Alla cara memoria di Grazia
Pierallini, comune amica di tutti quanti noi cinque
La scomparsa di Roberto Prigione, intervenuta un mese fa a 76 anni (1), ci ha privati di uno degli ultimi testimoni diretti e compartecipi della vita di una rivista, «Cinema Nuovo», quindicinale a rotocalco dal 1952 al 1958, e bimestrale da allora alla cessazione, intervenuta nel 1996 con la scomparsa del suo fondatore, Guido Aristarco.
E' all'ambiente di quel remoto periodico, e al dipanarsi della sua esperienza soprattutto nella seconda fase, che va ascritta la presenza e la crescita di tre fra i maggiori critici cinematografici italiani della generazione nata negli anni Trenta: il nostro concittadino Adelio Ferrero (1935-1977), il
milanese Lorenzo Pellizzari (1938-2016) e il ferrarese
di origine, fiorentino di adozione Guido Fink (n. 1935). A loro, retrospettivamente, si collegano senza ombra di dubbio il periodo aureo e il lascito della rivista: ma è un discorso troppo impegnativo per affrontarlo ora. Chi legge mi scuserà se in questa breve rassegna si affacceranno rapidi inserti di natura personale: mi sono indispensabili per renderne tangibile l'intensità dell'esperienza culturale, umana e -perché no?- anche politica. E anche per alludere a una triplice, insperata amicizia, che mi ha accompagnato nei decenni. Quando si arriva a una certa età, si capisce retrospettivamente come a decidere della linea e delle scelte dell'esistenza sono singoli e rari istanti, mai percepiti come determinanti a tempo reale. Nel mio caso, il destino si incarnò in due diversi edicolanti, oltretutto non abituali, della mia cittadina d'origine (la stessa di Valentino Garavani, di Alberto Arbasino e della celeberrima Casalinga...), che nella primavera del 1962, a pochi giorni di distanza l'uno dall'altro, mi proposero, suscitando curiosità, una copia rispettivamente appunto di «Cinema Nuovo» (era il n. 156, in copertina Dorian Gray) e di «Filmcritica» (il 126, in copertina William Holden...). Fu una scoperta sensazionale: dunque non c'era solo la possibilità del cinema con gli amici il sabato sera, ma anche quella di discuterne analizzando a fondo le cose che si vedevano. Il film si rivelava testo: di dignità paragonabile, nei casi migliori, a quelli letterari. Vi si profilava l'affascinante duello, sul campo di gioco dell'estetica marxista, tra il realismo critico di Lukàcs e il verosimile filmico di Della Volpe, sia pure mediati dai due direttori, Aristarco ed Edoardo Bruno. Non potevo immaginare che da lì a cinque anni avrei cominciato a scrivere sulla seconda delle due riviste (ma questa è un'altra storia, priva di interesse). Meno che mai, da giovane lettore ammirato, che le vicende della vita mi avrebbero regalato la conoscenza e l'amicizia dei tre.
Nel primo ventennio del dopoguerra, sia fare il cinema che il rifletterci su per diffondere quello “buono” erano anche due formidabili (per quanto, col senno di poi, un bel po' illusori...)
veicoli di militanza nella sinistra, cui era sottesa l'ipotesi convinta che si potesse "cambiare il mondo" attraverso quanto passava sugli schermi,
se non addirittura le successive discussioni in merito. Si diventava di sinistra
interessandosi di cinema, o ci si interessava ad esso perché si era già di
quell’orientamento. Oggi la cosa può dar luogo a commenti patetici o a desolati scuotimenti del capo, nei casi più benevoli: ma allora la prospettiva veniva vissuta come concreta e verosimile. E
dava luogo a intese interpersonali davvero forti e solidali.
Simili, del resto, le convinzioni che avevano portato Aristarco e quanti lo avevano seguito alla "scissione" che aveva dato luogo, alla fine del 1952, alla nascita del quindicinale da edicola (!) «Cinema Nuovo» dall'altrettanto quindicinale da edicola (!!) «Cinema», già pervenuto per parte sua alla terza serie, e accusato dai secessionisti di moderatismo complice, nel clima della guerra fredda e del post-’48 elettorale.
Per la verità, la comune coscienza sull'eccesso di schematismo pregiudiziale che caratterizzava la linea della rivista, col timone tenuto saldo senza spazi di possibile, reale discussione da parte del padre fondatore, poteva essere già diffusa. Luciano Bianciardi, neo-milanese impegnato tra i redattori a metà degli anni Cinquanta, allor che la pubblicazione conosceva una sorta di mezzadria coll'imminente editore Feltrinelli,
ne traeva le esperienze e le convinzioni che l'avrebbero indotto, pubblicando nel '62 il suo capolavoro, La vita agra (da cui il da poco successivo film di Lizzani con Tognazzi), a tracciare il memorabile ritratto sulfureo di Aristarco, ribattezzato "dottor Fernaspe", alle prese col dibattito su Senso e Metello, e il preteso "passaggio dal neorealismo al realismo, dalla cronaca alla Storia".
Con gli
anni Sessanta il clima attorno al fare critica col cinema cambiava: un quasi decennio di pubblicazione dei "Cahiers du Cinéma" si faceva lentamente strada anche in Italia e, sia pure con tempistica oggettivamente tardiva, il poco più che ventenne Aprà, neo-collaboratore appunto di «Filmcritica» coi suoi amici, cominciava a farne meritoriamente filtrare la lezione. Uno scompaginamento di carte generale, tanto irreversibile quanto benefico (2).
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Adelio Ferrero proveniva, gli alessandrini meno giovani lo sanno, da una famiglia proletaria, schiettamente socialista, col padre Mario ferroviere assai impegnato politicamente, secondo la bella tradizione democratica allora egemone da noi: in una città abituata, fatta salva la parentesi del ventennio, ad avere sindaci socialisti fino all’exploit solitario della Lega nel 1993. Il dotatissimo e diligentissimo studente era cresciuto in quel clima, si era appassionato al cinema in una chiave contigua a quella della militanza civile, e a ventun anni aveva vinto il concorso che allora Aristarco e la sua rivista bandivano in collaborazione col comune di Sesto Fiorentino: la sua collaborazione sarebbe iniziata con le due schede retrospettive dedicate ad Arriva John Doe di Capra e La Marsigliese di Renoir. Aveva già fondato, nel '55, il Circolo del Cinema FICC della città, che avrebbe fatto scuola di iniziative, ospitalità -l'ormai
leggendaria serata con Pasolini sul Vangelo-
e pubblicazioni fino almeno a tutti i Sessanta.
Il suo rigore, la sua estrema serietà, coniugate a un occhio e a una competenza più uniche che rare, e la straordinaria vocazione didattica denotata nell'insegnamento, prima nella secondaria superiore, poi negli atenei di Pavia, Milano e Bologna, ma soprattutto l'intransigente coniugazione dell'impegno critico con quello politico ed etico, fanno di Adelio una presenza unica e irripetibile nel panorama della critica italiana dei suoi decenni. Lo comprovano la generale stima e nostalgia tuttora tributategli, e l'intitolazione a suo nome di scuole, luoghi di spettacolo e dell'ormai notissimo Premio per aspiranti studiosi di cinema, che si assegna per ricordarlo dal 1978 (3).
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Diversa la vicenda personale di questo suo sodale e quasi inseparabile alter ego, milanese dalla nascita, che si trova per l'intera esistenza, a vivere, per un altro disegno del destino, nel quartiere (Città Studi) dove avrà sede la redazione stessa di «Cinema Nuovo» dagli anni Cinquanta ai primi Sessanta (in via Valvassori, con vista... sulla stazione Lambrate). La personale passione per il cinema porterà Lorenzo a una precoce militanza direttiva nel Centro Cinematografico unificato degli atenei milanesi durante gli anni universitari, con la realizzazione di un importante fascicolo monografico su Visconti e un forte impegno nelle polemiche anticensorie sviluppatesi all'uscita di Rocco e i suoi fratelli soprattutto in sede cittadina. Anche in questo modo viene notato da Aristarco, e si trova ben presto assimilato al lavoro della rivista addirittura come suo redattore, in grado di raggiungere quotidianamente il luogo di lavoro con una breve passeggiata. Il suo impegno vi si protrarrà per otto anni, fino al fatale 1968, in cui scomparirà dall'orizzonte aristarchiano in silenzio, con discrezione e senza prese di posizione pubbliche, a differenza degli altri due. Proseguirà però, con una scelta analoga a quella di Ferrero, purtroppo per quest'ultimo resa di fatto inesplicabile dalla scomparsa, nell'accogliente, “nuova” «Cineforum», cui proprio nello stesso '68 Sandro Zambetti aveva impresso con decisione una radicale e assai più condivisibile linea. Tale nuovo indirizzo lo accompagnerà per un quarantennio, fino alla dolorosa scomparsa nell'estate 2016. Donerà alla rivista, con sapientissime “schede” dei nuovi film in uscita, due impareggiabili rubriche di lungo corso, “La Casa della Falsa Vita” e “Le Lune del Cinema”. Promuoverà una straordinaria collana di testi di cinema presso l’editrice Longanesi, di cui sarà a lungo prezioso funzionario. Si farà instancabile promotore, dopo averlo ideato, del Premio intitolato alla memoria dell’amico: sarebbe lunghissimo elencare gli odierni colleghi di ogni provenienza geografica che grazie al quel trampolino molto gli debbono. Lealtà e gratitudine nei confronti dell'antico, primo direttore, superati i lontani dissensi lo indurranno a raccoglierne proprio gli scritti recensorii per «Cinema nuovo» (4).
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Ancora più complessa la parabola di Guido Fink, contrassegnata già da una straordinaria precocità e dal terribile, involontario ma implacabile coinvolgimento nelle vicende della Shoah nella loro agghiacciante declinazione ferrarese, da cui il bambino si salva per miracolo. Il suo fascino è legato alla sua irripetibile versatilità: è stato insieme critico letterario, teatrale e cinematografico di assolute originalità e forza penetrante (a giudizio modesto dello scrivente, tra i maggiori in assoluto nel nostro paese del secondo Novecento). Il prestigio e la brillantezza l’avevano reso indispensabile a Roberto Longhi e Anna Banti negli anni di “Paragone”. Al suo straordinario lavoro di americanista e anglista, e storico delle letterature anglofone (degno allievo-erede di Carlo Izzo e a sua volta maestro amatissimo di molti) sono stati dedicati di recente due lavori di raccolta curati da amici e allievi, che illuminano senso e profondità della sua molteplice operosità: vasta silloge di scritti suoi in Nel segno di Proteo, a cura di Barbolini, Guaraldi, Rimini 2015 e su di lui in FINKFEST. Letteratura, cinema e altri mondi: Guido Fink nei luoghi del sapere, a cura di Ascari-Calanchi-Coronato-Minganti, Aras edizione, Fano 2016, concluso da un’impagabile e sterminata bibliografia dei suoi scritti. Ma eccezionali anche il suo senso dell'humour e
la leggerezza divertita con cui esercitava l'arduo mestiere di stare al mondo.
Da ferrarese a ferrarese, amava raccontare spiritosamente dei suoi frustrati
tentativi di prendere parte da figurante in incognito a film di Antonioni, che,
identificando l'amico, l'avrebbe allontanato sia dal gruppo degli spettatori
della gara di motoscafi sul fiume cui assistono i protagonisti de Il grido nel
1957, che da quello degli scioperanti ravennati della sequenza di apertura di Deserto
rosso nel '64. Era probabilmente una simpatica millanteria lo scherzo
tentativo di spacciarsi per uno dei bambini che si intravvedono qualche attimo
mentre giocano nei giardini pubblici adiacenti al castello Estense, quando
Gino/Girotti incontra fugacemente Dhia Cristiani/Anita in Ossessione; ma
sono stato testimone oculare della sua spassosissima quanto impeccabile
risposta a un'inviperita Laura Betti che lo aveva scambiato per il. . . “marinaio” del “suo” motoscafo nell'hall
dell'allora funzionantissimo “des Bains”, durante una Mostra di tanti anni fa
al Lido (5).
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Non è questa, di sostanziale rievocazione affettiva, la sede per esaminare più da vicino e comparare analiticamente l'itinerario critico e le acquisizioni metodologiche dei tre percorsi. A Ferrero purtroppo la forbice della Parca ha inibito lo sviluppo della fase più ricca e libera del suo itinerario, che gli ultimi saggi -da Pasolini a Keaton- promettevano con generosa e inusitata larghezza. Pellizzari ha molto introiettato la criticità sempre più a macchia d'olio estendentesi nel nostro tempo, ma questo gli ha anche dato il dono di un disincanto e di un'ironia (peraltro chiaramente leggibili in filigrana come amarezza e disillusione...) che nelle prime fasi del suo impegno sarebbero state impensabili. Fink ha saputo dispiegare una vastità di orizzonte, di interessi e -per così dire- di spettrogramma critico che rendono il suo lavoro un'imponente semina, da recepire e dissodare anche per il futuro.
Le tre esperienze si sarebbero splendidamente fuse nella storia di «Cinema e Cinema», poi «Cinema & Cinema» (1974-94) che non a caso, uno dopo l'altro, li avrebbe visti succedersi alla direzione -dal '74 al '77 il primo, da allora all'82 il secondo; 1982-87 il terzo) in una catena aperta dalla tragica scomparsa prematura di Ferrero. Ecco perché è stata un'atroce disdetta e un'incolmabile perdita il fatto che due di loro siano stati costretti dalla sorte ad andarsene: così precocemente il primo, così dolorosamente l'altro. E che il terzo sia da troppi anni costretto nella prigionìa di una lunga notte di veglia, senza riposo e senza pensiero. O quanto meno senza la possibilità di esprimerlo: il che è ancora più angoscioso.
[ il presente
articolo è già apparso, in diversa e più compendiata forma, senza i diretti
riferimenti alessandrini, in “Diari di Cineclub”, 58, febbraio 2018, pp. 1-3: www.ficc.it]
(1)
A un mese dalla sua scomparsa,
intervenuta a 76 anni la notte dell'Epifania, torna spontaneo dedicare un
momento di ricordo e riflessione alla figura di Roberto, non solo in
riferimento ai remoti anni di assidua frequentazione e amicizia (ebbe a
occuparsi anche della mia salute quale "medico di famiglia" per
alcuni anni tra i Settanta e gli Ottanta, prima di abbracciare in via esclusiva
la carriera nell'amministrazione sociosanitaria), ma nella convinzione che la
sua parabola esistenziale riverberi non poco delle mutazioni intervenute nella
città e nella vita alessandrina negli ultimi sei decenni.
Non mi addentrerò nell'analisi e
nella valutazione del suo lavoro quale dirigente della sanità pubblica, per
mancanza tanto di informazioni quanto di competenza. Certo, Roberto possedeva
una visione personale e lungimirante di quanto la riforma sanitaria e il
susseguente Servizio Sanitario Nazionale, oggi in bilico e a repentaglio
(impressionante lo speciale in merito dell’«Espresso» di qualche settimana fa),
avrebbero dovuto sapere e poter fare soprattutto nell'area della prevenzione e
dei servizi socio-assistenziali. E nessuno lo ha mai né risarcito né fatto
destinatario di scuse rispetto all'affronto giustizialista che ebbe a patire
negli anni in cui era di prammatica cominciare a dare addosso a priori ai
"politici" (l'andazzo è continuato per tutto l'ultimo quarto di
secolo, e oggi è totalmente evidente l'abisso in cui ci ha condotti), e
sull'onda della Tangentopoli milanese diventava imperativo categorico di ogni
Procura di provincia far vedere all'"opinione pubblica" che "si
faceva qualcosa". Ma si sa come vanno appunto queste cose, allora come
oggi: titoli a otto colonne e strillate dei telegiornali al momento dell'apertura
del "caso"; otto righe e silenzi telegiornalistici nei casi di
successivo, lento proscioglimento, o addirittura di sommesso, mancato rinvio a
giudizio. (Poi magari la magistratura si orienta a ritenere, sempre nella
nostra città, che la catastrofe amianto cui è stato soggetto, praticamente con
la cessazione di fatto di ogni sua attività degna di questo nome, il Teatro
Comunale nel 2010, abbia a unica responsabile perseguibile la Dea Sfortuna...).
Sono più in grado di riferire del
passato remoto della vita di Roberto, quella che si intrecciò con la passione
per il cinema e l'amicizia stretta, quotidiana e collaborativa, con Adelio
Ferrero. Il suo nome mi divenne familiare negli anni -per me genovesi-
dell'università, quando cominciò a firmare schede critiche e articoli su
«Cinema Nuovo» di Guido Aristarco (la cui redazione si sarebbe temporaneamente
insediata in quegli anni proprio in città, a Boccadasse...) e
contemporaneamente sulla settimanale pagina che il quotidiano socialista
cittadino, "Il Lavoro", riusciva a dedicare, grazie a Tullio
Cicciarelli e Roberto Chiti, al cinema. Si chiamò prima "Giovedì",
poi "Sabato dello schermo" (o viceversa, è passato troppo tempo...).
Il giornale godeva ancora, nella città operaia e portuale, della considerazione
ricavata dall'abilità con cui la famiglia Canepa, proprietaria, era riuscito a
traghettarlo nel ventennio senza sostanzialmente cedere al regime. Direttore
era addirittura Sandro Pertini, alla vigilia della definitiva
"assunzione" romana, prima come presidente della Camera e poi della
Repubblica. Per andare in redazione ci si arrampicava con decisione sui lunghi
gradini della centralissima salita Dinegro (ora divenuta sede della tifoseria
genoana). Poi la conoscenza diretta alessandrina, negli ultimi anni di attività
del Circolo del cinema, attorno alla metà dei Settanta, e fino alla brusca
scomparsa di Adelio. In quel gruppo stretto di amici già messo a dura prova
qualche anno fa dall’altrettanto inattesa scomparsa di Gloria Novelli, che di
quell’insieme era l’insostituibile fulcro. Ma di tutto questo si potrà meglio
parlare in un’eventuale, futura e diversa occasione.
(2)
Cenno, di passata, nel mio recente contributo all'omaggio collettivo a Leonardo Quaresima, un altro figlio di questa storia, per i suoi settanta: Wer ist Leonardo? Da Caligari al cinema senza nomi, Mimesis 2017, pp. 359-362. Ne avevo già
anche scritto qui nello scorso settembre: Il
primo allievo di Adelio Ferrero: un tal Quaresima…
(3)
Ho avuto l'onore e il piacere di rivederne, aggiornandolo, il magistrale “Castoro” Bresson (1976 > 2004), e rieditarne via via, postumamente, gli scritti su Welles, Buňuel e Antonioni. Ma proprio Lorenzo Pellizzari ha ripubblicato in raccolta la sue recensioni per «Mondo Nuovo»: Dal cinema al cinema, Longanesi, Milano 1980 e per «Cinema nuovo» e «Cinema e Cinema»: Recensioni e saggi 1956-1977, Falsopiano, Alessandria 2005. La parabola di Adelio e della vicenda
socioculturale cittadina con lui fu a suo tempo ricostruita nell’oggi
introvabile numero unico Trent’anni di
cinema e cultura ad Alessandria (1955-1985) edito appunto in occasione del
trentennale di fondazione del sodalizio da parte del Gruppo Cinema Alessandria,
che lo presentò alla sala “Ferrero” del Comunale riproiettando, una domenica
mattina di quel novembre, La Marsigliese di
Jean Renoir, che ne aveva aperto l’attività in un’altra domenica mattina,
quella del 20 novembre 1955, al non più esistente cinema “Moderno” di piazzetta
della Lega (quella del 1167…).
(4)
G. Aristarco, Il mestiere del critico, Falsopiano, Alessandria 2007. Ho ricordato più analiticamente la parabola metodologica e collaborativa di Pellizzari in recenti numeri di «Cineforum» e «CineCritica».
(5)
A lui mi sono sentito di dedicare il lavoro su Anna Banti critico di cinema, che ne aveva iniziata l’indagine a suo tempo, nel numero monografico annuale de “Il Giannone”, Da un paese lontano. Omaggio a Anna Banti, San Marco in Lamis 2016, a cura di Beatrice Manetti: “Sontuose
farfalle sulla bambagia”. Ventisette anni davanti allo schermo, pp. 296-325.