I. L`America Latina tra Imperialismo, Antimperialismo e Panamericanesimo
L’11 settembre 1973 si consumò a Santiago del Cile la tragedia politica non soltanto di un’intera generazione dell’America Latina, ma della democrazia liberale stessa. Nel 1970 il Congresso cileno aveva affidato il compito di formare il governo al marxista Salvador Allende e al suo partito, Unidad Popular, una coalizione di cattolici progressisti, socialisti, comunisti e radicali, risultata prima nelle elezioni politiche. Fu la vittoria delle speranze di liberazione e di progresso democratico in un continente costellato di ferocissime dittature militari e contraddistinto da ingiustizie sociali insostenibili.
Il programma di Allende, improntato ai principi di ciò che egli definì “un socialismo verso la libertà”, allarmò immediatamente il grande capitale americano, giacché la nazionalizzazione delle banche e delle miniere di rame deliberata dal nuovo governo sottraeva importanti fonti di guadagni alle grandi aziende statunitensi, in particolare alla Anaconda e alla Kennecott. Gli Stati Uniti intervennero imponendo sul mercato internazionale il crollo del prezzo del rame, il che determinò l’inizio di un progressivo deterioramento dell’economia cilena, aggravato dallo sciopero dei camionisti, che gettò il Paese nel caos.
L’11 settembre 1973 l’esercito, guidato dal suo comandante in capo, il generale Augusto Pinochet Ugarte, dichiarò illegittimo il governo Allende e occupò con i carri armati le strade della capitale, Santiago del Cile. Allende rifiutò il salvacondotto offerto dalle Forze Armate e si rifugiò con altri dirigenti politici nel Palazzo presidenziale della Moneda, che venne dapprima circondato e poi bombardato dagli aerei militari. Nessuno conosce esattamente quale sia stata la fine di Allende, ma tutti noi conserviamo nella memoria l’immagine terribile del palazzo bombardato, del fumo e del Presidente cileno con un elmetto e una mitraglietta in mano, mentre tenta un’ultima disperata difesa della morente democrazia cilena. Così come conserviamo il ricordo delle notizie tragiche che provenivano dal Cile, delle fucilazioni, delle torture, delle repressioni durissime, che seguirono, secondo l’ormai consolidato copione orribile delle dittature militari latino-americane.
Oggi, a distanza di trentacinque anni, in questo anniversario così emblematico di quanto fragile possa essere la democrazia liberale quando le sue scelte politiche intralciano il cammino dell’economia, è per noi un grande e vero piacere ospitare nel nostro sito la ricerca ancora inedita di una giovane studiosa, Marcella Guido, che indaga con estrema puntualità e coerenza scientifica i presupposti del golpe cileno, a partire dal materiale degli archivi della CIA, soltanto da poco consultabili. Nel ringraziarla per la sua disponibilità e per il suo bel lavoro, che pubblicheremo a scansione bisettimanale, speriamo che la riflessione pacata e per così dire cruda della ricerca storica possa essere fondamento della riflessione politica - altrettanto pacata e razionale, ma nel contempo palpitante di speranze rivolte al futuro - sui rapporti tra democrazia e mercato e tra giustizia e libertà. Per non dimenticare ciò che è stato e per costruire ciò che potrà essere. [p.n.]
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Sarebbe impossibile spiegare la storia evolutiva dell’ America Latina dell’ultimo secolo senza legarla strettamente a quella degli Stati Uniti né senza soffermarsi ad analizzare concetti chiave quali Imperialismo/ Antimperialismo e Panamericanesimo[1].
Il filone interpretativo preponderante, tende a definire l’ “imperialismo” americano come un fenomeno storico onnicomprensivo, in grado di sintetizzare anche buona parte dell’evoluzione storica latinoamericana. In realtà è necessario sottolineare che il fenomeno è tutt’altro che univoco, in quanto ha subito un’evoluzione nel tempo e, nell’america Latina, ha dato origine ad atteggiamenti diversi e si presenta con diverse sfaccettature.
Le origini del pensiero antimperialista si possono collocare già sul finire del sec XIX manifestandosi nei pamphlets e negli giornali dell’oligarchia cilena in risposta allo scarso profitto derivante dalla produzione per l’esportazione, ma è con l’inizio del nuovo secolo che il sentimento si rafforza e si dirama su più fronti.
L’antimperialismo dell’uruguaiano José Enrique Rodò si fonda su motivazioni di natura culturale, criticando la civiltà nordamericana che porta alla negazione del sentimento e dell’ideale classico del bello.
Un’altra corrente, che trova nel cubano José Martì e nell’argentino José Ingenieros i due esponenti più significativi, è quella antimperialista progressista. In risposta alla preoccupante penetrazione imperialista nascosta dietro l’ideologia del Panamericanesimo, Ingenieros propone la creazione dell’ Unione Latinoamericana, fondata nel 1925, allo scopo di promuovere la solidarietà politica contro l’imperialismo dilagante.
Un aspetto ricorrente che accomuna le immagini che letteratura, pubblicistica e saggistica latinoamericana ci offrono dell’imperialismo americano, è la sua dimensione demoniaca, che può essere esorcizzata solo attraverso una rivoluzione.
Il Colombiano Gabriel Garcia Marquez con il suo “Cent’anni di solitudine”e il guatemalteco Juan José Arévalo con la sua “Favole del pescecane e delle sardine”, incarnano la sensibilità collettiva che vede l’imperialismo americano come un mostro multiforme inarrestabile e penetrante. Immagine, questa, accolta dall’ antimperialismo di tipo marxista-leninista, ma utilizzata anche da parte di politici nazionalisti per affermare il ruolo dello Stato e respingere i tentativi di intromissione straniera., dimostrando come l’antimperialismo latinoamericano fu la base comune di tutti i tipi di correnti politiche e ideologiche.
A differenza dell’idea comunemente diffusa, il principio di asimmetria che caratterizza il rapporto America del Sud / USA, non è originario, in quanto non fu altro che un retaggio del precedente disequilibrio America del Sud/ Gran Bretagna, ed anzi si pose come la sua continuazione.
Nella prima metà del sec. XIX, infatti, tra le aree latinoamericane e la Gran Bretagna si era sviluppato un forte rapporto mercantile che coinvolgeva solo marginalmente la sfera politica, attraverso il condizionamento finanziario che il capitale inglese poteva esercitare.
Mentre, grazie all’accresciuta capacità di accumulazione da parte delle oligarchie locali, si ebbe alla fine del secolo una commistione di elementi interni ed esterni, che favorì un’alleanza tacita, garante di interessi e autonomia, a livello politico, economico e sociale, tra oligarchia e capitale inglese e che portò all’ espansione di quest’ultimo.
Contemporaneamente, proprio nel momento in cui l’imperialismo britannico raggiunse il suo massimo sviluppo in America Latina, negli Stati Uniti si assistette alla rapida trasformazione del vecchio atteggiamento espansionista (che aveva trovato nella conquista del west la sua massima realizzazione) in uno nuovo di tipo imperialista: la nuova frontiera (ora di natura politica) era l’area a sud del Rio Grande: Messico e Caraibi.
L’aggressività che contraddistinse la prima forma di imperialismo americano è infatti riconducibile al fatto che nella sua formazione intervenne una spinta alla conquista territoriale sotto la carica emotiva espansionistica.
Effettivamente, l’interesse degli Stati Uniti verso i propri vicini fu assai scarso fino al 1823, quando fu enunciata la così detta “dottrina Monroe”[2] (elaborata da John Quincy Adams e sintetizzata nella frase “L’America agli americani”, esprimeva l’idea che gli Stati Uniti non avrebbero tollerato nessuna interferenza o intromissione nell’emisfero occidentale da parte delle potenze europee, sottolineando che ogni intervento con lo scopo di controllare o dominare i paesi americani sarebbe stato considerato un atto di ostilità verso gli Stati Uniti) ma che in realtà, mai accompagnata dal alcun atto concreto, fu più un’enunciazione unilaterale in funzione antieuropea che la manifestazione di una solidarietà continentale.
La svolta, cioè il passaggio all’imperialismo del big stick [3] fu il prodotto soprattutto di tre fattori: la fine dell’espansione territoriale, la saturazione del mercato interno e la necessità di ricorrere al mercato internazionale, la necessità geopolitica di un ulteriore allargamento dell’area d’influenza per la difesa del territorio nazionale e delle rotte marittime tra Atlantico e Pacifico.
Il successivo atto di ingerenza statunitense negli affari del Sudamerica si ebbe nel 1902, quando, a causa di una controversia tra alcuni creditori inglesi e tedeschi e il Venezuela, il presidente T. Roosevelt enunciò il suo “corollario alla dottrina Monroe”: dal momento che la dottrina Monroe proibiva agli europei ogni intervento e che, tuttavia, tale intervento talvolta s’imponeva, sarebbe stato compito egli Stati Uniti, e di nessun altro, metterlo in atto.
Le Conferenze panamericane, (la prima delle quali si tenne a Washington nel 1889) che portarono alla creazione dell’Unione Internazionale delle Repubbliche Americane (successivamente Unione Panamericana), evidenziarono la assoluta divergenza di posizioni tra i paesi, la totale sfiducia circa le possibilità di un organismo panamericano e accentuarono un atteggiamento di chiusura di fronte a ogni ipotesi di dibattito politico, e la tendenza a formare alleanze alternative all’interno del subcontinente come ad esempio l’Abc (Argentina, Brasile, Cile).
L’inizio del conflitto mondiale frenò questo processo e l’organizzazione panamericana cominciò ad essere vista come organismo capace di separare il Nuovo Mondo dalla guerra ed, inoltre, portò all’indebolimento dei paesi europei ed in particolare della Gran Bretagna.
La “sperimentazione” imperialista americana, fino al 1910, ebbe Cuba e Messico come laboratori, nel primo caso con la coesione di elementi economici, militari e politici, nel secondo, che prevalse anche in seguito, con la predominanza del fattore economico.
Il progressivo indebolimento della componente militare fu determinato innanzi tutto dal crescente costo economico del cordone di sicurezza creato al confine con il Messico e con i Carabi, e in secondo luogo dall’esperienza acquisita in Messico che aveva mostrato come più produttiva, la possibilità di condizionare direttamente e indirettamente il processo rivoluzionario e le componenti economiche e politiche della società.
La complementarietà tra l’economia messicana e quella americana aveva reso possibile non solo l’espansione del commercio, ma anche una progressiva commistione d’interessi.
Un ulteriore fattore che dette forza all’ambito economico fu la notevole espansione commerciale tra il 1914 e il 1920, conseguenza del fatto che la Prima Guerra Mondiale produsse una redistribuzione dei commerci e dei mercati, e un nuovo movimento di merci favorendo il loro riorientamento da e verso gli Stati Uniti e discapito della Gran Bretagna.
In questo periodo, mentre le esportazioni americane totali aumentavano di 4,7 volte (da 1745 a 8228 milioni di dollari) quelle verso l’America Latina aumentarono di 6,1 volte (da 263 a 1581 milioni di dollari) con la conseguenza che il peso di quest’area, per l’economia americana, crebbe notevolmente allargandosi ad interessare anche i paesi della zona meridionale.
Per quanto riguardò le importazioni di beni sudamericani, esse aumentarono di 4,5 volte (da 408 a 1812 milioni di dollari), mentre quelle totali solo di 3,4 volte mostrando che l’incremento dello scambio precedette l’incremento degli investimenti diretti, che a sua volta anticipò il boom dei prestiti negoziati dai governi latinoamericani sul mercato monetario di New York negli anni Venti: tra il 1914 e il 1919 soltanto 100 milioni di dollari furono investiti in obbligazioni dei governi sudamericani, mentre nel decennio seguente l’ammontare fu di un miliardo.
La crisi finanziaria del ‘19-20, arrestò temporaneamente il flusso di investimenti, che riprese con maggior vigore dopo il ‘21 tanto da arrivare nel 1939 a 3,6 miliardi di dollari.
Mentre la guerra contribuiva a sviluppare il capitalismo statunitense, le oligarchie latinoamericane si erano invece cullate nella speranza che a guerra finita tutto sarebbe tornato come prima, sottovalutando sia le mutazioni intervenute a livello dell’economia internazionale, sia le richieste sociali e politiche avanzate dai ceti medi in rapida ascesa.
Gli anni Dieci e Venti furono contrassegnati in America Latina da profonde contraddizioni.
La Rivoluzione Messicana (1910) da una parte, la vittoria dell’Union Civica Radical in Argentina (1914) dall’altra e le successive rivendicazioni in Cile, Perù, Venezuela, segnarono l’irruzione sulla scena dei ceti medi, portatori della crescente richiesta di una maggiore partecipazione politica, di un aumento del reddito e del livello di vita, di riforme sociali.
La penetrazione dell’imperialismo statunitense che avveniva in sostituzione di quella inglese, risultava particolarmente difficile nei paesi (Argentina, Brasile, Cile Uruguay) nei quali quest’ultima era particolarmente radicata, perciò, la necessità di evitare uno scontro con il capitale inglese, ridusse la possibilità di collegamento del capitale americano con le oligarchie locali che tuttavia, dopo il 1920, cadute le speranze di poter ritornare alla situazione prebellica, iniziavano a non vedere di buon occhio la continua espansione americana nel settore produttivo.
Nonostante ciò, l’imperialismo americano ebbe la capacità e l’abilità di penetrare tra gli spazi lasciati vuoti da quello britannico e giostrare tra le necessità dell’oligarchia e quelle dei ceti emergenti, sfruttandole o neutralizzandole, combattendole o alleandosi con esse e trovando nell’ideologia panamericanista (preesistente alle manifestazioni imperialiste e capace, quindi, di creare un movimento istituzionale trasversale, di pressione indiretta) la soluzione per ridurre la conflittualità e compattare le sue componenti.
Tuttavia, l’Unione Panamericana, e in particolare le Conferenze, non fecero altro che accentuare di volta in volta l’opposizione dei paesi latinoamericani alla penetrazione statunitense, non arrivando ai risultati che il governo americano si attendeva e inducendo l’imperialismo americano a cercare i suoi alleati non più gli Stati ma negli Stati latinoamericani.
La crisi economica mondiale e il ridimensionamento a breve e medio termine del ruolo mondiale dell’economia americana modificarono direttamente e indirettamente la forma che presentava l’imperialismo americano nelle aree latinoamericane.
Strettamente vincolata a questo ridimensionamento fu infatti l’ulteriore riduzione della componente militare che sfociò nella politica del “buon vicinato” enunciata dal Presidente F. Roosevelt nel 1933 e secondo la quale il governo americano avrebbe rispettato i suoi obblighi verso i paesi latinoamericani senza ledere i diritti di quest’ultimi.
Come con il panamericanismo, anche con questa politica, gli Stati Uniti cercavano di allineare i “vicini” alle proprie posizioni per rispondere, a breve termine, alle pressioni degli ambienti isolazionisti e preparare contemporaneamente, a medio termine, (sulla base della solidarietà emisferica) la lotta contro il nazi-fascismo voluta da altri gruppi americani.
Il principio secondo cui nella dominazione sull’ America Latina tutto era permesso tranne l’azione militare, oltre a liquidare la fase del protettorato ed aprire quella della sorveglianza[4], obbligava l’imperialismo a fare i conti con le molteplici realtà sudamericane con la conseguente individuazione di quelle forze sociali che erano suscettibili di diventare alleate.
Questa necessità rispondeva soprattutto alla diminuita forza del capitale americano dopo la crisi del ‘29, i cui investimenti, dal 1929 al 1940, passarono da 5,3 a 3,8 miliardi di dollari, riorientandosi (da un mercato monetario a un azionario) e riducendosi notevolmente nei settori dei servizi pubblici (ferrovie, tram, luce, telefoni ecc.) ed in particolare in quelli produttivi (specie il settore agricolo, meno quello minerario) ed allontanandosi, quindi, dalle roccaforti del potere oligarchico latifondista ed avvicinandosi ai ceti medi.
Le nuove interrelazioni, il New Deal[5] e la lotta al fascismo, fecero, così, di questi, degli alleati inconsapevoli dell’imperialismo.
Negli anni ‘30 Cuba tornò ad essere il laboratorio per la nuova forma di imperialismo che gli Stati Uniti assunsero dopo il 1929. Questo nuovo meccanismo consisteva essenzialmente nel legare in un unico strumento, le variabili economica e politica: con la creazione dell’Export-Import Bank nel 1934, qualsiasi prestito effettuato ad un paese latinoamericano, sentito il parere del Dipartimento di Stato e del Dipartimento del Commercio, veniva deliberato dal consiglio direttivo, (tutti azionisti di tale banca) e con il Fondo di Stabilizzazione (sempre nel ‘34) le autorità monetarie sudamericane regolavano il rapporto della propria moneta con il dollaro.
Quando nel 1945 la Giunta Interamericana di Difesa diventò permanente, e quando nel 1948 l’Unione Panamericana diventò l’attuale Organizzazione degli Stati Americani (OSA), si concluse la fase formativa dell’attuale imperialismo americano statunitense in America Latina.
Negli anni Quaranta e Cinquanta, infatti, con la guerra fredda, che favorì la repressione delle forze progressiste, l’espansione del capitale americano, la ripresa delle esportazioni e l’espansione dei mercati interni sudamericani con il conseguente incremento di reddito delle classi dominanti, l’imperialismo americano sembrò essersi saldamente e irrimediabilmente insediato nell’America latina.
Nel 1954 l’intervento americano in Guatemala, per stroncare le riforme sociali del presidente Arbenz e la nazionalizzazione delle piantagioni dell’americana United Fruit, ne fu la conferma.
Dopo il 1945 gli investimenti americani (soprattutto nel settore industriale e petrolifero) conobbero una nuova fase espansiva: dai tre miliardi di dollari del 46 si arrivò a 4,4 nel 50, a 6,1 nel 55 e a oltre 8,3 nel 60.
Dal 1955, però, si assistette ad un progressivo rallentamento delle esportazioni, a una riduzione del mercato interno, ma soprattutto ad un incremento delle tensioni sociali e politiche e all’incapacità di gestirle.
La rivoluzione cubana del 1959 rappresentò senza dubbio un elemento traumatizzante non solo per le oligarchie dell’America Latina, ma anche per gli Stati Uniti, provocando fratture difficilmente ricomponibili in seno all’Osa.
Il fallimento dell’invasione di Cuba nella Baia dei Porci, nel 1961, e l’inutilità delle misure adottate escludendo Cuba dall’Osa (1962), infatti, rappresentarono la più grande battaglia persa dall’imperialismo americano nella sua storia latinoamericana.
Gli anni Sessanta videro nascita e la fine della “Alleanza per il progresso” inaugurata dal Presidente Kennedy nel ’61, che avrebbe dovuto fare del governo americano il principale fornitore di aiuti e crediti, ma soprattutto che avrebbe aperto le porte dell’America Latina agli investimenti europei e giapponesi, ma che invece, risultando troppo dispendiosa e poco funzionale, fu abbandonata nel ‘63 per poi essere sostituita de quella che fu la dottrina Kissinger[6].
La fine dell’Alleanza per il progresso determinò anche la fine della politica multilaterale e il ritorno alla politica bilaterale e degli accordi speciali con determinati paesi, a cui, però, si affiancò un altro processo contrastante ma altrettanto caratteristico del ventennio 60-70, e cioè quello della presenza di multinazionali che continuavano ad agire multilateralmente.
E’ proprio questa alternanza di scelte politiche, la complessità e molteplicità dello scenario e l’ incertezza del panorama generale che ci portano a comprendere come i servizi segreti abbiano ricoperto un ruolo determinante in azioni che vanno dall’azione controrivoluzionaria, all’uccisione di esponenti politici, dal sabotaggio al capovolgimento di governi legittimi.
(continua)
[1] Ufficialmente il termine panamericanesimo viene fatto risalire alla convocazione della prima conferenza di tutti i paesi del continente che si tenne a Washington nel 1889, tuttavia il concetto risale a Bolivar, uno dei principali artefici dell’indipendenza delle colonie spagnole, che ne auspicò l’unione politica, prima, la cooperazione poi.
[2] Allen F., James Monroe: a biography, New York, 1987; Bendiscioli M.Gallia A., Documenti di storia contemporanea 1815-1970, Mursia, Milano, 1970; Perkins D, Storia della dottrina Monroe, Bologna, 1960; Poetker J. S., The Monroe Doctrine, Columbus, 1967.
[3] Politica del “Grosso bastone”: fu il nome con cui si definì la linea di Theodore Roosevelt, che citando un proverbio africano (parlate dolcemente, ma con un grosso bastone) proponeva gli Stati Uniti come poliziotto internazionale cui sarebbe spettato il compito di riportare l’ordine (se necessario con la forza) nelle finanze degli Stati latinoamericani a favore dei creditori, di qualsiasi nazionalità fossero.
[4] Dal 1933 fino alla presidenza Truman, gli Stati Uniti accettarono il principio di “non intervento” negli affari latinoamericani e si inaugurò la politica di “buon vicinato”.
[5] Piano di riforme economiche e sociali promosso dal presidente americano Franklin Delano Roosevelt fra il 1933 e il 1937, allo scopo di risollevare il Paese dalla grande depressione che aveva travolto gli Stati Uniti d`America a partire dal 1929.
[6] Legittimazione indistinta dell’uso della forza militare armata nella gestione dei rapporti con gli altri stati.