II. Cenni di storia del Cile nel Novecento: l`economia
Gli anni Cinquanta furono caratterizzati dalla dominazione dell’oligarchia sulle altre classi, grazie anche all’alleanza con il capitale monopolistico americano e alla voluta emarginazione della classe operaia.
Il presupposto economico della dominazione politica e sociale dell’oligarchia era la crescita del reddito nazionale e la sua distribuzione disuguale, che assicurava alla classe dominante un reddito crescente e soddisfaceva le esigenze della classe media che si riducevano sostanzialmente a tre: maggior reddito pro capite, aumento dell’occupazione tramite l’espansione della burocrazia statale e incremento della spesa pubblica a fini sociali (scuole, mutue, ospedali ecc.) .
La crescita del reddito nazionale era, inoltre, l’elemento basilare dell’alleanza tra capitale monopolistico americano e oligarchia, poiché una parte del reddito non consumato, incanalato dalla struttura finanziaria, serviva per espandere gli investimenti del capitale straniero.
Tuttavia, il rallentamento prima, e il ristagno poi, della crescita economica, imputabili alla deforme struttura economica e al rapporto asimmetrico tra l’economia cilena e l’economia internazionale, finirono con l’intaccare l’alleanza tra oligarchia e ceti medi, ma anche quella tra oligarchia e capitale americano: quest’ultimo, infatti assunse un ruolo non più semplicemente dominante, ma determinante nello sviluppo dei settori produttivi, estendendo di conseguenza la sua dominazione verso il settore industriale, dopo il 1950, e finanziario e dei servizi, dopo il 1960.
A sua volta l’oligarchia reagì al ristagno economico ridimensionandosi quantitativamente allo scopo di meglio organizzare la difesa dei propri interessi all’interno del paese e di ottenere migliori condizioni dal capitale estero.
Infatti, se tra il 1937 e il 1957 la concentrazione del capitale monopolistico nazionale progredì rapidamente, tra il 1957 e il 1968 il tasso di concentrazione si accelerò ulteriormente, il che, riportato a livello sociale, significò la riduzione in termini assoluti delle sue dimensioni.
L’oligarchia, dovendo agire come controparte del capitale americano, rappresentato nel paese da un numero ridotto di aziende e di funzionari, non poté farsi rappresentare dalle onnicomprensive confederazioni patronali esistenti e dovette quindi trovare una nuova formula che fu quella di dare il ruolo di proprio portavoce ufficioso alle banche, che assicuravano al capitale straniero il finanziamento per la sua espansione.
Mentre si sviluppò questa tendenza verso la costante concentrazione del capitale nazionale da una parte, e verso il suo intreccio con quello americano dall’altra, entrò in crisi il meccanismo per mezzo del quale l’eccedente generato dal settore rurale, controllato dall’oligarchia, veniva utilizzato per finanziare l’espansione del capitale americano e cileno.
L’oligarchia, per mantenere inalterata la propria forza, utilizzò lo stato e in special modo la spesa pubblica, che salì dal ’50 al ’70, dal 17% al 30%, assumendo così un ruolo dinamico negli investimenti totali: nel 1950 gli investimenti di origine statale rappresentarono il 39% del totale e nel 1970 il 77,5%[1].
Nonostante la forte espansione della spesa pubblica e la sua incidenza a livello degli investimenti totali, le entrate statali non registrarono una sostanziale variazione strutturale e l’unico cambiamento fu la maggiore incidenza percentuale delle tasse indirette e la diminuita partecipazione del capitale monopolistico americano nelle entrate statali: le tasse pagate da quest’ultimo rappresentavano il 21% delle entrate totali nel 1950, e il 14% nel 1970.
Il bilancio dello stato finì così col registrare disavanzi crescenti che finirono col renderlo dipendente dal finanziamento estero, che si moltiplicò per cinque tra il ‘50 e il ‘70.
Un maggiore intervento dello stato, il cui scopo fu di ristabilire l’equilibrio della preesistente alleanza imperialistica, risultò tuttavia inutile, non riuscendo ad impedire al capitale monopolistico e agli enti governativi americani di insediarsi in posizione minoritaria all’interno delle attività economiche gestite direttamente dallo stato cileno per mezzo della sua agenzia di sviluppo economico: la Corporacion de fomento[2].
Avvenne così che le attività economiche gestite direttamente dallo stato, che secondo i loro ispiratori (i partiti dei ceti medi) dovevano essere un polo di sviluppo alternativo a quello esistente, finirono con l’essere vincolate anch’esse all’alleanza imperialistica con l’unica differenza rispetto al settore privato, che in questo predominavano gli interessi del capitale monopolistico americano, mentre nel cosiddetto settore statale quelli dell’oligarchia.
La classe dominante, insomma, cercò di sfuggire alla dissoluzione attraverso una diversa interazione col capitale straniero, che le consentì di mantenere il predominio politico e sociale nonostante la sua debolezza strutturale a livello economico, mentre l’alleanza imperialistica riuscì inoltre a subordinare ai propri interessi anche i ceti medi attraverso la disuguale distribuzione del reddito nazionale, che permetteva l’incremento del reddito reale del ceto medio senza un ristagno del reddito reale dell’oligarchia e del capitale monopolistico, ma con l’appropriazione di una parte consistente del reddito della classe operaia.
Tra il 1940 e il 1953, infatti, si registrò una minore partecipazione del reddito da lavoro dipendente nel reddito nazionale, poiché i salariati (che rappresentano più della metà della popolazione occupata) videro diminuire la propria partecipazione del 7%, mentre gli stipendiati (i ceti medi) che rappresentano all’incirca il 10% degli occupati, videro aumentare la loro quota del 5%. Il reddito medio del ceto medio aumentò del 38% mentre quello del proletariato appena del 9%, cioè di una percentuale inferiore al tasso di incremento del reddito pro capite che era del 30%[3].
Tramite questo meccanismo, l’alleanza imperialistica, che a livello sociale rappresentava una minoranza assai ridotta, riuscì ad espandere la propria base sociale, senza peraltro essere costretta a sacrifici economici.
La crisi economica tra il 1950 e il 1970 portò ad un’ulteriore diminuzione della già esigua quota del reddito nazionale della classe operaia, ma proprio il ristagno economico di questo ventennio fece sì che l’alleanza imperialistica non fosse più in grado di continuare a premiare indiscriminatamente tutto il ceto medio, vedendosi costretta a fare una scelta ed abbandonando, così, il ceto medio legato alle attività produttive (artigiani, piccoli e medi imprenditori urbani e rurali) che subì una forte diminuzione della propria partecipazione al reddito nazionale.
La liquidazione del ceto medio non parassitario fu evidente soprattutto durante il governo della Dc: nel ’60 gli toccava il 21% nel ’69 soltanto il 14%, contemporaneamente, invece, le classi il cui reddito dipendeva da stipendio, videro aumentare la propria quota dal 30 al 33%[4].
Alla fine degli anni sessanta, infatti, la diminuzione della fetta spettante alla classe operaia e la volontà di creare una frattura all’interno di questa classe, finirono col determinare un reddito pro capite reale che non solo fu progressivamente decrescente, ma anche distribuito in modo non uniforme: alcune categorie di operai (quelli del rame e del petrolio, ad esempio) che rappresentavano una ridotta percentuale della forza lavoro salariata, ricevettero salari quattro volte superiori a quelli agricoli, e due volte superiori a quelli dell’industria. Differenze, queste, che non dipendevano dalla produttività, ma dalla volontà di spezzare la compattezza della classe, dando vita a una “aristocrazia operaia”.
Nel decennio del 1960, tuttavia, l’aggravarsi della crisi economica, rese impossibile mantenere sotto controllo la situazione. Tra il 1960 e il 1965 la forza-lavoro che ricevette un reddito di pura e semplice sussistenza aumentò da 1.300.000 a 1.400.000 cioè del 41 al 43%.
In particolare tre indici: la sindacalizzazione, gli scioperi e il progresso elettorale dei partiti di sinistra mostrarono la crescente tendenza ad un’opzione di tipo socialista, specialmente tra gli operai e contadini.
Per quanto riguarda il primo punto, tra il ‘60 e il ‘70, avvenne una forte espansione degli iscritti ai sindacati che passarono da 230.000 a 550.000 costituendo nel ’70, il 19,4% dei lavoratori e organizzando, nel periodo ’65-’68, scioperi per una media annua che passò da 141 a 1170 e che coinvolgevano 258.000 lavoratori[5].
Ci fu quindi una stretta relazione tra l’accelerazione della proletarizzazione, e la crescita in quantità e qualità delle organizzazioni del movimento operaio. In questo senso fu anche più indicativa la crescita dei partiti di sinistra e in special modo di quelli socialista e comunista che, sin dalla loro fondazione, preconizzavano l’instaurazione di un sistema socialista.
(continua)
[1] Sergio Ramos, Cile, un episodio della transizione, Bari, 1974 p. 48
[2] Ente statale per lo sviluppo industriale creata nel 1939
[3] Marcello Carmagnani, L’America Latina dal 500 a oggi. Nascita, espansione e crisi di un sistema feudale. Milano, 1975.p. 102
[4]Marcello Carmagnani, Unidad popular, in Mondo contemporaneo. Soria dell’America Latina, Torino, 1979, p. 410 e ss
[5] Barria Seron, Trayectoria y estructura del movimento sindacal cileno, 1646-1962, Santiago 1963 p 95