo Mari- tornò sulle scene per l'ultimo triennio della sua vita, la
Borelli, da altrettanto allontanatasene, era ancora considerata tra le maggiori
interpreti teatrali dell’epoca.
Quella straordinaria e alacre
studiosa dell'attorialità muta che è Cristina Jandelli le aveva già dedicato
pagine fondamentali nei suoi "Le dive italiane del muto" (2006), ma
ha aggiunto al suo riguardo dettagli illuminanti nel più recente "L'attore
in primo piano" (2016), definendola "attrice di tradizione",
ovvero di illustre radice teatrale in quanto nata da attori, come
la collega-rivale Pina Menichelli e la statunitense Neil Kimball: «Con Ma
l'amor mio non muore! nasce in Italia il diva film,
sorta di "genere" interamente costruito sulla centralità
dell'interprete femminile. Centralità dell'attrice, non del personaggio, che
viene opportunamente modellato per dare rilievo alla sua performance. Una vasta
e differenziata gamma di interpreti dà vita a un nuovo fenomeno spettacolare di
brevissima durata che raggiunge il proprio massimo splendore nel triennio
bellico e non sopravvive alla fine del decennio». Sono non a caso proprio gli
anni governati dalla magìa Borelli: «Lyda Borelli adorava la fotografia morbida
del suo operatore personale, Giovanni Grimaldi. [...]. Condivideva il proprio
stilista di fiducia con Eleonora Duse: per entrambe Mariano Fortuny disegnò
abiti, fra cui i famosi delphos privi di cuciture, lasciati morbidamente
cadere sul corpo in un'epoca in cui il busto era per la maggior parte delle
donne eleganti un obbligo ineludibile. Nella vita privata, Lyda Borelli fu tra
le prime donne a indossare la juppe-culotte, la prima gonna pantalone
della storia. [...] La sua recitazione appare una personale, inimitabile
declinazione del simbolismo dalle venature preespressioniste ma anche eco di
uno stile teatrale ben definito: il suo apprendistato con la Duse delinea una
nuova maniera ereditata dal teatro e assunta dal cinema italiano come propria.
Si rivela nell'attitudine meditativa, assorta e posatrice, ma a tratti caricata
e sovraesposta. Lunghe stasi, rapide esplosioni motorie». Delle peculiarità
della propria arte schermica secondo il gusto di allora (ma innegabile
ahimé che oggi, anche per un patito del muto come chi scrive, la visione ad
esempio di Ma l'amor mio non muore! sia una prova piuttosto
impegnativa... ) la Borelli era del resto assolutamente consapevole, come
rivela questo suo articolo del 1916,
"Bellezza ed eleganza", pubblicato dalla rivista dell'epoca
«L'Arte Muta» e ripreso dalla Jandelli: «Per me questo rapporto tra la bellezza
e il cinema si concentra soprattutto nelle mani e negli occhi. E' incredibile,
per chi non lo provi da attore, quale sensazione noi cerchiamo di trasmettere
al pubblico attraverso il moto delle mani e la mobilità significativa degli
occhi. È tutto un lavorio di concentrazione per dare vita agli arti e luce
spirituale allo sguardo. Mani e occhi -anche più della dolorosa virtualità
della bocca- sostituiscono tutta l'infinità varietà della gamma vocale,
foggiano il suono dello spavento, toccano il grido della disperazione, rendono
il bramito dell'odio, si ammantano della dolcezza, della pietà, si inebriano
d'amore. Non vivono soltanto nella loro funzione di centri nervosi, ma incidono
in un gesto o in un bagliore ciò che la parola dovrebbe dipingere». Non è, se
letto con attenzione, un testo da poco: soprattutto l'analisi delle virtualità
specifiche del muto nella seconda parte (tenendo anche conto degli enormi
progressi artistici che il movimento avrebbe sortito nel decennio successivo) è profonda, assolutamente all'altezza del miglior dibattito teorico sul
problema di allora e di dopo.
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Mi
consento a questo punto, a destinazione esclusiva dell’eventuale lettore masochista che abbia
ancora voglia di proseguire, una
telegrafica digressione/confessione personale. Non sono mai riuscito, a oltre quarant’anni
dalla prima volta, a costruire
un rapporto particolarmente entusiasta con la Mostra, ma forse ancora di più
col Lido che la ospita. Reggerne l'intera
durata non è mai stato francamente alla mia portata: non l’ho mai preso in considerazione, neppure negli anni di maggior "convinzione", oggi
remoti. Non reggerei quattro film al
giorno, vado già in apnea al terzo,
ma meglio due: c'è più rispetto per il testo e il lavoro di
chi gli ha dato vita. Tutte le volte in cui l'ho
seguita per alcuni, limitati giorni,
sono stato constantemente perseguitato dalla tentazione, spesso rapidamente
vincente, di abbandonare l'angusta e sovraffollata zona PalaCinema/Excelsior e portichetto stento ora di temporary stores che li congiunge, per raggiungere S.M. Elisabetta e riguadagnare
la città, per le troppe cose… temporanee
e permanenti che mi restavano (e ancora mi restano e mi resteranno, ahimè!) da
vedere. Ricordo ad esempio la mattina dell'edizione 2009 in cui abbandonai
precipitosamente il Lido, spiegando agli amici sconcertati -eppur cinéfili!-
che raggiungevo l'isola di San Giorgio per partecipare,
proprio alla Fondazione Cini, alla
"vision" dedicata da Peter Greenaway alla copia lì esistente (l'originale,
pur destinato proprio a quel refettorio palladiano,lo asportò Napoleone…) delle Nozze di Cana di Paolo
Veronese. Mi guardavano come se mi avesse dato di volta il cervello (non era
una mattinata memorabile per offerta di proiezioni...) e non sapessero chi
fosse Greenaway. Ma sapevo bene io a cosa andavo incontro, perché ero già rimasto estasiato
due anni prima dal suo Peopling the Palaces alla recuperata reggia di Venaria. Proprio a lui dovevo del resto, come tanti, proprio una
delle massime emozioni veneziane: l'essere rimasto folgorato dai Misteri del giardino di Compton House nell'82 (l'altra analoga la piazzarei tre anni dopo: Tangos di Solanas
in una proiezione mattutina semideserta). Ulteriori
indimenticabilità lagunari furono... extraschermo: il presentare,
con la Cineteca omonima di Genova e l’impagabile Angelo
Humouda, ad uno
ad uno i corti di Griffith alla
Biograph per una settimana in sala Volpi, a Palazzo appena riaperto dopo anni
nel '75, avendo quotidianamente spettatori fedelissimi di prima fila anche Ruggero Orlando e Macha Méril. La tavola rotonda organizzata da
Bolzoni sul cinema spagnolo dopo Franco. Il rischiare letteralmente la pelle
nella calca per entrare a vedere Novecento in Sala Grande, sempre nel ’76. L'ovazione
a Bergman al suo ulteriore Leone dell'83. Quello
alla carriera consegnato proprio da
Bertolucci a Bellocchio nel 2011: la mia ultima Venezia al Lido, dopo le incaute conferenze stampa di presentazione
di “Ring!” all’Excelsior
dal 2008 al 2010, che potendolo cancellerei.
Quest'anno
credo di aver battuto ogni record: Loretta ed io eravamo…
veneziani proprio nei giorni della rassegna, ma abbiamo finito per non mettere
piede al Lido, tutti assorbiti da altre
visite e destinazioni. In compenso avevamo avuto,
qualche settimana prima, il dono-illuminazione inatteso di vedervi
Clint Eastwood in carne e ossa, all'opera nella stazione
S. Lucia per le riprese del suo prossimo The
15:17 to Paris, annunciato
in uscita per il 22 febbraio. Speriamo continui ad essere bellissimo
come i precedenti!
[ questo
articolo è già apparso nel mensile romano online «Diari di Cineclub», a.
VII n. 57, gennaio 2018, pp. 18-19.
Il “periodico
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